“Florinski
annunciava, nella sua stessa perversione sessuale, il tragico tramonto di una
società rivoluzionaria presto inquinatasi, corrottasi nel godimento del potere,
nell’esercizio scomposto del potere, nel contrasto delle ambizioni smodate, e
nella particolare immoralità delle élites
rimaste fedeli a un’utopia irrealizzabile”. Malaparte aveva scritto prima di
ogni altro un romanzo sulla Nomenklatura corrotta a Mosca e non l’ha pubblicato.
Ce l’aveva nel 1945, accanto a “Kaputt” appena uscito e a “La Pelle” (all’epoca
“La peste”) che si affrettava a completare. Sarebbe stato un terzo scorcio,
sulle malefatte dell’”altro Alleato”, “mentre «Kaputt» era l’Europa sotto i
Tedeschi, e «La Peste» sarà l’Europa sotto gli Alleati, specie Americani”. La
fine dell’Europa.
Il “Ballo”, una costola della “Pelle”, era
solo da rifinire, ma Malaparte non lo ha fatto. Voleva pubblicarlo in Francia,
a metà 1946, per evitare gli anatemi in Italia. Voleva perfino cambiare
traduttore, considerando inaffidabile la fedele Juliette Bertrand perché “comunista militante”. Sarebbe arrivato molto
prima del Rapporto Krusciov sui crimini di Stalin. Avrebbe spiegato – lo spiega
infatti, cosa che il “Rapporto” non farà – le ragioni, oltre che i modi,
dell’involuzione. In una delle versioni del “Ballo” recuperate da Raffaella
Rodondi si leggono due pagine magistrali (215-216) sulla funzione dello
scrittore come “storico”, il problema già di Erodoto e Tucidide, con occhio
lieve (“l’Italia vera è quella di Stendhal, non quella di Gregorovius”). Ma per
opportunismo se ne privò. Dapprima per non indisporre Togliatti, da cui
dipendeva la sua defascistizzazione. Poi per la convenienza di farsi neocomunista.
Pur essendo visceralmente anti, si vede
nella corrispondenza, di più con gli editori francesi. Del “Ballo” pubblicherà
un terzo circa su “Vie Nuove”, il settimanale del Pci, come corrispondenza da
Mosca nel 1957. Dopo cioè l’Ungheria, quando molti invece si allontanarono dal
Pci. Fu a Mosca due notti tra un aereo e l’altro per il viaggio in Cina, che lo
stesso Pci gli aveva organizzato, dove contrasse l’infezione letale. Ne approfittò per una rivalutazione, a
suo modo obliqua e intelligente (qui
riprodotta in appendice, (“Trozki, Gorki, e altri volti”), dello stalinismo
dopo le infamie del Rapporto Krusciov l’anno prima.
“Kaputt” Malaparte definiva “romanzo
storico contemporaneo”, “La Pelle” invece “storia e racconto”, d’invenzione
cioè, “Il ballo” avrebbe potuto essere una “storia di costumi”. Lo annunciò
all’editore francese nel 1946 come un affresco satirico dell’“alta nobiltà
marxista di Mosca, le sue vite, i suoi scandali, i suoi costumi, le sue
passioni, i suoi terrori”. Datato 1929. Riscrivendo
le impressioni, le fantasie e gli articoli che in quell’anno aveva maturato
nella capitale sovietica, quando da giovane direttore de “La Stampa” vi aveva
passato alcune settimane tra maggio e giugno. Attratto dal cambiamento
politico, alla fine della Nep, del relativo liberismo sovietico, che lo colpì
subito – fu , con Corrado Alvaro, uno dei pochi viaggiatori occidentali all’Est
non “utili idioti”, come li aveva bollati Lenin. Ricavandone la raccolta di articoli
“Il Volga nasce in Europa”, e i due
saggi di politica leninista che fecero epoca, la “Technique du coup d’État” e
“Le bonhomme Lenin” – questo pubblicato in contemporanea anche in italiano,
col titolo “Intelligenza di Lenin”, il primo, inviso a Mussolini, solo nel
1948. Dove
spiega che la rivoluzione era arrivata al capolinea, con l’esilio di Trockij nel
Caucaso e di Kamenev sul Volga, gli ultimi compagni di Lenin, e l’inizio delle
epurazioni – mentre Malaparte stava a Mosca “spariva” Kamenev, uno degli ultimi
“compagni di Lenin”. Finiva il romanticismo della rivoluzione.
