venerdì 30 novembre 2012

Letture - 119

letterautore

Citazione - Presenta dei rischi. Ma peggio della decostruzione è costruire ottocento pagine su mezza riga di Nietzsche, l’autore più citabile e sfuggente. Il grande citatore Borges - “Io torno sempre ai libri, alle citazioni” – ironizza: “Stiamo attenti, la vita stessa può diventare una lunga citazione”. I pensieri sostituiscono il pensiero, dice anche l’eufuista argentino. È vero, la citazione è spesso manierata.
Nessuno ricorda che Goethe fa dire a “Goetz”: “Lavatemi il culo”. Anche le lettere di Mozart si evitano, la citazione si vuole autorevole. Peggio, si vuole la citazione allusiva, una parola che apra le galassie, i cancelli dell’ignoto, le vie del paradiso, la sapienza, l’eternità. Se ne fa anche la ripetizione: il filosofo Crisippo riutilizzava intere opere di altri autori, per esempio la “Medea” di Euripide. Mentre Epicuro, che ha scritto trecento volumi, non una sola volta avrebbe citato qualcuno. Montaigne è esplicito: “Torco più spesso una buona massima per cucirla su di me di quanto non torca il mio filo per andarle a cercare”. Può infatti non esserci saggezza nell’autorevolezza: “Chi segue un altro non segue nulla”, dice ancora Montaigne, il maggior citatore.
Ma resta la sorpresa, che è sempre lieta. A opera soprattutto di copisti ignoti, i veri autori delle citazioni. “I copisti correggevano talvolta il loro modello”, spiega Marc Bloch, “anche se lavoravano indipendenti l’uno dall’altro”. Per saccenteria di glossatori, malizia, pratica di grammatica, come i redattori e i correttori di bozze, o per burla, ubriachezza, sonno. Avrà ragione il dottor Groddeck, che ogni uomo è vissuto da qualcosa d’ignoto, un Es, “un’entità prodigiosa” che ne dirige impulsi e pensieri. Perché è vero che la citazione è selettiva. Come ogni  riflessione, fino ai mea culpa dall’analista.

Per Karl Kraus la citazione è “misura magica”, la cui opera, dice Calasso, è tutta una citazione, della Cina che non conosceva. La Cina è tutt’oggi una citazione, un’antologia di frasi fatte.

Dante - È matematico. Ivana Vaccaroni ne allarga le competenze, in un saggio sul sito Rosebud
alla numerologia. Patapievici ne aveva studiato le competenze geometriche e fisiche, nel fortunato saggio “Gli occhi di Beatrice”. Vaccaroni ne allarga le competenze, ben oltre la numerologia semplice nota (il tre, i multipli di tre, il cento, il mille). In particolare spiega “il modo puramente matematico” con cui Dante nel “Paradiso” costruisce il numero degli angeli, 10 seguito da 188 zeri, “impossibile da leggere ma preciso”. Ai vv. 91-93 del canto XXVIII: “L’incendio suo seguiva ogni scintilla;\ ed eran tante,che ‘l numer loro\ più che ‘l doppiar delli scacchi s’inmilla”. Spiega Vaccaroni: “Il riferimento è a una famosa leggenda in cui si narra la storia dell’inventore degli scacchi che chiese in regalo al suo sovrano un chicco di riso sulla prima casella della sua scacchiera 8 per 8, il doppio sulla seconda, cioè 2, il doppio ancora sulla terza, cioè 4, e sempre raddoppiando,8, 16, 32, 64, e così via sulle caselle successive, fino all’ultima, la sessantaquattresima. Il risultato è un numero enorme, più di 18 miliardi di miliardi di chicchi. E il numero degli angeli sarebbe ancora più grande, perché dovremmo rifare lo stesso calcolo, non con le potenze del due, ma con le potenze del mille per arrivare quindi a dieci elevato alla centottantanovesima”.

