Della
leggenda di Schulz sono parte, dagli anni 1970, i suoi racconti. Una trentina,
in due raccolte, quella del titolo e “Il sanatorio all’insegna della
clessidra”, più “La Cometa”. Pubblicati da Schulz tra il 1935 e il 1938. L’edizione
del 1970 fu presentata da un (quasi) entusiasta Ripellino (che riprese la presentazione
in
“Saggi in forma di ballate”). Cataluccio
ripubblica la traduzione canonica di Anna Vivanti in una sorta di opera omnia, con
i saggi critici e politici- tradotti da Vera Verdiani e Andrzej Zelinski. Che hanno in effetti molti punti d’interesse. E con
l’aggiunta del “Libro idolatrico”, di Schulz illustratore - di donnine discinte,
come usava dire.
“Maturare verso l’infanzia” è il tratto
distintivo che Cataluccio trova in Schulz. In linea con la “giocoleria” che divertiva
Ripellino. Anzi, “una grande giocoleria metafisica”, metà Chagall metà Chaplin,
scrive Ripellino. Che lega l’immaginifico dei racconti alla “pittoricità” di
Schulz illustratore e della Secessione polacca. Ai racconti chassidici – forse senza
l’arguzia? A Kafka, di cui Schulz fu traduttore in polacco. Al contemporaneo
Mandel’stam di “Rumore del tempo” e del “Francobollo egiziano”, e più in
generale “all’acceso metaforismo dei poeti russi del Venti”. Tutte cose che si
ritrovano alla rilettura ma non risolvono. Cataluccio trova anche una
“sorprendente vicinanza” di Schulz teorico con la “Scienza Nuova” di Vico: “Il
mito è la testimonianza del primo linguaggio”. Che però non c’è nei racconti.
Burlesco,
a tratti, Schulz ha il merito di sottrarre il Padre, il vilain di quasi tutti i racconti, a un caso di Alzheimer, come oggi
lo si liquiderebbe. Ma facendone una figura di cartavelina, senza spessore. Troppo
per una trentina di racconti, che solo le stagioni intervallano, peraltro anch’esse
ripetitive, e il blando desiderio della serva di casa, la sola in carne. Grossman,
scrivendo di Schulz tre anni fa sul “New Yorker”, ha usato come titolo “L’età
del genio”, da uno dei racconti. Gli anni 1930 non si possono dire tali per uno
scrittore ebreo, ancorché polacco, ma ne dicono bene la temperie culturale.
Schulz è fine
scrittore di prose d’arte. Di vena surrealista, nei procedimenti e nei temi. Ha
Eresiarchi, scarpine feticcio, tempi trascoloranti, materie che si dissolvono e
spiriti che si materializzano. La nota estensione inerte (meccanica) dell’immaginario,
prolissa più che fantastica – Daumal, anche Roussel, più che Kafka. Alla
rincorsa dei “libri-leggende, libri mai scritti, libri-eterni pretendenti,
libri erranti e perduti in parti bus infidelium…” – in “Primavera”, il racconto
più prolisso di tutti. Il Libro è anche l’album dei francobolli – sempre in “Primavera”.
O Anna Csillag, Anna Stella in italiano, che propaganda una lozione per
capelli: breve, questa, ma “inferiore” all’originale, riprodotto in tutte le
lingue dell’impero cacaniano, tedesco, italiano, rumeno, russo, polacco, ceco,
etc.. In una col “signor Bosco di Milano, sedicente maestro di magia nera”. E
con la “cinica e perversa Magda Wang” antroposofa di Budapest. Perché, si sa, “tante
sono le vicende non nate”. Tutti personaggi, questi, del racconto “Il Libro”. Che
svolge un sillogismo: “Gli esegeti del Libro ritengono che tutti i libri
abbiano come meta l’Autentico. Essi vivono soltanto una vita presa a prestito…
Ciò significa che i libri diminuiscono, mentre l’Autentico cresce”.
Italo Calvino, in breve, nel risvolto della prima
edizione, lo dice: “Due immagini dominano queste pagine: quella del
Padre-Demiurgo e quella del Libro: il libro assoluto, totale, l’Autentico”. Ma
non è un’assoluzione.
Bruno Schulz, Le botteghe color cannella, Einaudi, pp. 530 € 24
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