Citazione - La citazione
è per i più una eco, la frase famosa o curiosa. La “mite intermediaria” di
Thomas Mann, gesta auctoris per auctores,
“una quanto mai moderna arte”. Colpa veniale se si perdona a personaggi di ben
maggiore qualità, come lo stesso Mann – che “dopo di me”, dice nelle prefazioni
che ama a se stesso, “citare è stato sentito come un’arte, simile a quella
d’inserire il dialogo nella narrazione, si sono cercati analoghi effetti di
ritmo”. Similmente per le identità false, gli pseudonimi o eteronimi.
In musica la citazione è tutto, in
letteratura è diverso, che ha funzione conoscitiva prima che estetica.
L’originale è soggetto a tagli redazionali e refusi, agli errori di copisti,
editori, proti, e ciò malgrado si persevera: Platone è sempre materia per l’ipse dixit, o Marx e Lenin, cosa hanno
veramente detto. La filologia è un imbuto sul nulla.
Confessione - Borges vuole
scrivere “una storia che abbia la qualità del sogno”. Ne ha scritte molte,
tutte sognanti, ma non ne è contento. Gli manca la più onirica di tutte, che è
la vita. Ma
è difficile che un memorialista si faccia apprezzare, parlandosi d’abitudine
addosso, il suo diventa un esercizio di autocompassione. È vero che l’epoca vuole viscere in vista, ma le confessioni
vengono bene quanto meno uno ha da dire. Fanno bene gli scrittori americani a
confezionarsi strane biografie, dopodiché non hanno più nulla da spartire con
quanto narrano, non che si veda, non che se ne debbano giustificare. La
confessione porta a galla il peggio di sé, lo dilata, lo moltiplica, lo
metastasizza. O la solitudine, che è la stessa cosa.
Scrivere è certo operazione mentale, che
altro? Ma la censura, diceva Melchiorre Grimm, ha fatto dei francesi scrittori
superiori, più considerati, saggi. La scrittura è misura. La confessione
scritta invece dilaga perché ciò risponde alla sua natura. La confessione come genere letterario è interminabile,
insopportabile logorrea - se è letteratura è già scremata, e ben costruita, dai
tempi di Esiodo, di Virgilio, quello che si intende per confessione sono i mal
di pancia e le insonnie, il sogno vigile. È genere infetto, da sbirri e
confidenti, e divani da analista.
Filologia – Può essere un
imbuto sul nulla. Errori o burle di copisti. Falsi anche.
Giornalismo – “Citizen
Kane”, o “Quarto Potere” Borges trovava nel 1941, all’uscita, “un film
opprimente”. Che “perdurerà, come
«perdurano» certi film di Griffith o di Pudovkin”, ma nessuno andrà a rivedere.
Per soffrire “di gigantismo, di pedanteria, di tedio”.
Orson
Welles “non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di
questa mala parola”. Un filma “banale” nella prima parte, del milionario che
accumula. “Oppressivo” nella seconda, che unisce “al ricordo di Kohelet quello
di un altro nichilista: Franz Kafka”. Attorno a pletore di giornalisti che,
come gli scrittori, “sono essenzialmente orribili”.
Ironia – Si
può pensare tutta la “Ricerca” una colossale forma d’ironia, altrimenti tutto
rasenta il ridicolo: la gelosia in mille pagine (mille!, di uno, il narratore,
che non è mai stato innamorato, si sa, si sente), i
froci, le lesbiche, le puttanelle, i borghesi pieni di sé, il padre-Cottard, la
madre-Verdurin (o madame Straus e le altre madri alternative), gli stessi
duchi, a loro volta snob. Ma non senza compassione, che ne è la chiave:
l’autoconsolazione.
In letteratura è trivella, su multistrati di significati, parodia, scherzo, critica indiretta (occhio critico) - se sottolineata è peraltro censoria, ridicola. Oppure è cinica: in entrambi i casi settatrice, disseccatrice.
In letteratura è trivella, su multistrati di significati, parodia, scherzo, critica indiretta (occhio critico) - se sottolineata è peraltro censoria, ridicola. Oppure è cinica: in entrambi i casi settatrice, disseccatrice.
L’ironia
è la narrazione il cui oggetto è la narrazione – tutto Proust.
