lunedì 3 dicembre 2012

Piovene scrittore “nero”

Piovene fu fascista. Non al modo dei giovanissimi - allora, negli anni di guerra, alla fine del fascismo – Spadolini o Scalfari di cui fu la moda pubblicare i (pochi) scritti di regime. Si poteva non esserlo, e Colorni, fra i tanti, non lo fu. Ma Sandro Gerbi non indulge alla deprecazione. Il rapporto tra Piovene e Colorni sottotitola “Un storia italiana tra fascismo e dopoguerra”. Interessato, come con Montanelli di cui è biografo, agli stati di ambiguità, di debolezza più che di opportunismo. Un modo di essere, a volte senza colpa, se non da vittima. Qui ricostruisce, nella storia di un’amicizia, la “malafede” rivendicata da Piovene - “La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza” (“Lettere di una novizia”). Il quale, dopo che fascista, senza necessità, e antisemita, fu subito e disinvolto comunista.
È un racconto che, rivisto in più punti e rimpolpato rispetto alla prima fortunata edizione del 1999, farà testo nella storia del fascismo intellettuale. E in quella di un certo razzismo nord-orientale, veneto e lombardo – lo stesso, si può aggiungere, che da fine Novecento alimenta il leghismo. La nuova edizione si arricchisce di belle pagine di foto, anch’esse molto narrative, di utili cronologie di Piovene e Colorni, di una bibliografia quasi raddoppiata, e di un paio di documenti. Uno è il testamento di Colorni, preciso e commovente, come tutto di quest’uomo. L’altra è una lettera di Rossana Rossanda da Milano a Alicata a Roma, responsabile culturale del Pci, inimmaginabile se non fosse stata scritta. Riguarda la pubblicazione del “Lungo viaggio attraverso il fascismo” di Zangrandi, al quale l’editore Feltrinelli aveva chiesto di espungere gli articoli antisemiti di Piovene. Zangrandi insiste che bisogna parlarne, perché quello è comunque un delitto, Rossanda e Piovene preferirebbero di no, perché sarebbe stato comunque un attacco al Partito. La sorpresa è lo spaccato della “Milano «antifascista»”, compresa la moglie Mimy, che ricatterebbe Piovene chiedendogli di non impegnarsi in politica e limitarsi ai romanzi, con l’argomentazione “« tu non puoi parlare, perché in altri tempi, ecc.»”.
Piovene fu fascista
Gerbi riporta la malafede al bisogno secolare di “dissimulazione onesta” o di “nicodemismo”. Ma queste sono forme di resistenza, di difesa e opposizione di fronte al signoraggio o all’intolleranza religiosa. Mentre Piovene fu fascista – come Montanelli, Malaparte, e altri poi diventati, “tali e quali”, comunisti.  Piovene, in più buon cattolico, si è fatto poi l’esame di coscienza, nella raccolta  “Coda di paglia”. Seicento pagine di cui dirà, alla vigilia della morte: “Mi sono troppo romanzato – Falsità delle confessioni”, ricorda lo stesso Gerbi in apertura, nella “Nota” a questa riedizione. Piovene ha sempre rivendicato una sorta di “ambiguità costituiva”. La memoria di Piovene al processo di annullamento del primo matrimonio, che Gerbi ripubblica, per quanto caricata strumentalmente per facilitarne l’esito, è ossessiva su questo aspetto. Una posizione personale, quindi, ma non isolata. Altri, perfettamente democratici, rivendicano ultimamente un diritto-dovere di libertinismo intellettuale, di poter dire tutto e il contrario. La coerenza non si vuole italica: l’intellettuale limita il suo compito al “buon italiano” del tema in classe, ad abbellire gli slogan del momento - “l’intellettuale è proletario per natura, è il proletario per eccellenza” è fulminazione di Piovene appena caduto da cavallo, certo (purtroppo) non opportunistica.
Un punto, tuttavia, nell’ottica di Gerbi resta importante in tema di etica sociale. Il suo è uno dei tentativi più convincenti di situare l’antisemitismo italiano fuori dall’aneddotico e insieme dalla perversione – poiché fortunatamente non si è spinto a tanto, non nella misura degli altri paesi europei. Piovene è facile assolverlo, poiché, oltre che di Colorni, fu amico fraterno di altri insigni ebrei, per esempio di Saba, e sposò in seconde nozze l’amatissima Mimy Pavia, di famiglia israelita, che molto ne facilitò il lavoro e ne coltivò la fortuna postuma. Ma su troppe esperienze intellettuali in Italia pesa il provincialismo, un’ottica chiusa nella quale l’ebreo, ancorché indistinto, offre l’unico raffronto, l’unico specchio di autocoscienza possibile – un po’ come oggi il meridionale. Sono arzigogolati gli avvitamenti di Piovene, non richiesti, al culmine della sua amicizia stretta con Colorni, attorno al biblismo e legismo ebraici, e uno si chiede: perché? Perché non aveva altro modo di pensarsi. Un provincialismo che Piovene conferma da corrispondente del “Corriere della sera” a Londra, e da inviato nella guerra di Spagna, con cronache di nessun interesse – melensaggini al confronto delle contemporanee corrispondenze da Parigi o Berlino e le cronache di viaggio e di guerra di Corrado Alvaro, che ancora si leggono con interesse, di uno che pure era nato e cresciuto nelle remote montagne della remota Calabria.   
L’esito più incisivo del lavoro di Gerbi è però di diversa natura. Ed è ciò che fa l’interesse della narrazione, sempre avvincente. Una sottile filigrana letteraria che Gerbi rafforza in questa riedizione nei rinvii in nota. E che si può riassumere in questa sua formula: “Piovene scrittore «nero»”. Il libro fu accolto con piacere dagli italianisti alla sua prima uscita, ma senza profitto. Piovene “nero” è invece una chiave di cui la critica del Novecento dovrebbe tenere infine conto: inquadrate in questo genere le sue opere, specie “La Gazzetta Nera”e “Le furie”, ma anche le “Lettere di una novizia”, sconcerterebbero meno.
Sandro Gerbi, Tempi di malafede, Hoepli, pp. XIX + 296 €18

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