Alvaro - Un lupo solitario. Nei collegi, negli altri studi fortuiti, al lavoro a Milano, a Parigi, a Berlino e infine a Roma. Anche da scrittore riconosciuto. E una sorta di autodidatta, malgrado gli studi. Per un isolamento costante che traluce dalla biografia, gli scritti, le narrazioni, benché fosse integrato nella migliore società culturale del tempo. Per una diversità che non gli viene perdonata e che lui, cosmopolita, non nasconde.
Si può dirla una caratteristica calabrese, l’irriducibiità. Da
Gioacchino da Fiore a Campanella e Alvaro. Se potesse esistere una
caratteristica regionale. Ma sì di una cultura, Di una tradizione e una forma mentis. Legata alla grecità,
persistente in Calabria più che altrove, e operante anche all’insaputa dei
soggetti? All’isolamento? All’orografia? Il calabrese è di montagna anche
quando sta al mare. Stilo è a pochi minuti dal mare, e quasi lo vede. O San
Luca, il posto più remoto della remota Calabria.
Bachmann – “La funebre Ingeborg Bachmann”
dice Paolo Isotta di passaggio nel lungo epicedio
domenica sul “Corriere
della sera” per Hans Werner Henze, uomo e musicista “solare”. Stigmatizzando al
fondo il sodalizio tra i due a Roma. Funebre? Ma dotata di grande energia, se
scrisse tanto. E anche di umana simpatia, se fu sempre corteggiata. È il
destino delle parole negative: presuppongono una forte energia. Che può essere
sfruttata, oppure no. Più forse delle aggettivazioni negative. Come per il
pessimismo. Per esempio di Baudelaire: che fu certamente pessimista e anche
suicidario, ma inventivo e socievolissimo, instancabile.
A Ingeborg Bachmann Isotta contrappone “lo straziante (in che
senso, n.d.r.?) verso di Trakl”, che pone alla radice di quanto di meglio – di
“più eccelso” – gli è capitato di ascoltare di musica contemporanea. Trakl che
invece era volutamente – di programma, di maniera – funereo.
Isotta, sembra di capire, mette Henze in collaborazione con
Bachmann per “Der junge Lord”, da un racconto fiabesco del giovane Hauff. E per “Die Bassariden”, da “Le Baccanti”. Ma la
scrittrice non c’entra nulla con “Le Bassaridi”: il libretto è di W.H.Auden, la traduzione tedesca di Marie
Basse-Sporleder. Il libretto di Ingeborg Bachmann per “Der junge Lord” è invece
una rarità nel teatro d’opera
contemporaneo: un’opera comica. Un soggetto proposto a Henze dalla stessa Bachmann.
Con Henze Bachmann collaborò fin dal 1965, col radiodramma “Le cicale”e con la pantomina “L'idiota”, nonché nel 1960 col libretto del “Principe di Homburg”. La corrispondenza tra Bachmann e Henze è vivace e sempre
amichevole, perfino intima.
Dante – Nekuia, il riferimento più comune a Dante è trascurato. Che lo
apparenta a Ulisse, e alla letteratura classica – ben prima di quella islamica
cui Maria Corti vorrebbe legarlo. Se ne trovano
tracce in uno o due saggi di Debenedetti, non su Dante, poi niente più. È
la catabasi, il viaggio nel mondo dei morti cui indulgono tanti personaggi del
mito, con un pizzico di necromanzia, il richiamo dei morti a predire il futuro.
Il primo caso, e il più celebrato, è quello di Ulisse, al canto XI
dell’“Odissea”. Mandato alle Bocche dell’Ade, di là dal fiume Oceano, vi
incontrerà Tiresia, al quale può domandare come tornare a Itaca. Attorniato da
visioni, anche sanguinose, rumori minacciosi, e anime di vecchi eroi con le
quali si intrattiene.
Il concetto, senza riferimento a Dante, c’è anche in Jung, al centro anzi
della sua psicologia analitica. Nekuia - “il viaggio notturno sul mare… la discesa nelle
viscere del mostro (viaggio all’inferno)” - Jung dice “una introversione del
cosciente negli strati più profondi della psyche inconscia”. Un percorso
positivo: “La nekuya non è una caduta
accidentale e distruttiva nell’abisso, ma una significativa catabasi…, il cui
oggetto è la restaurazione dell’uomo integrale”.
Incipit -
È trovata editoriale. Piccola, minima. Di nessun effetto sulla lettura, che
ingrana o non ingrana a prescindere. L’incipit più famoso, “A lungo mi sono coricato
di buonora”, avrebbe dovuto portare secondo il canone al rifiuto immediato
dell’opera. È anche vero che non stimola certo la lettura – a parte il fatto
che è falso: il Narratore viveva di notte.
