Conosciamo
il mistilinguismo di Contini, esemplato su Montale, riscontrabile in altri poeti, per
esempio Pasolini e il Nobel Dario Fo: l’uso incidentale di parole (concetti) di
altre lingue, anche dialettali, in un discorso italiano. Patrizia Licata scrive in inglese (americano)
come in italiano, usa cioè due lingue diverse, due linguaggi, due semantiche,
due sensibilità diverse. Poi magari traducendo nell’una e nell’altra lingua (le
poesie confluite in questa raccolta sono date in entrambe le versioni). Con effetti sorprendenti in inglese. Non per una maggiore pregnanza della
lingua, dell’inglese rispetto all’italiano, che non può essere naturalmente. Ma
sì della pratica poetica, mediata dalle letture: la lingua della poesia
americana dopo Eliot e Pound è più incisiva che non la pratica italiana dopo
Montale (con l’eccezione di Alda Merini? della sua “grazia naturale”). E
tuttavia con sorprese, lampi di genio si direbbe se fosse una partita poetica.
Per un risultato diciamo in parità: come se a una pratica ordinata, di tecnica
elevata, rispondessero a lampi gli estri.
I “minuscoli
pezzi” del “vetro infrangibile” si frangono meglio in “tiny\ ever-multiplyng
pieces”, e così il “tormentato spazio deformante\ dove di depositano tutti i
casi irrisolti”, i “tortured distorting spaces\ where all the cold cases are
sediment”. Mentre “Fool me into believing\ you are immortal” si risolve
incisivo nel fulminante – prosodia e suono - “Illudimi che sei immortale”. Un
doppia capacità espressiva, una doppia miniera. Una duplice, curiosamente,
personalità.
Patrizia
Licata, Poesia d’amore e solitudine,
Tracce, pp. 87 € 10
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