De Francesco trova
le radici dell’antimeridionalismo nella durezza politica di Cavour (tema
disusato, l’innegabile durezza del conte), negli emigrati, nella letteratura meridionale,
nel giornalismo a sensazione, nel lombardismo. Milano impone il suo primato di
capitale morale nella guerra costante a Crispi, contro il quale ebbe la
vittoria facile col fallimento della politica africana a Adua, ma dopo una
campagna rozzamente antimeridionalista: “Nasceva così il mito di una Milano che
da tempo reclamava di essere la capitale morale e ora sembrava capace
addirittura di anticipare la politica nazionale, come avrebbe scritto,
ammirato, Salvemini: anche questo, certo, un luogo comune (come quello relativo
alla capitale morale per altro), che avrebbe però pesato non poco sugli
sviluppi politici nazionali” (138-139).
La ricerca di De
Francesco si segnala per il peso dato all’immaginario. Nella letteratura alta,
per primi gli scrittori veristi, tutti del Sud, come lo stesso Capuana capì e
denunciò. E nei “fogliettoni”, le storie a dispense a forti tinte. De Francesco
ha messo a profitto la lezione di Nelson Moe e, in parte, di John Dickie, della
pubblicistica levatrice del “Sud”. Dell’enorme potere dei media, dell’“opinione pubblica” come si esercita in Italia, nella
creazione d’immagini e miti. Esumando anche la letteratura specialistica e
sparsa sui vari aspetti della creazione della “bassa Italia”: l’opera, il
teatro, la narrativa, le canzoni, la cronaca (il coscritto calabrese Misdea che
fa una strage in caserma di non calabresi dopo che un altro coscritto calabrese
era stato dileggiato, e tanti altri processi celebri: Notarbartolo, Nasi).
Il precedente
immediato di questa storia politica dell’antimeridionalismo è Petraccone, “Le
due civiltà”, del 2000. In realtà c’è una sola civiltà, quella italiana, della
quale a questo punto è da dire costitutiva la “questione meridionale”. Cioè un
Sud Pulcinella, da bastonare: il Sud non conta nulla. Fu antimeridionale
perfino il primo socialismo, di Turati, come lo storico qui ricorda. Col
contributo entusiasta dei (pochi) socialisti siciliani. Per il trito disprezzo
delle “plebi” isolane. Con strascichi fino al secondo dopoguerra, a Giuliano e
oltre. Dell’odio-di-sé meridionale è paradigma a fine Ottocento il siciliano
Alfredo Niceforo, allievo del criminologo socialista Enrico Ferri e socialista
egli stesso, che teorizzò “un’antropologica inferiorità meridionale” ((158),
sulla scorta dell’atavismo di Lombroso, e delle gerarchie razziali di Giuseppe
Sergi, altro siciliano. Con un esito
incredibilmente sciocco: Niceforo propugnò un regionalismo totale per il Nord e
uno statalismo totale per il Sud, imponendone la discussione in ben due
congressi socialisti, a Roma e a Imola, tra il 1900 e il 1902.
“L’antimeridionalismo”, conclude De Francesco, “è certo un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita”. No, è la maniera d’essere dell’Italia, evidentemente non a somma zero o negativa, se viene perpetuata. Altra non ce n’è. Nemmeno è ipotizzabile: questo “Sud” è funzionale a questa “Italia”, una questione da usare secondo le occorrenze. Per l’incapacità del Sud si può aggiungere, di fare da sé, autonomizzarsi. Ma è un’incapacità determinata in larga misura dal Nord: dai suoi media, le sue istituzioni (basta istruire una “pratica europea” al Tesoro per avvertire le differenze siderali tra Nord e Sud), le sue leggi. Ultima la legge per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno trasformata in intervento nelle aree disagiate, in maniera da dirottare sul Nord i residui trasferimenti pubblici in servizi e infrastrutture. Non c’è altra realtà per il Sud che il Nord, e nessun’altra possibilità.
Nato e cresciuto a Milano, dove è ordinario di Storia delle rivoluzioni, da padre calabrese, cui dedica questa ricerca, editore di Vincenzo Cuoco, la divisione che lo storico della rivoluzione di Napoli superò d’impeto De Francesco mostra di soffrirla, anche personalmente. Non essendoci dopo quasi due secoli altra evidenza che la capitale della corruzione è Milano, anche se pretende di attribuirla alla ‘ndrangheta. Limita la ricerca alla Sicilia e a Napoli – alla vulgata delle due Napoli, la nobile e la plebea, che non cessa di sorprenderlo, ma chi ha avuto esperienza del colonialismo, del’ideologia del colonialismo, sa che è uno stereotipo, non dei più fini. E pur in ambito così ristretto (peggio sarebbe allargando il fuoco alla Campania tutta, alla Calabria, alla Sardegna), resta sopraffatto dal carattere tranquillamente “eversivo” dell’antimeridionalismo. Nei confronti dell’unità, dice, ma anche, bisogna aggiungere, nei confronti della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, tra essi il rispetto del più debole.
“L’antimeridionalismo”, conclude De Francesco, “è certo un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita”. No, è la maniera d’essere dell’Italia, evidentemente non a somma zero o negativa, se viene perpetuata. Altra non ce n’è. Nemmeno è ipotizzabile: questo “Sud” è funzionale a questa “Italia”, una questione da usare secondo le occorrenze. Per l’incapacità del Sud si può aggiungere, di fare da sé, autonomizzarsi. Ma è un’incapacità determinata in larga misura dal Nord: dai suoi media, le sue istituzioni (basta istruire una “pratica europea” al Tesoro per avvertire le differenze siderali tra Nord e Sud), le sue leggi. Ultima la legge per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno trasformata in intervento nelle aree disagiate, in maniera da dirottare sul Nord i residui trasferimenti pubblici in servizi e infrastrutture. Non c’è altra realtà per il Sud che il Nord, e nessun’altra possibilità.
Nato e cresciuto a Milano, dove è ordinario di Storia delle rivoluzioni, da padre calabrese, cui dedica questa ricerca, editore di Vincenzo Cuoco, la divisione che lo storico della rivoluzione di Napoli superò d’impeto De Francesco mostra di soffrirla, anche personalmente. Non essendoci dopo quasi due secoli altra evidenza che la capitale della corruzione è Milano, anche se pretende di attribuirla alla ‘ndrangheta. Limita la ricerca alla Sicilia e a Napoli – alla vulgata delle due Napoli, la nobile e la plebea, che non cessa di sorprenderlo, ma chi ha avuto esperienza del colonialismo, del’ideologia del colonialismo, sa che è uno stereotipo, non dei più fini. E pur in ambito così ristretto (peggio sarebbe allargando il fuoco alla Campania tutta, alla Calabria, alla Sardegna), resta sopraffatto dal carattere tranquillamente “eversivo” dell’antimeridionalismo. Nei confronti dell’unità, dice, ma anche, bisogna aggiungere, nei confronti della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, tra essi il rispetto del più debole.
Antonino De Francesco,
La palla al piede, Feltrinelli, pp.
255 € 20
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