Ciampi era il vero tecnico: chiamato a risolvere
alcuni problemi, lasciò poi con buona pace quando Scalfaro decise
d’interrompere la legislatura – il primo dei suoi golpe istituzionali, che
doveva segnare il trionfo di Occhetto e invece portò Berlusconi. Poi, chiamato
da Prodi e quindi da D’Alema per preparare l’ingresso della lira nell’euro, vi
si prestò senza storie. Monti è diverso.
Monti è il cavaliere dell’ipotesi neo guelfa. Il
progetto di riprendere il controllo del paese attraverso una Democrazia
Cristiana ribattezzata Grande Centro. Anche da posizione minoritaria, come è
avvenuto in questo anno di supplenza, concessa improvvidamente da Napolitano
sotto la minaccia dello spread. Ma
forte dell’appoggio delle banche, ormai confessionali al 90 per cento. E
dell’“opinione pubblica”: la Rai, casiniana in percentuale di poco minore, Sky,
La 7, e l’editoria giornalistica: Rcs, Espresso-Repubblica-Finegil, Itedi-Fiat-
Caltagirone-Messaggero, Riffeser, Sole-24 Ore. Che ne hanno imposto all’Italia
l’urgenza, e quasi il bisogno, malgrado un’esperienza disastrosa di governo, il
primo della storia della Repubblica che abbia provocato da solo una recessione.
Monti è ipotesi forte a Milano, grazie alle due grandi
banche e alla Confindustria di Emma Marcegaglia. E ha una sponda ferma nel
cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi, e nella Confindustria di Squinzi.
Gli editori sono allineati per il ripristino delle “provvidenze” all’editoria,
e per interessi di bottega, a Torino e a Roma.
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