Ancien régime
Qui Malaparte è ancien régime – lo fu a suo modo tutta la vita, seppure sotto la
scorza proustiana, dell’ideologia della fine. “Il ballo” svolge al ritmo dello small talk, lui dice potin, da francesizzante,
tra i “balli delle ambasciate”, nello “splendido tedio della vita modana” – da
Proust minore, disidratato. In una Mosca metafisica. Immaginando di
accompagnarsi ai personaggi più noti, Majakovskij, Lunač’arskij e moglie, il
ministro dell’Istruzione italianista (anche lui ultimo compagno di Lenin, col
quale a Capri aveva organizzato una “scuola di comunismo”alla Pensione Weber
alla Marina Piccola) e l’attrice sua moglie, la cuisse legère più famosa di Mosca, Bulgakov, la sorella di Trockij
moglie di Kamenev, la star del balletto Semënova, il ministro degli Esteri
intramontabile Litvinov, e l’incredibile Florinskij, un omosessuale che
pavoneggiava le sue inclinazioni, truccato, atteggiato, capo del Cerimoniale
agli Esteri, l’uomo di tutte le ambasciate - in una delle quali, quella greca,
sarà prelevato al tavolo del bridge dalla “giacche di cuoio della Ghepeù” nel
1936. Visti però col senno di dopo, dello stalinismo realizzato.
Malaparte è certamente anche uomo del
suo tempo. Molto interessato quindi al sovietismo. Fin dai suoi inizi, dalla “Rivolta dei santi
maledetti” (un racconto che ne impose subito la peculiare
capacità analitica, di narratore della storia: Malaparte vi individuava da solo
il senso della guerra, le plebi che si liberano del ceto dirigente giolittiano,
liberale, risorgimentale, affaristico, notabilare, di formidabile modernità
prima ancora che di rivoluzionario futurista-fascista - ma più esatto sarebbe nazionalista). Se non da prima, quando rifiutò la paternità del sassone Erwin
Suckert facendo circolare la voce che era figlio invece del pittore Paolo
Trubeckoj, incolpevole ma russo di origine. Da russista nell’animo, si può
dire, per una sorta di comune panteismo. Nel 1929 partivano a Mosca i piani
Quinquennali, una delle cose che lasceranno un’impronta sul secolo, ma
Malaparte non ne intese la portata - salvo ex post, nel 1957, per rivalutare Stalin. O se ne disinteressa. Vede i visi e le anime,
le correnti sotterranee della storia. In un progetto anticomunista, però. Violento.
Di cui poi si privò, pur pubblicando di tutto, libri anche irrilevanti, per sfruttare
il successo della “Pelle”.
Beffardo il commento di
Raffaella Rodondi, che cura questa riedizione (una prima edizione postuma,
nella collana affrettata delle sue opere edita da Vallecchi, è uscita nel 1971
in un volume farcito con altri racconti e scritti vari): Malaparte ha mancato l’ultimo colpo.
Pubblicato nel dopoguerra, sia pure dopo la destalinizzazione, “Il ballo al
Kremlino” sarebbe stato attualissimo, la controprova dei crimini di Stalin. Ma
non sarebbe stato Malaparte, uno che soprattutto si adattava. Per una sorta di
camaleontismo connaturato - si può dire che si è preso al suo laccio. Secondo
la credibile testimonianza di Lino Pellegrini, giovanissimo inviato di guerra
del “Popolo
d’Italia”,
l’unico che veramente seguisse le truppe dell’Asse, con Malaparte, nella guerra
all’Urss, avallata ora dal biografo Serra, il “Kaputt” antitedesco si chiamava nel
1942 “God shave the King”, Dio fa la barba al re invece
di salvarlo. Sarebbe stato antinglese – nel 1942 Hitler aveva vinto la guerra.
Una trilogia europea che
comprende, dunque, nella sua abiezione pure i Malaparte. Quello del nome e gli
amici di fascismo. Montanelli per esempio, Longanesi, che non gli perdonarono
niente e anzi lo resero quasi simpatico col vilipenderlo, come scrittore e come
uomo. Casi non eccezionali di destra che si vuole sinistra, e viceversa. Ora
Malaparte recupera Adelphi, dunque “da destra” secondo la non desueta
tipizzazione dell’ambiente. Dopo mezzo secolo di ostracismo, editoriale e
critico, se si eccettua la devozione della sorella Edda Rochi, e qualche
biografia scandalistica, meglio se con foto.
Il vero romanzo è la “Nota” di Raffaella
Rodondi, sulle varianti ma anche sulla gestazione di questo progetto. Una
primizia filologica, cento pagine di montaggio e smontaggio di un’opera inedita
e non finita. E un’edizione critica, con 150 pagine di racconto, 150 di varianti,
e 100 di nota filologica, proposta come un libro da banco, un romanzo come un
altro. Ma, per il lettore che non s’arrende, con diletto.
Curzio Malaparte, Il ballo al Kremlino, Adelphi, pp. 417 € 22
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