È
una carrellata cinematografica incalzante, unitaria, di primi piani che si
sovrappongono in un interno. Il giurista Savigny, “l’uomo che si fa da sé il
suo destino. Ricco, indipendente, sovrano”, il dottor Georg Wedekind, giacobino
dichiarato e framassone, di nobile schiatta, i fratelli Brentano, “tutti
affascinanti, compreso l’uomo, ognuno a proprio modo. Gli occhi scuri, la
fronte pallida, i crespi capelli bruni. Impronta italiana”, Clemens, Bettina e
Gunda (Kunigunda), Lisette von Esenbenck, la giovane donna forse più colta di Francoforte,
specialista di letteratura francese e inglese, buona conoscitrice di lingue
slave, studiosa d’italiano e spagnolo. E von Kleist, che ancora non ha scritto
“l’opera”. E Karoline von Günderrode,
innamorata non corrisposta di Savigny - “dove io sono di casa l’amore esiste
solo a prezzo della morte”. Il finto ricevimento potrebbe pure essere quello
del matrimonio di Gunda Brentano con Savigny, nella bella proprietà dei Savigny
a Trages, cui Karoline presenziò. Non che i Brentano fossero da meno: erano i
figli di Pietro Antonio, il commerciante lombardo all’ingrosso le
cui due mogli furono entrambe corrispondenti di Goethe, e la cui casa a
Francoforte, “Alla Testa d’oro”, nella Sandgasse, fu il punto d’incontro della
buona società francofortese.
Il “romanzo” si vuole di Karoline
e Kleist. Che non si sono mai incontrati ma si parlano, nella comune ambizione
alla poesia. E nel comune disagio nel genere – “maschile e
femminile, così come sono concepiti, sono di ostacolo all’umanità”. Questa e
altre interlocuzioni (suggestioni di dialogo) Christa Wolf riprende dalle
lettere e le opere dei due poeti: “Non siamo fatti per quello cui aspiriamo”,
“Invidio i fiumi, che si riuniscono”,.”Anch’io sarò un giorno un cadavere nella
memoria degli uomini. È questo che chiamano immortalità?” Tutto il pastiche è composto con grande
virtuosisimo da frasi dette o scritte dei vari personaggi. Così di Lisette von
Mettingh, personaggio di contorno compreso in mezza pagina, fresca posa del
futuro grande botanico Nees von Esenbenck, s’impongono ingombranti l’amore più
che sororale da lei provato per Karoline, con sua propria sorpresa, di cui racconta
in una lettera, e la gelosia per il rapporto a suo avviso troppo stretto fra Karoline
e Bettina. Lei è sempre “la” Günderrode: l’uso lombardo (tedesco) ne marca la differenza
– come nel romanzo epistolare che ne aveva tratto la sua amica Bettina Brentano
(poi sposa) von Arnim.
I
due si parlano in colloquio
muto. In realtà in monologo, ora di lui ora di lei. Fratto, come la scrittura:
breve, allusiva. Algida, e ostica ai più. Il lettore deve sapere molte cose per
apprezzare. Sapere più della scrittrice: è, sulla traccia esile dell’amore
infelice di Karoline per Savigny, un intreccio di idee. Quelle dell’epoca e
quelle a venire. È il 1804, Karoline e Heinrich si suicideranno, lei nel 1806, lui nel 1811. Di
illusioni, delusioni, e approssimazioni. In un parterre di eletti che non si
ritrovano, in “nessun luogo, da nessuna parte”. In realtà voraci conquistatori
della letteratura nei loro anni, la cui disperazione è l’ambizione. “Chi sono
io”, si chiede Kleist: “Sottufficiale senza spada. Studente senza scienza.
Funzionario senza incarico. Autore senza opera. Malato nell’animo”.
Junker prussiano, a 15 anni alfiere del re di Prussia, Kleist è un altro che “impazzisce” tornando dalla Francia, come poi Hölderlin, e Nietzsche. Malati di libertà li vogliono gli editori italiani, rivoluzionari che Napoleone tradiva. No. Von Kleist torna deluso da Parigi, e con l’esaurimento nervoso, perché la mancata invasione dell’Inghilterra lo ha privato della possibilità di eroicizzarsi in una guerra. Era balbuziente. Era ambiziosissimo. Odiava Goethe.
