sabato 15 dicembre 2012

Secondi pensieri - 127

zeulig

Amore -  “Il presupposto «il cuore ha una storia» è quello che ha permesso lo splendido sviluppo del romanzo moderno”, dice bene Maria Zambrano. Il cuore è l’organo dell’epoca, della poesia, la filosofia, la religione, la rivoluzione, con la sua passione specifica, l’amore. Come nel Cinquecento, quando entrambi confluirono nelle guerre di religione.

Trova una soluzione, si dice, agli ostacoli che via via insorgono. E a se stesso? Cos’è l’amore? A quindici anni o a venti non è la stessa cosa che a trenta o quaranta. E non è la stessa cosa a Königsberg e a Bologna, dice Stendhal, che c’è stato. C’è chi fa l’amore nei casini. E non è la stessa cosa per l’uomo e per la donna, per non parlare dell’amore omosessuale. E ieri? L’amore di Ero e Leandro, o Giulietta e Romeo, la fedeltà oltre la morte, porterebbe oggi dall’analista. Per le nobili mantenute del Settecento è una forma dell’impossibilità: il cavaliere accorre e ha buoni sentimenti, oltre che mezzi, ma la donzella muore oppure è raggirata.

C’è poi la categoria dilagante dell’amore morte. Anche all’Oriente. Con Versailles si fa eco, nel fecondo Settecento, la Cina, o Giappone che sia, col precetto che l’amore è cieco, e si purifica nell’assenza, l’attesa, la memoria. Insomma nella morte. È difficile portare l’amore in piano.

La morte è la cosa di cui meno si parla al mondo, se si eccettua la Germania. Anche questo Stendhal dice meglio: “La morte è una parola senza senso per la maggior parte degli uomini. È solo un attimo, e in genere non lo si avverte”. Ma si può farsene una grandezza, proiettando quell’attimo su tutta la vita, e in questo l’amore teutonico è insuperato, Freud non inventa nulla, amore e more è marchio di fabbrica. Sommo diletto è in Schlegel fantasticare la morte dell’amata Lucinde, straziarsi per lei. O nel giovane Kleist, e in Rilke. In Kafka non si muore per accidente, malattia o vecchiaia, ma inevitabilmente per amore. L’amore biedermeier muore anch’esso giovane, sui vent’anni, nella penombra. Lo stesso olimpico Goethe fa morire tutte le eroine d’amore nel “Wilhelm Meister”, il romanzo dell’“arte di vivere”: Sperate, Mariane, Mignon, Aurelia, l’arpista. Tristano e Isotta si amano per morire. “La notte appartiene alla morte”, sussurra la Sibille thomasmanniana al fratello Wiligis per incitarlo all’incesto – col quale, prima di farlo, dialoga in occitano, oh sublime ridicolo. Da qui il verso celebre di Celan: “La morte è un maestro della Germania”. I tedeschi sono, padri o figli di Freud, in sonno, in partibus, in incognito, igienisti. Dei sentimenti, delle passioni e della ragione.
Anche Leopardi per la verità è del parere: “Quando novellamente\nasce nel cor profondo\un amoroso affetto\…\ un desiderio di morir si sente”. E al suo seguito oblazioni alla morte usarono per un periodo pure in Italia. Ma già il Belli ne decreta la fine, sceneggiando la “Morte della Morte”, un assassinio in piena regola. L’amore è in realtà esso stesso malattia, nutrendosi di mancanza. È su questo confine che è nata la filosofia, quel poco in argomento che se ne fa. E il romanzo? Il romanzo viene dalla lanterna magica, dalla soffitta abbandonata, come dice Zambrano. Con un tempo diverso da quello della vita. Quando giunge a essere tempo del-la vita, Proust, Joyce, è una confessione. E, come in Giobbe, risuona della voce dell’autore. Che è il pregio della confessione: parola a viva voce.

Indignazione – È all’origine nemesi. La hubris, come è invece comunemente intesa,  è dismisura.

Purezza – È la virtù più in domanda. Da un secolo, e malgrado i disastri. Dalla purezza della razza al politicamente corretto, del linguaggio e delle guerre umanitarie, e a tutto l’armamentario ecologico, oggi come nel naturismo del primo Novecento. Si accompagna all’igienismo: la “vera” igiene non tollera accezioni (impurità). E a disegni imperiali: la razza e il naturismo alla Germania, il politicamente corretto agli Usa. Un’altra coincidenza è che la purezza s’impone accantonando i tabù sessuali.

Riso – Imbarazza, come ogni funzione umana: non si sa immaginare Dio a ridere.
A meno che non sia una funzione diminutiva o distruttiva: si può pensare solo il male?

Roberto Calasso, cultore di Baudelaire, estrapola dal saggio sulla caricatura, “De l’essence du rire” (1855), la parte in cui il poeta immagina che la natura teologica del riso gli viene “suggerita” dall’avventura di Virginie nel Palais-Royal. Suggestione anche questa comicissima. Virginie, nomen omen, è l’eroina di “Paul e Virginie” di Bernardin de Saint-Pierre. Il Palais-Royal in cui s’addentra, che i lettori di Calasso ricordano dalla “Rovina di Kasch”, è l’ala delle prostitute, di cui Restif aveva fatto il catalogo comico (“Boutonderose”, “Pyramidale”, “Sensitive”, “Barnerose”…: nel 1790 ce n’erano almeno 2.200, calcola Calasso, in tante firmarono una petizione all’Assemblea Nazionale della rivoluzione).
Il riferimento è al centro del discorso che Calasso ha tenuto mercoledì a Parigi, all’Institut de France che gli conferiva il premio Chateaubriand per “La folie Baudelaire”, pubblicato lo stesso giorno sul “Corriere della sera”:
Il riso, dice Baudelaire, essendo umano è diabolico: “Gli angeli non ridono”. Ma è sbagliato: gli angeli non fanno che giocare e ridere, come Gesù Bambino.

Storia – “La storia”, Marx spiegava a Kügelmann in una lettera famoso il 17 aprile 1871 sulla Comune di Parigi, “sarebbe facile a fare, se l’impegno si prendesse solo a condizione di opportunità infallibilmente favorevoli. Avrebbe d’altra parte un carattere mistico, se il «caso» non vi avesse grande parte”.
Il “caso” Marx intendeva come gli “episodi” nelle partite di calcio, le intromissioni degli arbitri: “I casi si compensano con altri casi”.

Capita di sentirsi nella storia come Joyce nella sua giornata, in un incubo. Che storia è questa? La successione spagnola, la successione austriaca, la terza-guerra-di successione-al-trono-di-Polonia, e le magnifiche sorti e progressive degli Hohenzollern, per non dire degli inglesi, che dopo avere assaporato Cromwell si sono cercati re stranieri un po’ dementi. Le storie nazionali sono miti. E le storie sociali? E il culto della storia con esse. In realtà la storia, la morale della storia, non c’entra nulla, non con la verità.

zeulig@antiit.eu

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