Due correnti agitano da qualche settimana più forte la componente popolare del partito Democratico – al punto da far parlare di scissione. Attorno al consolidamento di Monti, candidato a questo punto naturale alla successione di Napolitano nel 2013.
Fra un anno si vota per le Camere, ma anche, voto ancora più importante, per il Quirinale. Posizione già sicura per Romano Prodi, anche per una necessaria rotazione, dopo una presidenza di sinistra. Prima che emergesse la candidatura Monti, che il presidente del consiglio mostra in ogni circostanza di coltivare.
Gli scissionisti, attorno a un Fioroni sempre più inquieto, fanno un ragionamento apparentemente complesso, ma di sostanza. “Se dev’essere Monti”, dicono, “allora eleggiamolo noi”. Negli schieramenti attuali l’elezione di Monti sarebbe quella di Napolitano a specchio: un uomo di centro-destra (Berlusconi e Casini), appoggiato dal Pd. Nella prossima elezione, come nella precedente, gli ex Popolari non avrebbero alcun ruolo. Fuori dal Pd, invece, avrebbero ogni diritto di candidare Prodi. Dopodiché ogni maggioranza, anche su Monti, dovrebbe passare per una loro iniziativa.
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sabato 24 marzo 2012
Il mondo com'è - 88
astolfo
Computer - La prima donna della storia del computer, e anche il primo uomo, il primo ideatore, è Ada Augusta Byron. A lei si deve l’idea che un computer deve essere programmabile, dice l’enciclopedia. Augusta Ada King, contessa di Lovelace (1815-1852), nata Augusta Ada Byron, figlia del poeta Lord Byron, fu nella sua breve vita molte cose, ma soprattutto la prima programmatrice di computer. Forse in reazione al letteratissimo padre, che l’abbandonò quando aveva un mese e morì quando aveva nove anni, sviluppò da adulta un forte interesse per la matematica, che invece era la passione della madre ripudiata, Anne Isabella “Annabella” Millbanke. Traducendo nel 1843 un articolo di Luigi Menabrea sul “motore analitico” di Charles Babbage, Ada lo arricchì di una serie di note, tra le quali il primo algoritmo inteso a far funzionare una macchina. Cioè il primo programma di un computer. Al quale peraltro, nelle stesse note, predisse la possibilità di un uso più esteso che le quattro operazioni aritmetiche.
Luigi Menabrea, allora trentatreenne, è lo stesso Federico Luigi Menabrea che sarà generale e presidente del consiglio di Vittorio Emanuele II dopo Rattazzi, il terzo dell’Italia unita, primo conte Menabrea, primo marchese di Valdora. Savoiardo di Chambéry, si era laureato ingegnere a Torino, con dottorato in matematica applicata.
Ada fu chiamata alla nascita Augusta in onore della sorellastra di Byron, Augusta Byron Leigh. Nata dall primo matrimonio di John “Mad Jack” Byron, il padre del poeta, con la bella marchesa di Carmarthen. Augusta sarà la corrispondente privilegiata del giovane fratellastro, al quale aveva dato una figlia, incurante dell’incesto e in costanza di matrimonio col cugino George Leigh che non amava, scudiero del principe di Galles - la terza di sette figli.
Internet – Si colloca in Borsa Facebook. Per un fantastiliardo. Si vendono cioè i desideri e le fantasie di alcuni miliardi di persone. Che possiamo giudicare, e sono, modesti, ma sarebbero “proprietà privata”.
Il conto si fa presto: Facebook documenta 845 milioni di utenti. Che però hanno appendici occasionali, la cifrar si può tranquillamente raddoppiare. Triplicare se per ogni utente si calcola un familiare - la vetrina è individuale, ma anche il popolo di Facebook possiede famiglia, sia pure in idea.
È un’aggiunta. È anche un cambiamento d’aria: di psicologia, mentalità, forme di apprendimento, cultura? Sì e no, come in ogni cambiamento, ma più forte di tanti altri. Forse anche una rivoluzione ma non un rovesciamento.
