Citazione - Presenta dei rischi.
Ma peggio della decostruzione è costruire ottocento pagine su mezza riga di
Nietzsche, l’autore più citabile e sfuggente. Il grande citatore Borges - “Io
torno sempre ai libri, alle citazioni” – ironizza: “Stiamo attenti, la vita
stessa può diventare una lunga citazione”. I pensieri sostituiscono il
pensiero, dice anche l’eufuista argentino. È vero, la citazione è spesso
manierata.
Nessuno
ricorda che Goethe fa dire a “Goetz”: “Lavatemi il culo”. Anche le lettere di
Mozart si evitano, la citazione si vuole autorevole. Peggio, si vuole la citazione
allusiva, una parola che apra le galassie, i cancelli dell’ignoto, le vie del
paradiso, la sapienza, l’eternità. Se ne fa anche la ripetizione: il filosofo
Crisippo riutilizzava intere opere di altri autori, per esempio la “Medea” di
Euripide. Mentre Epicuro, che ha scritto trecento volumi, non una sola volta
avrebbe citato qualcuno. Montaigne è esplicito: “Torco più spesso una buona
massima per cucirla su di me di quanto non torca il mio filo per andarle a cercare”.
Può infatti non esserci saggezza nell’autorevolezza: “Chi segue un altro non
segue nulla”, dice ancora Montaigne, il maggior citatore.
Ma resta la sorpresa, che è sempre
lieta. A opera soprattutto di copisti ignoti, i veri autori delle citazioni. “I
copisti correggevano talvolta il loro modello”, spiega Marc Bloch, “anche se
lavoravano indipendenti l’uno dall’altro”. Per saccenteria di glossatori,
malizia, pratica di grammatica, come i redattori e i correttori di bozze, o per
burla, ubriachezza, sonno. Avrà ragione il dottor Groddeck, che ogni uomo è
vissuto da qualcosa d’ignoto, un Es, “un’entità prodigiosa” che ne dirige
impulsi e pensieri. Perché è vero che la citazione è selettiva. Come ogni riflessione, fino ai mea culpa dall’analista.
Per Karl Kraus la citazione è “misura
magica”, la cui opera, dice Calasso, è tutta una citazione, della Cina che non
conosceva. La Cina è tutt’oggi una citazione, un’antologia di frasi fatte.
Dante - È matematico.
Ivana Vaccaroni ne allarga le competenze, in un saggio sul sito Rosebud
alla
numerologia. Patapievici ne aveva studiato le competenze geometriche e fisiche,
nel fortunato saggio “Gli occhi di Beatrice”. Vaccaroni ne allarga le
competenze, ben oltre la numerologia semplice nota (il tre, i multipli di tre,
il cento, il mille). In particolare spiega “il modo puramente matematico” con cui
Dante nel “Paradiso” costruisce il numero degli angeli, 10 seguito da 188 zeri,
“impossibile da leggere ma preciso”.
Ai vv. 91-93 del canto XXVIII: “L’incendio suo seguiva ogni scintilla;\ ed eran
tante,che ‘l numer loro\ più che ‘l doppiar delli scacchi s’inmilla”. Spiega
Vaccaroni: “Il riferimento è a una famosa leggenda in cui si narra la storia
dell’inventore degli scacchi che chiese in regalo al suo sovrano un chicco di
riso sulla prima casella della sua scacchiera 8 per 8, il doppio sulla seconda,
cioè 2, il doppio ancora sulla terza, cioè 4, e sempre raddoppiando,8, 16, 32,
64, e così via sulle caselle successive, fino all’ultima, la
sessantaquattresima. Il risultato è un numero enorme, più di 18 miliardi di
miliardi di chicchi. E il numero degli angeli sarebbe ancora più grande, perché
dovremmo rifare lo stesso calcolo, non con le potenze del due, ma con le
potenze del mille per arrivare quindi a dieci elevato alla centottantanovesima”.
Duras – Fu espulsa dal
partito Comunista Francese per avere scherzato al caffè, con gli amici, su Aragon.
