Lucy Riall ha
scoperto Bronte ultimamente, e ci ha scritto sopra trecento inutili pagine. Se
non per la contabilità e la corrispondenza, di nessun interesse, degli eredi
dell’ammiraglio. Ci sono buoni spunti nel libro, ma si lasciano cadere. Il più
succoso è il “rischio” che la Sicilia corse di diventare un possedimento
britannico. Per la flotta, e per il monopolio delle esportazioni dell’isola,
zolfo, sali, agrumi, vino (il Marsala veniva commerciato dagli inglesi già nel
Settecento, come Madera di Bronte) – che è durato fino a questo dopoguerra, si
può aggiungere, ed è stato l’unica valvola di sviluppo non sovvenzionato della
Sicilia. Col nodo irrisolto: la Sicilia come uno dei luoghi “in cui la politica
liberale della Gran Bretagna in Europa si incontrava con il ruolo imperiale”. Un
altro spunto è quello delle plebi meridionali, che a Palermo erano come a
Napoli lazzaronesche, ma in piccola misura, soprattutto erano contadini senza
terra. Fino ai primi del Novecento, anzi fino al fascismo, malgrado una serie
infinita di rivendicazioni e di lotte, e la costituzione dei Fasci, la prima
organizzazione socialista in Italia.
Il resto è noto.
Da tempo Bronte non ha più il crisma dell’“antistoria” d’Italia che al nome impresse
Verga nel 1883, con la virulenta novella che intitolò “Libertà”. La rivolta del
1860 fu bestiale come si dice. Fu anzi una vendetta, contro una famiglia,
quella del notaio, non specialmente indiziata di colpe gravi. La repressione di
Bixio fu meno bestiale di quanto si dice, fu limitata anzi e ragionata. Col
solo possibile errore dell’inclusione, tra i cinque giustiziati, dell’avvocato
Niccolò Lombardo. Che però aveva aizzato alla rivolta – il nome è ferale a
Bronte: per il centocinquantenario Raffaele Lombardo escluse la città dalle
celebrazioni, non per colpa o demeriti ma per ripicca, il presidente della Regione essendo
in lite col suo compagno di partito sindaco di Bronte.
La contabilità e
la corrispondenza della ducea sono un secolo e mezzo di cause interminabili. Una
è durata, sembra di capire, settant’anni. Di che montarci, forse, una farsa: la
giustizia in Sicilia. La storica si stimola con fonti dell’attualità: Pino
Aprile, Sergio Rizzo, perfino “Ulisse”, la rivistina duty free dell’Alitalia. In armonia con la nuova euristica,
realytesca, della casa editrice. Anche Craxi ci mette di mezzo. Ma non dice niente
più di quello che sapevamo. “Sia i miti sia la storia di Bronte hanno molto da
dirci sulla Sicilia e sul mondo esterno”, è la sua conclusione e resta un buon
programma.
Un singolare
passo alla p. 205 espone i rischi della storiografia, quando si tratti della
Sicilia. Lucy Riall, studiosa emerita dei democratici a Palermo, è stata
presa a testimone l’anno scorso da Salvatore Lupo, nella ricostruzione de
“L’unificazione italiana”, sull’uso della criminalità da parte del governo di
Torino contro appunto i democratici. Lupo ricostruisce una serie di
intimidazioni mafiose, compresi accoltellamenti (i “pugnalatori” di Sciascia) e
lupare, contro gli esponenti democratici tra i moti del 1862 e quelli del 1866.
Era lo Stato-Mafia. Ma qui Lucy Riall dice lesta che mafiosi erano i
democratici. E chiama a testimone Lupo… Gli ultimi fatti certi risalgono a
Verre e a Cicerone, quando si tratta di Sicilia.
Il vassallaggio
è finito nel 1969, dopo vari tentativi sterili di ammodernamento della ducea. La retorica del vassallaggio è finita con la vendita delle terre a chi le
coltivava, e del castello di Maniace alla Regione Sicilia, da parte dell’ultimo
discendente di Nelson, “il più siciliano di tutti i duchi di Bronte”. Che coi
proventi fa il banchiere d’affari in Svizzera e nell’isola non è più tornato,
nemmeno in gita.
Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Laterza, pp.
354 € 20
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