Drammatico è stato il balzo per quanto concerne l’accumulo, nella categoria degli Acp di Maria Laura Rodotà (“Style”, 5 maggio 2011, 49), gli Accumulatori culturali pirla. Quelli che sempre immagazzinano, letture sempre trascendentali e materiali, che mai leggeranno o useranno. A questa accumulazione internet, le reti sociali, i lettori elettronici, così versatili, hanno sicuramente impresso un’accelerazione, un rigonfiamento fino all’ipertrofia - restringendo o allontanando quella che Rodotà vagheggia come concentrazione, o capacità di riflessione.
È vero che le biblioteche di filosofi molto saggi potevano comprendere pochi libri. Ma l’accumulo, di libri e link è altra cosa che la saggezza. È però solo vero che Einstein non si sarebbe perduto dietro calcoli a cascata al computer, come non si perse dietro gli scaffali.
Privato politico – È la politica della castrazione. Il privato politico fu di moda a Berlino nel 1790, l’anno dopo la Rivoluzione. Un privato sterile, da intrattenitrici che promettevano più di quanto sapevano dare, Bettina, Caroline, Rahel, Henriette, o fantasticare. Il desiderio è dei poveri, insegnava Bramieri, il ricco non ne ha bisogno, né il potente.
Il privato politico è la rinuncia alla politica, e la rinuncia al privato. E questo è Brecht, "Tamburi nella notte". È il totalitarismo, nel terribile "1984" e non solo. O è la politica che è privata?
La politica in camera da letto sarebbe ottimo tema, le “posizioni” della politica.
Questione morale – L’ha inventata e imposta al giornalismo Felice Cavallotti. Adolescente fra i Mille, Cavallotti sostenne 32 duelli, prima di quello fatale nel 1898. Roba da cow boy. Da “Sfida all’O. K. Corral” al meglio.
Widerstand (resistenza) 3 – La repubblica di Weimar fu avversata dai protestanti più che dai cattolici, già spogliati dal Kulturkampf di Bismarck: la repubblica ne ridusse le chiese a enti di diritto pubblico, uno dei tanti. Mentre i Deutsche Kristen volevano, e vogliono, una chiesa “ariana”.
La giusta misura è tra resistenza e resa, scrisse il pastore Bonhöffer prima dell’esecuzione. È la divisa del prete, forse sbagliata: la chiesa deve resistere sempre, perché sempre la perseguitano – Cristo si fece crocifiggere.
Rudolf von Scheliha, giustiziato nella retata dell’Orchestra Rossa a fine ‘42, era uscito con varie onorificenze da Verdun nel ‘17 ed era entrato dopo la guerra nel gruppo combattente Saxo-Borussia, in difesa dell’Alta Slesia. In diplomazia a venticinque anni nel ’22, fu in missione a Praga, in Turchia e in Polonia, dapprima console a Katowice, quindi all’ambasciata a Varsavia. Era stato dal ‘33 anche membro attivo del partito Nazista, benché contrario all’antisemitismo. Allo scoppio della guerra, richiamato a Berlino alla Propaganda del ministero degli Esteri, fece filtrare all’estero informazioni su quella che sarebbe stata la Soluzione Finale, e agevolò la fuga di ebrei e polacchi, in contatto col vescovo di Berlino von Preysing, che nel ‘38 aveva creato un’Organizzazione di sostegno per i cattolici non “ariani”, e anche per i non battezzati. Corroborati i sospetti sui lager da quanto vide in missione in Olanda nel maggio ‘40, von Scheliha uscì dall’opposizione solitaria e aderì al gruppo di Henning von Tresckow. Il colonnello von Tresckow, uno dei tanti ufficiali superiori ostili a Hitler, sarà scoperto e giustiziato dopo l’attentato del ‘44. Von Scheliha, arrestato il 29 ottobre con la moglie, poi liberata, fu impiccato il 22 dicembre.
L’opposizione in Germania è stata per quasi un secolo prevalentemente contro il bolscevismo. Già prima di Hitler, nella Repubblica di Wiemar, e ancora a lun go dopo la guerra, nella Repubblica Federale di Bonn fino alla riunificazione. Molto sentita tra i più giovani, più spesso adolescenti. Ma fu ampia anche contro Hitler. Nei numeri se non nell’efficacia politica.