Si
può coltivare in serra: un repertorio di incipit tutti fulminanti, a vario titolo,
non è impossibile né arduo.
Montanelli – Conformista del non conformismo. A
Milano, quarant’anni fa, ancora comodamente al “Corriere della sera”, sparlava
di Malaparte, suo quasi concittadino, camerata in fascismo, e compagno in
comunismo. Ha inventato i “Caratteri”, il suo lascito più solido, sulla traccia
dei “Caratteri” di Mario La Cava. Che rifaceva Schwob, o La Bruyére, eccetera,
fino a Plutarco, o meglio Svetonio.
Prendendo da Longanesi la scrittura per cui è famoso, lo scetticismo
burlesco, ma non la verecondia.
Quello che sarà “Il Giornale” studiò a fine 1973 di farsi
finanziare dall’Eni. Contro cui aveva condotto battaglie furibonde dieci anni
prima. Con documenti francesi. Per il tramite del consigliere Mario Castiello
d’Antonio, il tipo d’uomo, magistrato contabile, soave, impomatato, sfaticato, che il giornalista
quando scriveva sbeffeggiava. Per il solo motivo che il consigliere Castiello
conosceva il presidente dell’Eni Girotti. Poi “Il Giornale” lo fece con Cefis,
tramite Nino Albanese.
Era noto nell’industria di Stato agli
albori come il confidente dell’ambasciata Usa. E anche come mestatore.
L’ambasciatrice Clara Boothe Luce chiamava “Santa Chiara della democrazia”.
Negli stessi anni 1950 voleva un’organizzazione segreta, col maresciallo Messe
a capo, “vecchio e non molto intelligente”, per un governo di fascisti e
monarchici.
Il nome figura nel Gadfly, il tafano, racconto d’una
Ethel Boole Voynich, gentildonna irlandese sposata a un russo, libraia
antiquaria a Roma. Montanelli è un prete con figli, che rinnega uno di essi
quando è scoperto carbonaro, per non perdere il posto di cardinale, e lascia
che lo uccidano.
Eccelle nelle caratterizzazioni, come
usava nei vecchi film della commedia all’italiana: tipi semplificati e esagerati.
Soprattutto nelle caratterizzazioni nazionali. E qui per uno spirito limitato,
il toscanismo dei “maledetti toscani” di Malaparte, più che, forse, per
opportunismo: il gusto di sanzionare, meglio se con una battuta a effetto. Le
sue caratterizzazioni nazionali sono infatti sempre schematiche e volgari,
benché siano il suo pezzo di resistenza: l’italiano manchevole, lo straniero
manchevole ma preferibile. Da italiano
doc, secondo la sua stessa panoplia di valori. Con questi limiti immarcescibile
– è il nume tutelare della Rizzoli, una delle più grandi case editrici, e del
migliore giornalismo, nel senso del più ambizioso – e il faro delle Grandi
Firme. Tale che uno finisce invariabilmente – montanelianamanete – per
vergognarsi di essere italiano. Se non che c’è un’Italia che fa a meno di
Montanelli, che non compra il giornale. Oppure lo compra ma non lo legge. E se
lo legge non se ne lascia impressionare.
Voce - È ordinativa.
È melodica. Il canto è parte della musica. Ma la musica è vocale anche quando
non è cantata. La pianista Simone Dinnerstein lo dice (lo “sente”) di Bach e
Schubert: “La loro musica non-vocale ha un potente elemento narrativo, vocale.
L’effetto è quello di voci senza parole che cantano melodie senza testo”.
Lei
dice: “Suonano come qualcosa quasi detta”. Un verso di Philip Larkin: “The trees are coming into leaf\ like
something almost being said”. Dove la voce è linfa – delle foglie, dell’albero..
È
una forma della differenza, ma non una delle tante: una irrinunciabile. “Un passo
dal cielo”, la serie della Rai che potrebbe capitalizzare su paesaggi
mozzafiato e il popolarissimo Terence Hill, è invece insopportabile per la
pronuncia romanesca (centro-italica) dei
suoi attorucci. È anche una forma speciale di ottusità all’espressione vocale: sono
tutti italiani in un’area tedescofona – ci sono alcuni biondi, perché il
razzismo si vuole somatico, ma ben italiani. Mentre mescolando i personaggi,
come sono nella realtà di quelle valli, avrebbe potuto avere un ottimo mercato
in Centro-Europa, in Austria, Svizzera, Germania, etc.
letterautore@antiit.eu
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