Duras – Fu espulsa dal partito Comunista Francese per avere scherzato al caffè, con gli amici, su Aragon. Non fu propriamente espulsa, fu lei a non rinnovare la tessera nel 1950, dopo essere stata processata, in una cistka di sezione a Parigi, per “una vicenda di vespasiani intasati o di sessualità fangosa”, affermò nella lettera ai suoi compagni di cellula. La vera storia c’è ora nei documenti pubblicati da Bruno Fuligni, che ha avuto accesso agli archivi del Pcf, “La France Rouge. Un siècle d’histoire dans les archives du Pcf (1871-1989)”. Della sessualità “trouble” non della scrittrice, come si riteneva fino ad ora, ma degli intellettuali colonne del partito, Aragon, Elsa Triolet, Jean Kanapa. Si sapeva che Duras era stata espulsa con l’accusa di “ninfomania”, per aver convissuto con l’amante, Dionys Mascolo, e col marito, Robert Antelme. L’accusa ci fua, ma il “processo” era stato avviato da una denuncia anonima della conversazione di Marguerite Duras con altri amici al caffè Le Bonaparte, un sera di maggio del 1949.

Giallo - È da Kant, dalle esperienze e le categorie, che la narrazione, prima libera e divagante, è concatenata: gli eventi intenzionali, benché soggettivi, non sono arbitrari - su questa base si è poi costruito il giallo, il genere più popolare. Ma le tre categorie principali, tempo, spazio, causalità, definiscono gli eventi e li esauriscono, e questo non sta bene. Il sospetto apre già spazi interessanti. Sempre i belli-e-buoni, i santi, i rivoluzionari, presumono male, a ragione, degli altri. Elevato da Marx a legge, poi da Nietzsche e Freud, il sospetto può contare sulla prova di Lutero: non so se gli ebrei uccidono i bambini e avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non glie-ne mancherebbe la volontà. Se non che bisognerebbe prima conoscere tutti gli ebrei, uno per uno. Fare spazio cioè pure al non sospetto, altrimenti la prova è un sottoprodotto kantiano. C’è la stupidità al mondo, l’indifferenza, e la passione. La quale, l’appassionato Stendhal lo sa, non sta nelle tre categorie principali. È legge di Proust la Legge della composizione costante, o delle proporzioni definite, e riguarda la chimica, delle passioni incluse - di Joseph-Louis Proust, che visse un secolo prima.

Pasolini – Si voleva Dante da ultimo nella “Divina Mimesis”, scialbo quadretto, mentre lo è tutto, nella vita e nell’opera. Più propriamente, con stanze poundiane, nelle raccolte “civili”. In “Trasumanar e organizzar”, anche in “La religione del mio tempo”, e già in “Le ceneri di Gramsci”. Come pure nell’insieme: nell’immagine, nella figurazione animica della natura, dell’universo, nell’ansia, lo sdegno, la pulsione amorosa. Perfino - in un certo senso: del pudore o della repressione - nella religiosità. Compresi da ultimo gli eccessi: “Teorema”, “Salò”, sono urla da crocefisso.

Pseudonimo – L’identità talvolta è camuffata, da Kierkegaard, Pessoa. O è negata. È il caso di Ettore Schmidt, in arte Svevo, accreditato di un romanzo quasi postumo, e invece scrittore tra i più fertili, di una diecina di romanzi e drammi, e centinaia di racconti, in sintonia col mondo vivente, che non si pubblicavano. Uno per il quale, diceva, “scrivere è sentirsi vivi”.

Scrivere - “Io sono quello che mi racconto”, in certo senso si può dirlo con Ricoeur. C’è a chi piacciono le zie. Le begonie sul davanzale, i mobili cinesi laccati. O i mondi futuri. La “memoria creatrice” di De Quincey ha abortito nell’“io odioso”. Nizamaddin Navoi, grande poeta uzbeco del Quattrocento – oggi sarebbe afgano, essendo sepolto a Herat - nonché filosofo e politico, autore celebrato della “Lingua degli uccelli”, cantica mistica, agli allievi raccomandava di non scrivere di pietre preziose: “Se volete creare le rose, siate terra”, diceva. Ma scrivere è vivere, senza vergogna. Anche se non tutti si mettono nei loro personaggi. Dumas, che si godeva la vita, scriveva dodici ore al giorno. Intrecci fulminanti, d’amore e d’avventura, monologhi prensili, dialoghi a sorpresa, storie che tengono vivo un buon terzo del passato in Francia, e molto anche in Italia, i Borgia, i Borboni.  Non potendo vivere, sarebbe battere la lamiera. Come nella musica barocca, seriale e post, l’arte minima, il flusso di coscienza, tutte espressione asemantiche. La scrittura resiste al niente.

letterautore@antiit.eu

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