L’opposizione antinazista si tace in Germania di fronte all’interesse nazionale - la patria in pericolo, la guerra, il sovietismo. Ma il numero dei perseguitati politici nei lager fino al 1940, e anche durante la guerra, approssima le cinquantamila unità. Un numero da sommare ai tanti emigrati volontari, uomini di lettere e di pensiero ma anche persone comuni. Singolarmente assenti in guerra. Ma non contro Hitler. Che fu segno di attentati veri, e bene organizzati. In reazione ai quali volle circa diecimila vittime.
Si dice che i tedeschi obbediscono e basta. Ma almeno centomila si ribellarono a Hitler in guerra, non tutti renitenti, una buona metà si batté con la Resistenza in Grecia e Jugoslavia, qualcuno all’Est. E c’erano, ancora in guerra, diecimila obiettori di coscienza. Addetti ai lavori manuali, ma nutriti adeguatamente e liberi in caserma.
In Italia non si può dire, ma la presenza tedesca nella Resistenza “ha raggiunto dimensioni ragguardevoli”, dice lo storico Battaglia: “In tutte le regioni del Nord, senza eccezioni, è dimostrata la presenza di tedeschi nelle principali formazioni partigiane” - lo disse quarant’ani fa, in tedesco, in convegno, a Vienna. A Civitella d’Arezzo, tristemente nota per le rappresaglie naziste, la polizia tedesca ha contato 721 diserzioni nel solo luglio ‘44.
astolfo@antiit.eu
Computer - La prima donna della storia del computer, e anche il primo uomo, il primo ideatore, è Ada Augusta Byron. A lei si deve l’idea che un computer deve essere programmabile, dice l’enciclopedia. Augusta Ada King, contessa di Lovelace (1815-1852), nata Augusta Ada Byron, figlia del poeta Lord Byron, fu nella sua breve vita molte cose, ma soprattutto la prima programmatrice di computer. Forse in reazione al letteratissimo padre, che l’abbandonò quando aveva un mese e morì quando aveva nove anni, sviluppò da adulta un forte interesse per la matematica, che invece era la passione della madre ripudiata, Anne Isabella “Annabella” Millbanke. Traducendo nel 1843 un articolo di Luigi Menabrea sul “motore analitico” di Charles Babbage, Ada lo arricchì di una serie di note, tra le quali il primo algoritmo inteso a far funzionare una macchina. Cioè il primo programma di un computer. Al quale peraltro, nelle stesse note, predisse la possibilità di un uso più esteso che le quattro operazioni aritmetiche.
Luigi Menabrea, allora trentatreenne, è lo stesso Federico Luigi Menabrea che sarà generale e presidente del consiglio di Vittorio Emanuele II dopo Rattazzi, il terzo dell’Italia unita, primo conte Menabrea, primo marchese di Valdora. Savoiardo di Chambéry, si era laureato ingegnere a Torino, con dottorato in matematica applicata.
Ada fu chiamata alla nascita Augusta in onore della sorellastra di Byron, Augusta Byron Leigh. Nata dall primo matrimonio di John “Mad Jack” Byron, il padre del poeta, con la bella marchesa di Carmarthen. Augusta sarà la corrispondente privilegiata del giovane fratellastro, al quale aveva dato una figlia, incurante dell’incesto e in costanza di matrimonio col cugino George Leigh che non amava, scudiero del principe di Galles - la terza di sette figli.
Internet – Si colloca in Borsa Facebook. Per un fantastiliardo. Si vendono cioè i desideri e le fantasie di alcuni miliardi di persone. Che possiamo giudicare, e sono, modesti, ma sarebbero “proprietà privata”.
Il conto si fa presto: Facebook documenta 845 milioni di utenti. Che però hanno appendici occasionali, la cifrar si può tranquillamente raddoppiare. Triplicare se per ogni utente si calcola un familiare - la vetrina è individuale, ma anche il popolo di Facebook possiede famiglia, sia pure in idea.
È un’aggiunta. È anche un cambiamento d’aria: di psicologia, mentalità, forme di apprendimento, cultura? Sì e no, come in ogni cambiamento, ma più forte di tanti altri. Forse anche una rivoluzione ma non un rovesciamento.
Drammatico è stato il balzo per quanto concerne l’accumulo, nella categoria degli Acp di Maria Laura Rodotà (“Style”, 5 maggio 2011, 49), gli Accumulatori culturali pirla. Quelli che sempre immagazzinano, letture sempre trascendentali e materiali, che mai leggeranno o useranno. A questa accumulazione internet, le reti sociali, i lettori elettronici, così versatili, hanno sicuramente impresso un’accelerazione, un rigonfiamento fino all’ipertrofia - restringendo o allontanando quella che Rodotà vagheggia come concentrazione, o capacità di riflessione.
