È un racconto che, rivisto
in più punti e rimpolpato rispetto alla prima fortunata edizione del 1999, farà
testo nella storia del fascismo intellettuale. E in quella di un certo razzismo
nord-orientale, veneto e lombardo – lo stesso, si può aggiungere, che da fine
Novecento alimenta il leghismo. La nuova edizione si arricchisce di belle
pagine di foto, anch’esse molto narrative, di utili cronologie di Piovene e
Colorni, di una bibliografia quasi raddoppiata, e di un paio di documenti. Uno
è il testamento di Colorni, preciso e commovente, come tutto di quest’uomo. L’altra
è una lettera di Rossana Rossanda da Milano a Alicata a Roma, responsabile
culturale del Pci, inimmaginabile se non fosse stata scritta. Riguarda la
pubblicazione del “Lungo viaggio attraverso il fascismo” di Zangrandi, al quale
l’editore Feltrinelli aveva chiesto di espungere gli articoli antisemiti di
Piovene. Zangrandi insiste che bisogna parlarne, perché quello è comunque un
delitto, Rossanda e Piovene preferirebbero di no, perché sarebbe stato comunque
un attacco al Partito. La sorpresa è lo spaccato della “Milano «antifascista»”, compresa la
moglie Mimy, che ricatterebbe Piovene chiedendogli di non impegnarsi in politica e limitarsi
ai romanzi, con l’argomentazione “« tu non puoi parlare, perché in altri tempi,
ecc.»”.
Piovene fu fascista
Gerbi riporta la malafede al
bisogno secolare di “dissimulazione onesta” o di “nicodemismo”. Ma queste sono
forme di resistenza, di difesa e opposizione di fronte al signoraggio o all’intolleranza
religiosa. Mentre Piovene fu fascista – come Montanelli, Malaparte, e altri poi
diventati, “tali e quali”, comunisti.
Piovene, in più buon cattolico, si è fatto poi l’esame di coscienza,
nella raccolta “Coda di paglia”.
Seicento pagine di cui dirà, alla vigilia della morte: “Mi sono troppo romanzato
– Falsità delle confessioni”, ricorda lo stesso Gerbi in apertura, nella “Nota”
a questa riedizione. Piovene ha sempre rivendicato una sorta di “ambiguità
costituiva”. La memoria di Piovene al
processo di annullamento del primo matrimonio, che Gerbi ripubblica, per quanto
caricata strumentalmente per facilitarne l’esito, è ossessiva su questo aspetto. Una posizione personale, quindi, ma non isolata. Altri, perfettamente democratici, rivendicano ultimamente un diritto-dovere di libertinismo intellettuale, di poter dire tutto e il contrario. La coerenza non si vuole italica: l’intellettuale limita il
suo compito al “buon italiano” del tema in classe, ad abbellire gli slogan del
momento - “l’intellettuale è proletario per natura, è il proletario per
eccellenza” è fulminazione di Piovene appena caduto da cavallo, certo
(purtroppo) non opportunistica.
Un punto, tuttavia, nell’ottica
di Gerbi resta importante in tema di etica sociale. Il suo è uno dei tentativi
più convincenti di situare l’antisemitismo italiano fuori dall’aneddotico e
insieme dalla perversione – poiché fortunatamente non si è spinto a tanto, non
nella misura degli altri paesi europei. Piovene è facile assolverlo, poiché,
oltre che di Colorni, fu amico fraterno di altri insigni ebrei, per esempio di
Saba, e sposò in seconde nozze l’amatissima Mimy Pavia, di famiglia israelita,
che molto ne facilitò il lavoro e ne coltivò la fortuna postuma. Ma su troppe esperienze intellettuali in Italia pesa il provincialismo, un’ottica
chiusa nella quale l’ebreo, ancorché indistinto, offre l’unico raffronto, l’unico
specchio di autocoscienza possibile – un po’ come oggi il meridionale. Sono
arzigogolati gli avvitamenti di Piovene, non richiesti, al culmine della sua
amicizia stretta con Colorni, attorno al biblismo e legismo ebraici, e uno si
chiede: perché? Perché non aveva altro modo di pensarsi. Un provincialismo che
Piovene conferma da corrispondente del “Corriere della sera” a Londra, e da inviato nella guerra di Spagna, con
cronache di nessun interesse – melensaggini al confronto delle contemporanee corrispondenze
da Parigi o Berlino e le cronache di viaggio e di guerra di Corrado Alvaro, che ancora si
leggono con interesse, di uno che pure era nato e cresciuto nelle remote
montagne della remota Calabria.
L’esito più incisivo del
lavoro di Gerbi è però di diversa natura. Ed è ciò che fa l’interesse della
narrazione, sempre avvincente. Una sottile filigrana letteraria che Gerbi rafforza
in questa riedizione nei rinvii in nota. E che si può riassumere in questa sua
formula: “Piovene scrittore «nero»”. Il libro fu accolto con piacere dagli italianisti
alla sua prima uscita, ma senza profitto. Piovene “nero” è invece una chiave di
cui la critica del Novecento dovrebbe tenere infine conto: inquadrate in questo
genere le sue opere, specie “La Gazzetta Nera”e “Le furie”, ma anche le
“Lettere di una novizia”, sconcerterebbero meno.
Sandro Gerbi, Tempi di malafede, Hoepli, pp. XIX +
296 €18
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