Non fossero stati Monti
e Grilli, due milanesi, a fare il pasticcio dell’Imu, fossero stati due del
Sud, non li avremmo impiccati? A piazzale Loreto.
Imporre una tassa
onerosa ai più, e imporre, per due volte, di pagare uno che la calcoli.
“Perché non c’è l’apologia della mafia nel
codice penale?”, si chiedeva questo sito
l’altra settimana: “Nell’editoria, i media, gli spettacoli”. Prontamente Napoli ha arrestato i cantanti che
incensano il camorrista, il carcerato, il latitante. Ma ancora nulla per i
tanti giornalisti, scrittori, case editrici, che riempiono le edicole e le
librerie con mafiosi edificanti.
Il Nord ci preoccupa,
molto. C’è la siccità. Piove. Nevica. Non nevica. C’è la nebbia. C’è il
ghiaccio. Oppure, col sole, c’è la polvere. Anche le mosche, e molte zanzare,
di ogni tipo. Poi ci sono i ladri, che rubano.
Bisogna ammirare tanta
pienezza di sé: il Nord smentisce il vezzo culturale del millennio, che si dice
smarrito nella frantumazione del sé.
Ci preoccupiamo pure
per i casi di parricidio: i figli ammazzano i genitori. Ma, forse, non
abbastanza.
Il Sud si lamenta ma
non protesta. È convinto che, senza il
Nord, è fottuto. È il destino delle puttane, che si fanno improsare per
sopravvivere. Mai contente.
La criminalità si vuole
“organizzata”. “Organizzare”, nel tedesco del lager, significava rubare (è nella biografia di Primo Levi, p.
278). Dunque c’è un lager.
C’era fino alla guerra,
anche nei lager tedeschi, la Mafia
del Nord (ne parla Primo Levi nella “Tregua”).
Chi è chi
Il gioco dei caratteri
nazionali (“il tedesco è…”, “l’italiano è…”) non è innocente. All’origine e nell’effetto. Ci indulge anche
l’Enciclopedia Einaudi, ma non vuol dire.
È un gioco di potere, i
qualificativi si precisano e si impongono in corrispondenza dei ruoli. In Germania
si può dire che gli italiani sono mafiosi, in Italia non si può dire che i
tedeschi sono mafiosi. Anche se lo sono: assassini, taglieggiatori, usurai, per
un numero di delitti ogni maggiore che in Italia, in totale e pro capite.
Nord e Sud, nazioni
latine e nazioni germaniche, sono nozione romantica. Delio Cantimori lo spiega
nell’introduzione alla “Storia dei papi” di Leopold von Ranke: “La «Storia
delle nazioni latine e germaniche», che il Ranke chiamerà più tardi «preambolo»
di tutta la propria opera, è ancora legata alla tematica all’antitesi della
quale si compiaceranno i filosofi della storia e della politica e gli storici
dell’ultimo Settecento e del periodo romantico: nazioni o popoli nordici e
popoli e nazioni mediterranei, romanzi e teutonici, latini e germanici, che
celavano spesso a loro volta l’altra contrapposizione: cattolici e
protestanti”.
Già nel 1819 Sismondi ,
l’economista svizzero e storico dell’Italia medievale e della Francia cui tanto
si rifece Marx, produceva un “De la littérature du Midi de l’Europe”.
Jean Gottmann, “La
politique des États et leur géographie”, geografo tenuto in grande conto da
Ernst Jünger (“Il nodo di Gordio”, p. 139) ha il concetto di “iconografia
regionale”: ricordi storici, saghe, miti leggende, simboli, tabù. In cui si
viene riconosciuti e ci si riconosce.
Calabria
Pavese, al confino a
Brancaleone, sente “inutile” il cuore.
Sente anche se stesso
estraneo. Incapace di stabilire alcun contatto. Offeso più che indignato dalla
persecuzione. Senza curiosità.
Quando Budda lasciò la
casa del padre, narra Roberto Calasso in “Ka”, 62 erano le scuole di pensiero.
Sei i maestri eminenti. Uno di questi, Kakuda Katyayana, sosteneva che l’essere
umano si compone di sette elementi permanenti e che, quando qualcuno viene
assassinato, non vi è né uccisione né uccisore né ucciso. Lo stesso per la
nostra giustizia.
Sono di Calabria il
vescovo bisbetico e le formose sunamite che lo allattano e se ne impregnano,
nella novella dell’abate Casti.
“Quel furbo Calabrese
tutto vizio…” è nei “Rimorsi” di Du Bellay, LXII, pieno Cinquecento. Che
rifaceva Orazio.
La religiosità va con
l’eresia, la reazione col giacobinismo. Da Gioacchino da Fiore a Campanella, e
incluso l’asilo ai Valdesi nelle terribili persecuzioni di Pio V, culminate con
gli eccidi del duca di Alcalà vicerè di Napoli a San Sisto, Montalto e Guardia,
la storia “provvidenziale” va in Calabria nel senso della secolarizzazione del
mondo all’estremo. È paganesimo? È anarchismo? È passione? È lo strapotere
della logica. Che sempre è perfida. Da qui la mitezza estrema, fino alla
sfinimento – e le terribili collere d’un momento.
Uno dei ritratti più
vivaci di Norman Douglas in “Vecchia Calabria” è dell’impiegato nevrotizzato
perché non fa colazione, la mattina prende solo un caffè. Chi non fa colazione
la mattina, spiega Walter Benjamin (in “Colazioni”, un brano di “Senso unico”)
è uno che non vuole interrompere i sogni, la condizione onirica: “Chi ripugna
al contatto del giorno, sia per paura degli uomini sia per desiderio di
raccoglimento intimo, sdegna la prima colazione. Evita così la rottura tra il
mondo della notte e il mondo del giono””. Non si fa colazione per misantropia.
C’è una diversità di
tratto, notevole, fra gli scrittori calabresi che sono rimasti in Calabria, La
Cava, Seminara, Delfino, Zappone, e quelli emigrati, Répaci, Strati, Abate –
Alvaro sta in mezzo. È l’umbratilità, una sorta di pudore: un’esposizione
minima dei sentimenti, le collere, le passioni, le delusioni, indiretta,
allusa. Potendo contare naturalmente su un linguaggio inespresso condiviso.
Walter Benjamin ha una
ragione più sottile per questo, nel breve brano “Pompa di benzina”, compreso in
“Senso unico”: La scrittura, per essere efficace, deve nascere da “uno scambio
rigoroso con l’azione”. Senza forzature, sia pure pedagogiche o a fin di bene: “Le
forme modeste danno alla scrittura più influenza nelle comunità attive del
gesto universale e pretenzioso del libro”. È come quando si olia la macchina:
“Non si inondano di olio i pistoni, si versano alcune gocce su snodi e giunti
nascosti che bisogna individuare”.
La Calabria è “quel
posto che dà un calcio in culo alla Sicilia” nell’osceno Théophile Gautier
delle “Lettere alla presidentessa”.
leuzzi@antiit.eu
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