È vero che le biblioteche di filosofi molto saggi potevano comprendere pochi libri. Ma l’accumulo, di libri e link è altra cosa che la saggezza. È però solo vero che Einstein non si sarebbe perduto dietro calcoli a cascata al computer, come non si perse dietro gli scaffali.
Privato politico – È la politica della castrazione. Il privato politico fu di moda a Berlino nel 1790, l’anno dopo la Rivoluzione. Un privato sterile, da intrattenitrici che promettevano più di quanto sapevano dare, Bettina, Caroline, Rahel, Henriette, o fantasticare. Il desiderio è dei poveri, insegnava Bramieri, il ricco non ne ha bisogno, né il potente.
Il privato politico è la rinuncia alla politica, e la rinuncia al privato. E questo è Brecht, "Tamburi nella notte". È il totalitarismo, nel terribile "1984" e non solo. O è la politica che è privata?
La politica in camera da letto sarebbe ottimo tema, le “posizioni” della politica.
Questione morale – L’ha inventata e imposta al giornalismo Felice Cavallotti. Adolescente fra i Mille, Cavallotti sostenne 32 duelli, prima di quello fatale nel 1898. Roba da cow boy. Da “Sfida all’O. K. Corral” al meglio.
Widerstand (resistenza) 3 – La repubblica di Weimar fu avversata dai protestanti più che dai cattolici, già spogliati dal Kulturkampf di Bismarck: la repubblica ne ridusse le chiese a enti di diritto pubblico, uno dei tanti. Mentre i Deutsche Kristen volevano, e vogliono, una chiesa “ariana”.
La giusta misura è tra resistenza e resa, scrisse il pastore Bonhöffer prima dell’esecuzione. È la divisa del prete, forse sbagliata: la chiesa deve resistere sempre, perché sempre la perseguitano – Cristo si fece crocifiggere.
Rudolf von Scheliha, giustiziato nella retata dell’Orchestra Rossa a fine ‘42, era uscito con varie onorificenze da Verdun nel ‘17 ed era entrato dopo la guerra nel gruppo combattente Saxo-Borussia, in difesa dell’Alta Slesia. In diplomazia a venticinque anni nel ’22, fu in missione a Praga, in Turchia e in Polonia, dapprima console a Katowice, quindi all’ambasciata a Varsavia. Era stato dal ‘33 anche membro attivo del partito Nazista, benché contrario all’antisemitismo. Allo scoppio della guerra, richiamato a Berlino alla Propaganda del ministero degli Esteri, fece filtrare all’estero informazioni su quella che sarebbe stata la Soluzione Finale, e agevolò la fuga di ebrei e polacchi, in contatto col vescovo di Berlino von Preysing, che nel ‘38 aveva creato un’Organizzazione di sostegno per i cattolici non “ariani”, e anche per i non battezzati. Corroborati i sospetti sui lager da quanto vide in missione in Olanda nel maggio ‘40, von Scheliha uscì dall’opposizione solitaria e aderì al gruppo di Henning von Tresckow. Il colonnello von Tresckow, uno dei tanti ufficiali superiori ostili a Hitler, sarà scoperto e giustiziato dopo l’attentato del ‘44. Von Scheliha, arrestato il 29 ottobre con la moglie, poi liberata, fu impiccato il 22 dicembre.
L’opposizione in Germania è stata per quasi un secolo prevalentemente contro il bolscevismo. Già prima di Hitler, nella Repubblica di Wiemar, e ancora a lun go dopo la guerra, nella Repubblica Federale di Bonn fino alla riunificazione. Molto sentita tra i più giovani, più spesso adolescenti. Ma fu ampia anche contro Hitler. Nei numeri se non nell’efficacia politica.
L’opposizione antinazista si tace in Germania di fronte all’interesse nazionale - la patria in pericolo, la guerra, il sovietismo. Ma il numero dei perseguitati politici nei lager fino al 1940, e anche durante la guerra, approssima le cinquantamila unità. Un numero da sommare ai tanti emigrati volontari, uomini di lettere e di pensiero ma anche persone comuni. Singolarmente assenti in guerra. Ma non contro Hitler. Che fu segno di attentati veri, e bene organizzati. In reazione ai quali volle circa diecimila vittime.
