C’è
una sproporzione evidente tra gli sforzi degli italiani per la pace nel mondo,
per lo sviluppo del Terzo mondo e contro la pena di morte, e l’insensibilità
verso il più grande dramma che l’Italia sta vivendo dopo la guerra, il mercato
inumano degli immigrati. Il numero delle morti, quasi giornaliere, ha ben
superato in pochi anni perfino la serie storica di faide e stragi per mafia - della quale è peraltro uno dei filoni di ricchezza. Le condizioni di queste morti,
lente, di massa, e quasi attese, in mesi e anni d’incertezze e peripezie, per
inedia, per rabbia, per avidità, per la rabbia del mare e dei venti, l’incuria
delle metropoli. Morti, peraltro, che hanno tutto per un drammatico montaggio,
nella civiltà dell’immagine e dell’eccesso, e tuttavia sono uscite perfino
dalla lista delle notizie: non solo non suscitano emozione ma nemmeno
curiosità. Nemmeno localmente, nel crotonese, nel ragusano, a Lampedusa, nei
luoghi d’approdo nei cui pressi queste stragi si consumano.
L’accoglienza
è resa difficile e quasi impossibile. A meno di un’eroica predisposizione, o di
un bisogno urgentissimo. Il raffronto col mercato delle braccia dei paesi del
Golfo Persico, l’unico mercato intermedio tra i grandi flussi di emigrazione e l’Europa, lo spiega. Il Golfo è più vicino, più accessibile e, per la quasi
totalità degli immigrati, ha in comune la stessa cultura religiosa, mentale,
civile e, grazie al Corano, un minimo comune denominatore di lingua e di linguaggio. Ciò malgrado, l’immigrato, da manovale fino a autista, è pagato un dollaro l’ora. Trecento
dollari al mese se lavora dieci ore al giorno. Entro uno standard di vita locale carissimo. In Europa i badanti prendono
subito 500-600 euro al mese, 700-800 dollari, e 900 dopo qualche giorno, il
tempo di andare al patronato e informarsi dei propri diritti. Converrebbe averli anche cittadini a ogni effetto, buoni cittadini, lavoratori onesti, e invece non devono esistere.
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