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giovedì 27 dicembre 2012

Secondi pensieri - 128

zeulig

Amore – Non è per tutti, secondo La Rochefoucauld: “Ci sono persone che non sarebbero mai stati innamorati se non avessero mai sentito parlare dell’amore”. Sarebbero stati la stessa cosa con un altro nome?
Oggi comunque non sembra possibile: l’amore è dappertutto, nei giornali femminili, alla tv e perfino nella filosofia. È legato però alla coppia, che per molti suoi limiti (pretese, illusioni) è la negazione dell’amore. E alla coppia nella sua connotazione cinematografica, di due che “fanno l’amore”, di due a letto. Che non sempre è possibile. La vita di coppia è inoltre vita di appartamento, al chiuso. E difficilmente ci si può permettere una camera da letto comoda – dipende dalla rendita urbana. 

Per Kierkegaard l’amore è comico. Per la nota regola dialettica per cui la contraddizione è comica, e l’amore è contraddittorio. Per il Kierkegaard notturno – ebbro? il filosofo scriveva a ore fisse, ma cose diverse, il giorno e la notte, la notte fino alle due, e allora era su di giri, la mattina, fino al tocco, era invece amaro: l’amore è il tema del banchetto notturno di “In vino veritas”.
L’amore a tavola di notte è dunque indigesto.

Complotto - Secondo il giovane Engels “i complotti sono non solo inutili ma dannosi”. Ma l’idea del complotto non è senza dignità. Richiama l’“argomento del progetto” di William Paley e della sua “Teologia naturale”, che influenzò la formazione di Darwin e lo indirizzò all’“Origine della specie”. Se c’è un orologio, argomentava il teologo Paley, ci dev’essere un orologiaio. È l’argomento della creazione individuale, per cui c’è un progetto di Dio dietro ogni singola specie. Era argomento a favore dell’esistenza di Dio. Anche nella forma rovesciata.

Ci sono specie e eventi senza progetto, non immediato, non specifico. Geometrie complesse che anch’esse giustificano un complotto, proprio per essere inspiegate, inspiegabili. Il primo è forse quello della democrazia. Con la storia dei Quattrocento, tra essi Tucidide, che Antifonte mise insieme nella primavera del 411 contro la democrazia a Atene: “C’erano persone che mai si sarebbero credute”, rivela lo storico, e stabilisce un legame tra la congiura e una serie di delitti misteriosi. Ora che i delitti misteriosi ritornano non ci sarà anche la congiura, magari a opera di un antichista? Oppure si può pensare che la storia vada per congiure. I Quattrocento di Antifonte, sostituendosi ai Cinquecento del consiglio eletto, calcolarono al millesimo le indennità loro dovute fino alla fine del mandato, e “le pagarono via via che quelli uscivano dalla sala”.
La pratica dunque è perfezionata, se c’è da tempo anche un galateo del golpe. E si può pensarla fine a se stessa, come la argomenta Josef K., personaggio eponimo dei complotti, che Kafka nel “Processo” fa accusare di un delitto ignoto: “E ora il senso, signori, di questa grande organizzazione? È di far intentare dei processi senza ragione, e in gran parte pure, è il mio caso, senza risultato”. È che così c’è più suspense: la democrazia è come i “Promessi sposi”, non vi succede mai nulla.

È più spesso una “provocazione”, anche se non voluta, un artificio per seminare il caso e provocare una crisi, culturale (religiosa, filosofica) come politica ed economica. Gli ateniesi dormirono “fuori la notte in armi”, narra Tucidide, quando uno spione s’inventò il golpe di Alcibiade. Liquidato il quale fallirono la conquista della Sicilia, che li avrebbe resi padroni del Mediterraneo, e duemila anni di storia, e persero la stessa Atene. E sempre c’è il sospetto dell’ignoranza consapevole, il metodo socratico della verità simulata, far credere che si sa pure ciò che s’ignora. È il vizio della politica totalitaria (in Italia da ultimo la sinistra), che sapendo tutto quello che non sa pensa di doverlo denunciare come complotto. Per questo Bacone spregia la Fama, l’opinione pubblica: la natura del popolo essendo “malvagia e triste, e propensa alle novità”, i turbolenti se ne approfittano con “pettegolezzi, malignità, denigrazioni, ricatti”, per muovere alla “femminea invidia verso coloro che governano” – il complotto è femmina per il barone di Verulamio, la ribellione maschio. Il popolo sospetta di tutto, la democrazia ateniese è una serie di complotti, democratica solo perché spesso sovvertita. Ma sempre ci vuole un giudice per un complotto.