Non fu propriamente espulsa, fu lei a non rinnovare la tessera nel 1950, dopo
essere stata processata, in una cistka
di sezione a Parigi, per “una vicenda di vespasiani intasati o di sessualità fangosa”, affermò nella lettera ai suoi compagni di cellula. La vera storia c’è
ora nei documenti pubblicati da Bruno Fuligni, che ha avuto accesso agli
archivi del Pcf, “La France Rouge. Un siècle d’histoire dans les archives du
Pcf (1871-1989)”. Della sessualità “trouble” non della scrittrice, come si
riteneva fino ad ora, ma degli intellettuali colonne del partito, Aragon, Elsa Triolet,
Jean Kanapa. Si sapeva che Duras era stata espulsa con l’accusa di “ninfomania”,
per aver convissuto con l’amante, Dionys Mascolo, e col marito, Robert Antelme.
L’accusa ci fua, ma il “processo” era stato avviato da una denuncia anonima
della conversazione di Marguerite Duras con altri amici al caffè Le Bonaparte,
un sera di maggio del 1949.
Giallo - È da Kant,
dalle esperienze e le categorie, che la narrazione, prima libera e divagante, è
concatenata: gli eventi intenzionali, benché soggettivi, non sono arbitrari -
su questa base si è poi costruito il giallo, il genere più popolare. Ma le tre
categorie principali, tempo, spazio, causalità, definiscono gli eventi e li
esauriscono, e questo non sta bene. Il sospetto apre già spazi interessanti. Sempre i belli-e-buoni, i santi, i rivoluzionari, presumono male,
a ragione, degli altri. Elevato
da Marx a legge, poi da Nietzsche e Freud, il sospetto può contare sulla prova di Lutero: non so se gli ebrei uccidono i bambini e
avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non glie-ne mancherebbe
la volontà. Se non che bisognerebbe prima conoscere tutti gli ebrei, uno per
uno. Fare spazio cioè pure
al non sospetto, altrimenti la prova è un sottoprodotto kantiano. C’è la
stupidità al mondo, l’indifferenza, e la passione. La quale, l’appassionato
Stendhal lo sa, non sta nelle tre categorie principali. È legge di Proust la Legge della composizione
costante, o delle proporzioni definite, e riguarda la chimica, delle passioni
incluse - di Joseph-Louis Proust, che visse un secolo prima.
Pasolini – Si voleva
Dante da ultimo nella “Divina Mimesis”, scialbo quadretto, mentre lo è tutto,
nella vita e nell’opera. Più propriamente, con stanze poundiane, nelle raccolte
“civili”. In “Trasumanar e organizzar”, anche in “La religione del mio tempo”,
e già in “Le ceneri di Gramsci”. Come pure nell’insieme: nell’immagine, nella
figurazione animica della natura, dell’universo, nell’ansia, lo sdegno, la
pulsione amorosa. Perfino - in un certo senso: del pudore o della repressione -
nella religiosità. Compresi da ultimo gli eccessi: “Teorema”, “Salò”, sono urla
da crocefisso.
Pseudonimo – L’identità
talvolta è camuffata, da Kierkegaard, Pessoa. O è negata. È il caso di Ettore Schmidt, in arte Svevo, accreditato di un romanzo quasi
postumo, e invece scrittore tra i più fertili, di una diecina di romanzi e
drammi, e centinaia di racconti, in sintonia col mondo vivente, che non si
pubblicavano. Uno per il quale, diceva, “scrivere è sentirsi vivi”.
Scrivere - “Io sono quello che mi racconto”, in
certo senso si può dirlo con Ricoeur. C’è a chi piacciono le zie. Le begonie
sul davanzale, i mobili cinesi laccati. O i mondi futuri. La “memoria
creatrice” di De Quincey ha abortito nell’“io odioso”. Nizamaddin Navoi, grande
poeta uzbeco del Quattrocento – oggi sarebbe afgano, essendo sepolto a Herat -
nonché filosofo e politico, autore celebrato della “Lingua degli uccelli”,
cantica mistica, agli allievi raccomandava di non scrivere
di pietre preziose: “Se volete creare le rose, siate terra”, diceva. Ma scrivere è
vivere, senza vergogna. Anche se non tutti si mettono nei loro personaggi.
Dumas, che si godeva la vita, scriveva dodici ore al giorno. Intrecci
fulminanti, d’amore e d’avventura, monologhi prensili, dialoghi a sorpresa,
storie che tengono vivo un buon terzo del passato in Francia, e molto anche in
Italia, i Borgia, i Borboni. Non potendo
vivere, sarebbe battere la lamiera. Come nella musica barocca, seriale e post,
l’arte minima, il flusso di coscienza, tutte espressione asemantiche. La
scrittura resiste al niente.
letterautore@antiit.eu
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