Si dice che i tedeschi obbediscono e basta. Ma almeno centomila si ribellarono a Hitler in guerra, non tutti renitenti, una buona metà si batté con la Resistenza in Grecia e Jugoslavia, qualcuno all’Est. E c’erano, ancora in guerra, diecimila obiettori di coscienza. Addetti ai lavori manuali, ma nutriti adeguatamente e liberi in caserma.
In Italia non si può dire, ma la presenza tedesca nella Resistenza “ha raggiunto dimensioni ragguardevoli”, dice lo storico Battaglia: “In tutte le regioni del Nord, senza eccezioni, è dimostrata la presenza di tedeschi nelle principali formazioni partigiane” - lo disse quarant’ani fa, in tedesco, in convegno, a Vienna. A Civitella d’Arezzo, tristemente nota per le rappresaglie naziste, la polizia tedesca ha contato 721 diserzioni nel solo luglio ‘44.
astolfo@antiit.eu
venerdì 23 marzo 2012
Ritardi e deviazioni del supertreno Facebook
Ci sono problemi nella corsa trionfale di Facebook verso Wall Street. A cinquanta giorni dal lancio del progetto, le banche che accompagnano la società di Mark Zuckerberg sono caute. Raccomandando un consolidamento del patrimonio e una diversificazione dei servizi. Doveva essere una volata, ma il collocamento si sta rivelando insidioso presso i fondi e gli altri grandi sottoscrittori.
L’operazione è partita con la copertura delle maggiori banche d’affari, Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan. E la compartecipazione di Merrill Lynch (Bank of America), Barclays, Allen & Co. Ma la sottoscrizione, che partiva assicurata, avrebbe incontrato problemi al ricollocamento. Al varo del progetto, l’1 febbraio, Facebook si propose di raccogliere 5 miliardi di dollari. Un obiettivo che le banche che l’accompagnano fecero subito definire modesto – arrivando a prospettare per Facebook un “valore” di 100 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo del collocamento avevano consigliato di dimezzare rispetto ai 10 miliardi inizialmente previsti.
Le perplessità del mercato riguarderebbero la scarsa consistenza patrimoniale di Facebook, che è tutta nell’idea del portale, messa online nel 2004 da Zuckerberg. Da qui la corsa in queste ultime settimane agli acquisti di brevetti e licenze, non importa di che natura. E lo studio di nuovi servizi con cui dare consistenza alle entrate.
Le entrate di Facebook sono in forte ascesa. Con 845 milioni di utenti a fine gennaio, il portale ha registrato nel 2011 un fatturato di 3,7 miliardi, con un aumento dell’88 per cento sul 2010. Per oltre il 25 per cento di utile netto, a un miliardo, con un aumento del 65 per cento sul 2010. Ma il fatturato è tutto basato sugli introiti pubblicitari. E la pubblicità dipende da pochi grossi clienti – per il 12 per cento da Zynga, la società di Farmville, altra meteora della socializzazione online.
L’operazione è partita con la copertura delle maggiori banche d’affari, Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan. E la compartecipazione di Merrill Lynch (Bank of America), Barclays, Allen & Co. Ma la sottoscrizione, che partiva assicurata, avrebbe incontrato problemi al ricollocamento. Al varo del progetto, l’1 febbraio, Facebook si propose di raccogliere 5 miliardi di dollari. Un obiettivo che le banche che l’accompagnano fecero subito definire modesto – arrivando a prospettare per Facebook un “valore” di 100 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo del collocamento avevano consigliato di dimezzare rispetto ai 10 miliardi inizialmente previsti.
Le perplessità del mercato riguarderebbero la scarsa consistenza patrimoniale di Facebook, che è tutta nell’idea del portale, messa online nel 2004 da Zuckerberg. Da qui la corsa in queste ultime settimane agli acquisti di brevetti e licenze, non importa di che natura. E lo studio di nuovi servizi con cui dare consistenza alle entrate.
