sabato 3 novembre 2012

Quando l’Italia conversava

La conversazione era un genere anch’esso italiano. Ora soppiantata dall’urlo, la polemica, l’invettiva, la condanna a morte, la guerra civile, nel frastuono, col solo obbiettivo d’impedire a ogni altro di farsi sentire. E quindi non sembra possibile. Ma ancora nel 1820 si fondava a Cambridge una Conversazione Society. Ancora nella prima metà dell’Ottocento i circoli borghesi si chiamavano spesso Circolo di Conversazione, Camera di Conversazione.
Amedeo Quondam ne ha fatto la rappresentazione e la storia non molti anni fa, con gusto anche se senza fortuna. Per “rabbia e orgoglio”, dice. Per rabbia contro l’esproprio che di questo “grande modello culturale della modernità” fece Parigi – un esproprio che era stato consacrato qualche anno prima anche in Italia da Benedetta Craveri, in un libro invece fortunato, “La civiltà della conversazione”. Il presidente degli italianisti riporta l’arte della conversazione al Rinascimento. Dalla fine del Quattrocento si susseguono le narrative e le normative del genere, col Castiglione, il Della Casa, Pontano, Guazzo – ma già, si potrebbe dire, con Boccaccio. Discorso diverso è naturalmente l’incidenza dei modelli culturali sulla società. O la cesura fra élite e popolo in Italia, specie del letterato-intellettuale, che si fa un dovere della torre d’avorio - diverso dal poeta, epico, fantastico, Barberino, Ariosto, Tasso.
Amedeo Quondam, La conversazione. Un modello italiano, Remainders, pp. XVII, 347, rilegato, € 12,60

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