L’ironia non regge una narrativa, solo
l’aneddotica. Bisogna lievitarla – alleviarla – al modo dell’Ariosto, per una
lettura multiforme, più immaginativa che critica, esagerata, e diventa
patrimonio popolare.
No, l’ironia (Swift, Voltaire, anche
Sterne) è un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: per questo
dissecca. Il ruolo è semplice, è il cazzaro, il Ketzer
tedesco, che è un po’ eretico. Ed è molto frequentato: Tersite, Bertoldo, Marcolfo,
Giufà, Candido – anche se
è spessa la tradizione di chi aborrisce Candido, fino a Mauriac: l’ironia
dissecca chi la pratica.
Italiano – Gli
italiani parlano in versi senza saperlo. Sciascia porta gli esempi (“poesia
romanesca”, 77) che fondano l’osservazione di Silvio D’Amico: “Mezza granita di
caffè con panna”, “Si prega di chiudere la porta”. Solo gli italiani fanno
versi quotidiani? O è l’abitudine a guardarsi l’ombelico, degli italiani, dei
siciliani, dei palermitani?
Sia l’italianità lo sguardo, la
seduzione, il desiderio, la furberia. È italiana Trieste (Svevo, Saba), è
italiana Genova (Montale, De André), e perfino Torino (Cavour, De Amicis,
Gozzano, Pavese). Non lo sono Manzoni, Cattaneo, gli scapigliati, che
costruiscono la gelosia dai libri. La “passione” di Stendhal manca proprio a
Milano e dintorni: l’occhiata, l’illusione, l’appuntamento rinviato. Milano non
si differenzierebbe da Francoforte, se non perché non ha il fiume, e ha meno il
gusto delle idee.
Leggere - L’identità è
privilegio di chi legge, sia pure il manovale friulano che legge “La Gazzetta
dello Sport” la domenica pomeriggio alla stazione di Colonia. Un manovale
friulano a Colonia resta un manovale friulano a Colonia, ma leggere lo situa
tra l’antico Egitto e la costellazione Andromeda, in ruoli ambìti, eroe,
amante, artista, poeta, o anche traditore, in ozio. La lettura crea questo
portento. Ci si può arrivare di testa, ma con limiti, che la lettura invece
abbatte, fino alla perdita di sé, che è prova di esistenza, leggendo secondo la
ricetta dei maestri antichi, leggeri - tutto altrimenti si fa esatto, saputo,
ridicolo.
Rousseau
dice che leggere fa male. Voleva per questo limitare l’apprendimento delle
lingue: “Lo spagnolo e l’italiano non servono ad altro che a dare la
possibilità di leggere libri nocivi”. Leggere libri in italiano è dunque nocivo.
In ottima salute dev’essere il popolo basco, che ha una lingua senza scrittura.
Anche McLuhan dice pericolosa la lettura.
Ne “Gli strumenti del comunicare”, 1956, diceva che l’elettronica priva l’uomo della sua identità e della morale: “Le
persone vanno al lavoro principalmente per leggere”. Tutti ogni tanto
dicono sciocchezze.
Ma
è pure vero che a un certo punto non
bisogna più leggere, la lettura salva sempre, da se stessi e dagli altri. Mentre
più spesso c’è poco da leggere, o da giustificare l’ozio. Perché la lettura è
occupazione oziosa. Bisogna essere per l’educazione permanente, mescolarsi,
lasciar scadere la ragione, e la morale. Dall’ozio comunque escludere la
lettura: chi pensava e scriveva molto nell’antichità, Omero per esempio,
Platone, Aristotele, Aristofane è uno che lo diceva anche, a un certo pun-to
chiudeva i libri, il poeta e il filosofo sono gente d’azione.
Pseudonimo – Fu la mania
degli anni Venti-Trenta, di Pessoa, Traven, Lucio D’Ambra, innocente gusto rétro. Non si nascondevano. Se non per
quello che esibivano, semmai, l’intellettualismo. L’intellettuale, si sa, è
dannato alla sterilità per l’ipocrisia che lo rode malgrado se stesso, anzi
proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea mondi irreali per la
voglia di filosofare, ma la buona disposizione è fatale che degradi a
protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa
dell’irrealtà. Quello dell’intellettuale è però voluto, nell’assurdo programma
di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del pensiero,
cambiarlo.
letterautore@antiit.eu
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