Karoline von Günderrode si pugnalerà al bordo del Reno, con un sacco pieno di pietre attorno al collo per poter eventualmente anche annegare, quando l’amante filologo Creuzer tornò dalla moglie. Creuzer, di cui si traducono ora, dopo quasi due secoli, i saggi su simbologia e mitologia, non era che un “poligrafo d’antico stile” secondo Erwin Rohde, il filologo amico di Nietzsche, che fu l’editore nel 1896 delle lettere e le poesie sue e di Karoline. A Savigny, suo precedente amore, Karoline aveva indirizzato la composizione “Il bacio in sogno” (“Da un romanzo inedito”: “Con un bacio m’ha insufflato la vita…”) due giorni prima del suo matrimonio, al quale poi lungamente presenziò, prima e dopo la cerimonia. Karoline è – ma qui non è detto – autrice di poesie di duratura profondità e fantasia (che incredibilmente non si traducono - ne ha una “A Eusebio”…) e “la” bellezza inarrivabile, inattingibile, della poesia, per avvenenza, sapienza, grazia, giovanissima.
Junker prussiano, a 15 anni alfiere del re di Prussia, Kleist è un altro che “impazzisce” tornando dalla Francia, come poi Hölderlin, e Nietzsche. Malati di libertà li vogliono gli editori italiani, rivoluzionari che Napoleone tradiva. No. Von Kleist torna deluso da Parigi, e con l’esaurimento nervoso, perché la mancata invasione dell’Inghilterra lo ha privato della possibilità di eroicizzarsi in una guerra. Era balbuziente. Era ambiziosissimo. Odiava Goethe.
Karoline von Günderrode si pugnalerà al bordo del Reno, con un sacco pieno di pietre attorno al collo per poter eventualmente anche annegare, quando l’amante filologo Creuzer tornò dalla moglie. Creuzer, di cui si traducono ora, dopo quasi due secoli, i saggi su simbologia e mitologia, non era che un “poligrafo d’antico stile” secondo Erwin Rohde, il filologo amico di Nietzsche, che fu l’editore nel 1896 delle lettere e le poesie sue e di Karoline. A Savigny, suo precedente amore, Karoline aveva indirizzato la composizione “Il bacio in sogno” (“Da un romanzo inedito”: “Con un bacio m’ha insufflato la vita…”) due giorni prima del suo matrimonio, al quale poi lungamente presenziò, prima e dopo la cerimonia. Karoline è – ma qui non è detto – autrice di poesie di duratura profondità e fantasia (che incredibilmente non si traducono - ne ha una “A Eusebio”…) e “la” bellezza inarrivabile, inattingibile, della poesia, per avvenenza, sapienza, grazia, giovanissima.
Il pastiche è insomma pasticciato. Un’esibizione di perizia, del formalismo cui
il Diamat ridusse la Germania comunista nel dopoguerra, come già la Russia. Un
testo di ripicca, lo dice Anita Raja, dopo l’espulsione dalla Germania
Orientale di Wolf Biermann, poeta e musicista, e la sua successiva privazione
della cittadinanza nel 1976. Chi protestò in favore di Biermann, come Christa
Wolf, fu escluso dal sindacato scrittori e dai suoi piccoli privilegi. Ma è
della libertà nelle Germania Est come di quella sotto Napoleone, un desiderio
degli editori.
Sacra rappresentazione
Sono
due false rappresentazioni, sia di von Kleist sia di von Günderrode. I
personaggi sono noti, vivono al di fuori di questo travisamento, e non sono gli
stessi – non quelli dell’ottica della
rappresentazione. I romantici hanno scritto molto attorno a se stessi,
soprattutto in Germania, soprattutto le donne. Anche Karoline von Günderrode, malgrado
i pochi anni vissuti, e le difficoltà pratiche (viveva dai 19 anni in un
convento, una specie di suora laica), e von Kleist. Lettere lunghissime, che
però nascondono più di quanto dicono, di quelli che “spaccano il capello” dei
sentimenti, una sorta di scissione a catena, le cose e i fatti dovendo
seppellire sono l’aura della morte. La morte in epoca romantica, e fino al
simbolismo un secolo dopo, non saprebbe uscire fuori dalla serra
dell’autoinganno di Praz, del compiacimento. Ineliminabile in chi scrive molto,
curato, senza mai trascurare il già detto, una virgola, una sfumatura, pretenzioso.