Le entrate di Facebook sono in forte ascesa. Con 845 milioni di utenti a fine gennaio, il portale ha registrato nel 2011 un fatturato di 3,7 miliardi, con un aumento dell’88 per cento sul 2010. Per oltre il 25 per cento di utile netto, a un miliardo, con un aumento del 65 per cento sul 2010. Ma il fatturato è tutto basato sugli introiti pubblicitari. E la pubblicità dipende da pochi grossi clienti – per il 12 per cento da Zynga, la società di Farmville, altra meteora della socializzazione online.
Problemi di base - 95
spock
Freud fa dell’uomo un Dio prostetico, le low cost e l’unisex un Dio prostatico?
Se Dio somiglia ai teologi, sarà per questo che è la prova di tutto?
Perché dobbiamo occuparci sempre della Rai? Non la paghiamo abbastanza?
È Spatuzza, Ciacimino jr.: che vi paghiamo a fare? È Berlusconi mafioso solo quando è al governo?
Che fine ha fatto Massimo Ciancimino? E il papello?
Perché la secolarizzazione depaupera il linguaggio, l’essenza cioè e l’esistenza – il rifiuto della metafisica?
E Facebook, è fisica o metafisica, il ricostituente universale?
spock@antiit.eu
Freud fa dell’uomo un Dio prostetico, le low cost e l’unisex un Dio prostatico?
Se Dio somiglia ai teologi, sarà per questo che è la prova di tutto?
Perché dobbiamo occuparci sempre della Rai? Non la paghiamo abbastanza?
È Spatuzza, Ciacimino jr.: che vi paghiamo a fare? È Berlusconi mafioso solo quando è al governo?
Che fine ha fatto Massimo Ciancimino? E il papello?
Perché la secolarizzazione depaupera il linguaggio, l’essenza cioè e l’esistenza – il rifiuto della metafisica?
E Facebook, è fisica o metafisica, il ricostituente universale?
spock@antiit.eu
Tabucchi al passo, sdegnato
O della politica-orco, un leviatano distruttivo quando non è passione regolata. Un disastro, ad appena cinque anni dalla pubblicazione. Il gioco dell’oca richiede una casella base di ri-partenza. La casella base è qui Berlusconi in quanto l’Italia è Berlusconi. Contro Sofri, contro Ciampi, contro Pinochet.
La polemica intesa a riaffermare la Resistenza fa emergere il lato rituale della stessa: molto anti-resistenziale. Imbarazzante la stuccosa e contorta ironia, da intellettuale italico della “torre d’avorio”: lo scrittore sopraffino si vuole intellettuale piccolo-borghese, il severo censore che il capo alzando il paese vede pieno di merda, tutti i politici compresi – quello che una volta, sul treno o in tram, era per il Buonanima. Mentre la Francia, vuoi mettere, o l’America. Per non dire della Spagna che Tabucchi si coccola – la Spagna degli odiati (in patria) socialisti, quando ancora ce ne erano.
Antonio Tabucchi, L'oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando
La polemica intesa a riaffermare la Resistenza fa emergere il lato rituale della stessa: molto anti-resistenziale. Imbarazzante la stuccosa e contorta ironia, da intellettuale italico della “torre d’avorio”: lo scrittore sopraffino si vuole intellettuale piccolo-borghese, il severo censore che il capo alzando il paese vede pieno di merda, tutti i politici compresi – quello che una volta, sul treno o in tram, era per il Buonanima. Mentre la Francia, vuoi mettere, o l’America. Per non dire della Spagna che Tabucchi si coccola – la Spagna degli odiati (in patria) socialisti, quando ancora ce ne erano.
Antonio Tabucchi, L'oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando
giovedì 22 marzo 2012
L’indigenza (politica) di Berlinguer
Libro raccapricciante, deprimente. Per due terribili conferme che dà. Della faziosità, perfino violenta, di Berlinguer e del suo gruppo dirigente. Che si direbbe fuori posto nell’Italia del 1970-1980, così bisognosa di unità nazionale, e invece fortissima - perfino costitutiva poiché perdura. E della schizofrenia, per cui i puri e forti del grande movimento comunista si lasciavano condurre da anticomunisti professi, Scalfari, Evangelisti, Maccanico, o da intelligentoni alla Umberto Cavina (?) o alla Giovanni Galloni. Alla corda di Spadolini. E anche di Visentini. Nonché di Andreotti, il loro nume – il Pci ha santificato Moro, ma qui c’è solo Andreotti. Solo escluse le sinistre. Di Amendola, perfino di Natta. Craxi poi li faceva infuriare, smettevano per lui il perbenismo.
