Sono, sarebbero,
anche un manuale del “perfetto amore”, nel senso della tradizione lulliana e
cortese. Durato due settimane, il tempo di una diecina di lettere – prima che
Višnjak raggiungesse la moglie e i figli al mare. Licenziato una dozzina d’anni
dopo a Parigi, quando Marina tradusse le lettere in francese per tentare una
pubblicazione, insieme con la “Lettera all’Amazzone”, vendibile, che la
risollevasse dalle miserie dell’emigrazione. Con una amazzonica vendetta: l’amato
le si ripresenta all’ultimo a un ballo in maschera a Parigi ridotto a una peluria
“a spazzola”, forse due paia di baffi sotto il naso, forse due sopraciglia
sopra gli occhiali – “è inutile aggiungere che non aveva mai portato gli
occhiali”.
Sarebbero se non
fosse per la portentosa introduzione di Serena Vitale, che fa aggio sul testo.
Ancora più imperiosa sul lettore di quella con cui nel 1983 la stessa Vitale
aveva presentato in prima mondiale queste lettere, insieme alla “Lettera
all’Amazzone” Natalie Barney (allora tradotte dal francese, qui in una nuova
traduzione dal testo russo originale, pubblicato nel 1997). Col corredo delle
note del marito Sergej e della figlia Ariadna (Alja), specialmente acute, e con
l’intento di redimerne “la folta leggenda degli amori”, Serena Vitale fa della
poetessa una svitata. Convincentemente. Marina s’innamorava ogni settimana, non
ci fu conoscenza di qualità, uomo o donna, che avvicinava di cui non
s’innamorasse. Parlando sempre di anima. In forme coscienti di autoinganno, una
sorta di eros solitario. Di cui poi “tutto viene trascritto in un libro”, dice
Sergej. Aggiungendo, paziente ma non del tutto: “Come una grandissima stufa
che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna”.
Serena Vitale
esordisce con Brjusov, che, “infreddolito e annoiato”, presiede nel febbraio
del 1921 “una serata di poetesse”, tra esse Marina Cvetaeva, così
apostrofandole: “Donna. Amore. Passione. Da che tempo è tempo la donna ha
saputo cantare soltanto l’amore e la passione. L’unica passione della donna è
l’amore. Ogni amore della donna è passione. Fuori dell’amore la donna, in arte,
è nulla…” Non è vero, ed è vero. La poesia femminile ha altre chiavi: il gioco
(Cavalli, Niccolai, Merini, Szymborska), la sofferenza (Merini, Nelly Sachs),
la politica (Szymborska) – argomentarlo è superfluo. Ma è vero che l’amore (la
vita contemplativa) è lo stato dominante della poesia al femminile. Forse non
passivo, non più, ma statico. E d’altra parte non delimitabile, non riflesso,
se non nei limti dello stato d’animo. E senza oggetto: non c’è una Beatrice
maschile - l’Altro – per un Dante femminile. Amore cosmico? Può darsi, ma è
immateriale, già in Saffo, poetessa del’amore. E molto parla dell’anima, la
“cosa” più sfuggente.
Cveateva, che si
vuole “pari” qui, “per forza”, a Rilke, a Pasternak, non vedeva la concreta
differenza, di genere e di tipo di forza. Ma la sua “anima” è concreta, è
corporale. In queste lettere, e in generale. Senza la “Lettera all’Amazzone”
che guarniva la precedente edizione trent’anni fa, l’amore di Cvetaeva può
sembrare un’altra cosa. L’amazzone avrebbe chiarito l’equivoco: Natalie
Clifford Barney, americana di Parigi negli anni folli, intrattenitrice della
migliore intellighenzia francese nel suo palazzetto di rue Jacob, scrittrice in
proprio, era “intrepida baciatrice”,
meglio se di poetesse. Ma anche con Višnjak Cvetaeva è concreta: “Uomo, io so
tutto, vi so superficiale, leggero, vuoto, ma la vostra animalità profonda mi
tocca più in profondità di altre anime”. Perché, “animale – che cosa c’è di più
animato, in effetti, di un animale?”
Bisognerebbe leggere
le due cose separatamente. O allora rifare le bucce a Serena Vitale, che non è
possibile. Qui Marina scrive delle vere lettere d’amore. Corpose.
Il titolo è in
omaggio a Heine, di cui Cvetaeva voleva tradurre a Berlino le “Notti
fiorentine”.
Marina Cvetaeva,
con un saggio di Serena Vitale, Le notti
fiorentine, Voland, p. 87 € 10
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