E poeta molto, con esercizio attento, acuto, delle varianti, sorvegliato e non
d’impeto. Solitario perché eroicizzante, ma molto socievole. Il suo mal di
vivere porta a concepire indotto, di serra appunto, artificioso.
È
la debolezza del romanzo storico, quando non sia arbitrariamente manipolato: se
deve rispettare i suoi personaggi, non può farli interagire convenientemente,
non per la narrazione. Christa Wolf li fa poi parlare come nel Seicento le
preziose – le “preziose ridicole” di Molière. A lei fa dire, dopo varie
vaghezze sovrasensibili, che siamo noi, in qualche modo, il nostro
destino, “che segretamente provochiamo
noi quel che ci accade”. E a lui, che vanta di aver visitato molti mondi,
Magonza, Francoforte, Heidelberg, Parigi, per cercarvi modelli di vita che non ci ha trovato, che “a volte avverte fin dentro il midollo il fastidioso moto
rotatorio del globo terrestre”. Senza grandezza in realtà, nulla più della
pariniana ipocondria.
Ma
c’è di più. La costruzione
di Christa Wolf, che pure fu editrice e studiosa di Karoline von Günderrode (il suo lungo saggio bio-critico,
“L’ombra di un sogno” è ora in C.Wolf,
“The Author’s Dimension”, selezione di saggi, letterari e autobiografici), depista
il lettore. Che esce dalla storia non amandola, frastornato e più arrabbiato. Tanto
più per essere opera d’autore: Christa Wolf è una forte scrittrice ancorata al
Diamat, il materialismo dialettico o comunismo compiuto, come lo pensavano a
Berlino Est, fino a dopo la Caduta del Muro. A quale precetto del Diamat – il lettore
non può non chiederselo – rispondono gli umbratili repartees della
rappresentazione? Al genio nazionale. Al nazionalismo. Con mano trepida, molto
partecipe, al punto di falsificare il tutto.
Una pulsione di morte ne è l’essenza. Si
dovrebbe dire del romanticismo eterno. Ma nell’accezione tedesca, del culto
wertheriano della morte. Che retroillumina la tebaide di Berlino-Pankow, che di
queste efflorescenze si compiaceva, e la stessa roccia Christa Wolf. Di lei si
volle dopo la Caduta farla passare per spia della Stasi, la polizia segreta.
Mentre ne fu IM (inoffizieller Mitarbeter),
collaboratrice confidenziale per tre anni quando ne aveva trenta, probabilmente
non volontaria, giacché fu dismessa per “reticenza”, e fu poi spiata a sua volta.
Ma proprio per questo è una che non può dire “non c’ero”. E più per le tante
fughe per le quali è famosa nei suoi scritti, nella falsa Troia di “Cassandra”
o in questo falso romanticismo. Rimproverata ultimamente per la sua fedeltà, si
giustificò dicendo: “I miei lettori mi volevano là”, nel mezzo del regime. Per
lavarsene la coscienza nel mentre lo celebravano? Il romanzo storico prende
così un’inverosimgilianza al quadrato, quando l’autore abusa dei suoi
personaggi, o è ipocrita.
“Dentro di me
io porto un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si
sforza, si sforza, ma non riesce a maturare”. Lo scriveva Heinrich von Kleist a
un’amica, Adolphine von Werreck,
da Parigi, il 28 luglio 1801. La citazione, in epigrafe al “romanzo”, non è avulsa.
Christa
Wolf, Nessun luogo, da nessuna parte,
E/O, pp. 118 € 7,50 (ebook € 5,99)
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