Invidia  - Si può dire l’unica passione (vizio capitale) residua. Variamente denominata ma alla base dell’età della competizione, sotto forma di ambizione, zelo, strategie e tattiche, pugnacità.
È il metro del mercato. Specie dai consumi. C’è un 1 per cento di gusto, o piacere, nello shopping, e un 99 per cento di imitazione. Indotta dalla pubblicità, cioè indotta.

È il motore della pubblicità. Si può dire che la pubblicità si fonda sull’invidia: nasce per stimolare l’invidia, la modula e se ne modula.

Ironia - Sottintende un bisogno di autenticità. Dice Mario Soldati del bisogno di viaggiare: “Chi ha provato la lontananza, difficilmente ne perde il gusto”. Accade da fermi con l’ironia, la lontananza di chi è dannato a straniarsi.
Thomas Mann lo dice nell’ “Impolitico”: “L’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”.

Non è innocua, anche se, insegna Kant, noioso è solo lo stupido. Montesquieu, condannando la tratta degli schiavi con l’ironia, al libro XV, capitolo 5, dello “Spirito delle leggi”, la prolungò di un secolo. Verso il 1770 i bianchi discussero in Giamaica di lasciare liberi i mulatti, se di padre inglese. Uno che era contrario lesse Montesquieu e gli altri si convinsero: si convinsero che la schiavitù era necessaria.

“Il fenomeno, come sempre foeminini generis, deve cedere al più forte, al cavaliere filosofo”: è l’esordio del “Concetto d’ironia”, libro di esordio di Kierkegaard, senza ironia.

Libertà – È mentale più che fisica. La libertà è felice solo nel bisogno, o in “Živago: il romanzo è libero entro un mondo chiuso, in guerra, opprimente. Nella libertà si fanno i conti con se stessi, la fatica, le debolezze, i trucchi.

Organico  - A che cosa – l’aggettivo è ancillare? “Organico” è il concime, diceva Sciascia. O piuttosto sa di rifiuto. Carl Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito.

Riso - Hobbes mette il riso tra le quaranta passioni derivate o secondarie, legandolo al piacere maligno, per la deformità o disgrazia di una persona – si presume che Hobbes non ridesse, come tutti i filosofi. Per Spinoza è invece “pura gioia”. E dunque Spinoza non è un filosofo?
Ora l’epoca di nuovo lo esclude, dovendo andare di fretta. Ma già Platone lo proibiva ai “guardiani”, i politici. A Dio manca. La battuta celebre, mentre condanna Adamo alla presenza femminile e alla fatica, “ecco, l’uomo è divenuto uno di noi”, un dio, la disse in un impeto d’ira. Dopodiché non ha più parlato. Né ha mai riso Gesù. L’uomo invece vi ambisce, il riso libera dalla necessità dell’identità. Persino Leopardi, nel progetto editoriale per un settimanale, “Lo Spettatore Fiorentino”, lui che non leggeva i giornali, si propose di assecondare “la naturale inclinazione al riso”, assumendo che “il dilettevole sia più utile dell’utile”.

Si ride per niente: Crasso al vedere un asino coglionastro brucare cardi, Filemone un altro asino mangiarsi i fichi pronti per la tavola – rise tanto, è vero, da morirne. Mentre Crasso, attesta Erasmo, rise una volta sola nella sua vita. Anche perché, afferma Jünger in contrasto con Hegel, “il riso tradisce il rango inferiore, ne è involontaria espressione”, si vedano i cinesi, che ridono alle esecuzioni capitali. E c’è il riso spartano: i lacedemoni ridevano nelle pause delle reciproche improsature, si suppone, se hanno eretto al riso una statua, ma non si sa perché.
L’argomento è insomma impervio: Aristotele, non sapendo chiarirlo, finse di essersi perduto il relativo trattato – l’uomo non sa trattare le cose che non può legare al divino, la violenza, il dolore. “Il riso libera dal dolore”, assicura Usener, quello dei Nomi di Dio, giovane filologo che a Basilea volle in cattedra lo studente Nietzsche. E Fehrle: “Le persone capaci di affrontare la vita ridendo sono in genere più sane e vitali di quelle depresse”. Hermann Usener ha stabilito che i nomi degli dei sono la loro “essenza divina”, e l’essenza degli uomini che li creano col nome, i loro vizi e le paure.

zeulig@antiit.eu



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