Il segretario di Berlinguer testimonia un’indigenza politica che si riterrebbe impossibile, se non ci fosse stata – qui non si parla, nemmeno se ne accenna, del patrimonio di voti disperso.
Antonio Tatò, Caro Berlinguer
Il segretario di Berlinguer testimonia un’indigenza politica che si riterrebbe impossibile, se non ci fosse stata – qui non si parla, nemmeno se ne accenna, del patrimonio di voti disperso.
Antonio Tatò, Caro Berlinguer
Secondi pensieri - (95)
zeulig
Amore – È anzitutto amore di se stessi. Accettazione. Che quando manca diventa disamore, un vuoto nella vita, seppure nella pratica sessuale - il vecchio tipo del single meridionale, mammone, galantuomo, cioè inetto alla vita.
È un moto spontaneo. Non regolato, disinteressato – non di convenienza né tattico, mirato a altro fine.
Un moto spontaneo dello spirito, vorrebbe la frase fatta. Dello spirito che però comprenda il corpo, giacché è mosso da riflessi organici ben distinti, e li muove.
Non è il puro spirito della riflessione, della filosofia. Di cui invece è la vittima. Si può dire che la riflessione uccide (nega, cancella) l’amore? Sì, alla sommatoria sì. Su basi storiche e statistiche. È psicologicamente (individualmente) l’origine e l’effetto del suo indebolimento. È motivo oggi della sua scomparsa, la manifestazione forse peculiare della secolarizzazione weberiana, del disincanto.
Lo muove la bellezza. Anche particolare o speciale, minima, circostanziale: un tratto, un tono, uno sguardo, un momento o un’occasione.
Nella polemica Marx-Proudhon il secondo sosteneva che “l’oggetto di ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna per l’innamorato, il potere per l’ambizioso, l’oro per l’avaro, una corona d’alloro per il poeta, il profitto per l’industriale”. Marx ribatteva che no, “l’oggetto immediato dell’emulazione industriale è il prodotto e non il profitto”, ma concordava: “L’oggetto immediato dell’innamorato è la donna”. Prosa maschia, senza i lugubri sottintesi del neutro inglese, amato-a eccetera. Ma vorrà pure dire che “oggetto dell’innamorata è l’uomo”? È possibile, l’amore una volta lo facevano le donne.
Le donne vogliono che si parli loro soltanto di amore, annota Voltaire. I diciannove ventesimi delle fantasticherie delle donne si riferiscono all’amore, aggiunge Stendhal, o Balzac. Ora forse non ne hanno più voglia. Come nei racconti di Hemingway, il climaterio è cronico: l’Islandese delle Operette morali, “disperato di piaceri come di cosa proibita alla nostra specie”, che pareva un pessimista leopardiano, è ora qui - il piacere è in limine, direbbe il teologo, da indiani del tantra perfetto, eunuchi. Ma “ogni amore rende felici, compresa l’infelicità in amore”: questo lo dice una donna, Lou Salomé, che ne ha insegnato molto, dell’uno e dell’altra, a poeti e filosofi.
Bellezza – Più che canonica, è una segreta corrispondenza. Psicologica, ambientale, storica.
La bellezza di Dostoevskij che “salverà la terra” è la bellezza dei corpi.
Corpo – Lo scandalo Casati fu nel 1970 un trionfo del corpo, in ogni suo dettaglio, elargito ai più e inconsutile, quando per i moralisti era putridume. Il corpo di Anna Casati s’impose dopo la morte. E se il corpo è lo spirito, come vuole san Paolo, la cosa è intrigante: la carne sarà debole se lo spirito è debole, ma se è forte, allora c’è dietro uno spirito forte.
Immagine – Tra le forme surrettizie del reale che l’immagine ipostatizza quelle amorosa è la più diffusa. In tutte le forme, dal puro angelo alla “Beatrice” - l’“essere dello schermo” – e a quella brutale della pornografia, moltiplicata dalla fotografia. Non solo le vicende esemplari della società dello schermo, anche quelle personali sono vissute in copia, immagini d’immagini.
Il desiderio è visivo. È il pensare di Bruno, “speculare con le immagini”. Kafka ama Felice in fotografia. Joyce lo eccitava l’idea che sua moglie se la facesse qualcun altro, seppure in foto, ci ha scritto su il romanzo. Bataille veniva all’idea che al suo posto ci fosse un altro – finché la moglie, la briosa Sylvia Maklès, attrice, sedicenne, non lo prese sul serio, e a nome suo s’è messa con Lacan, che è un uomo dietro la leggenda (“non c’è che un solo sesso, il femminile”), dopo quindici anni di furiosi amori e una figlia facendosene sposare, sempre come Sylvia Bataille. Le foto del delitto Casati, 30 agosto 1970, prolungarono quell’estate lubriche. E non per le pose scomposte, né per necrofilia, ai più ignota, ma per il desiderio che incarnavano fisico, una voglia d’essere cui la morte aggiunge e non toglie.
Immaginazione - Nello scandalo Casati la lubricità restò ufficialmente interdetta, pur nell’esposizione permanente dei corpi. Si disse provinciale lei, arrivista, troia, impotente lui, malato. Del complesso di Otello, il cialtronesco personaggio di Shakespeare, che gli uomini secondo Wilde porta a uccidere coloro che amano, e pure le donne per la verità. Ma la lussuria di Anna Fallarino Casati era reale, anche senza l’altro o la realtà dell’altro. L’evoluzione conosce di questi casi: ci può essere un organo senza funzione, e viceversa, siamo capaci di fare cose per le quali non siamo dotati, per la voglia. Tra i fringuelli di Darwin ce n’è uno che si sente un picchio, benché non ne possegga, dentro il becco, la lunga lingua: come quello scava i tronchi a caccia d’insetti e li cattura con appositi utensili, la spina di cactus nel becco, lo stuzzicadenti, un rametto, con cui artiglia gli insetti via via che escono dal buco.
Lo scandalo, esaurito l’orrore del primo momento (il marito uccide la moglie, con l’ultimo amante che lui le ha imposto, e si uccide), diventa uno scherzo dell’immaginazione. Dell’assenza d’immaginazione, giacché nella solitudine essa prolifera, ma è la stessa cosa: si fantastica per vezzo onanistico, anche se sulla carne d’altri, o sugli eventi, che non tollera limiti, dinieghi, contrasti. L’immaginazione non soffre la gravità, per quanto questa pesi. È il mondo del desiderio, e come la pornografia, che lo esprime, ha bisogno di nuovi eccessi. È congegno semplice e gratuito di trasgressione incessante. L’immaginazione è potere dissoluto. Che, non storicizzabile, marca pesante la storia, anche degli individui, ma può latitare. Moravia dice che la pornografia è noiosa perché non ha fantasia. Ma la tentazione è sempre stata forte, fin nel deserto. “L’eterno femminino\ ce lo tira su”, assicura Goethe alla fine dei due Faust, tredicimila versi. Ora forse non più, non è detto. Ma Gerardo Segarelli, nomen omen, fondatore degli zoccolanti apostolici, esercitava la continenza dormendo in mezzo alla donne.
Materialismo – “Memento quia pulvis es et in pulvere reverteris”: ricordati che sei polvere, l’unico materialismo è questo della chiesa, quando dimentica di aver magnificato il corpo nella resurrezione.
È il tratto più in comune che il cattolicesimo condivide col Book of Common Prayer anglicano del 1549, che ancora fa testo: “Earthe, to earthe/ ashes, to ashes/ dust, to dust”, terra alla terra, ceneri alle ceneri, polvere alla polvere.
Morte – Non giunge a sorpresa, è qualcosa di noto.
Morte, malattia, povertà e licenza turbarono Budda e Schopenhauer perché fino ai vent’anni essi le avevano ignorate. Altro è il caso se uno, come a tutti succede, li vive dall’infanzia.
Vero – Le forme più riconosciute e stabili di pedagogia prevedono l’obbligo del gioco e la recita. L’obbligo di giocare sembra un controsenso. Più ancora lo sembra, nella pedagogia della semplicità, recitare in teatro, mettersi in maschera. E invece il teatro, per chi lo fa, funziona al contrario: sotto il trucco e i costumi le maschere si abbandonano. L’attore si disinibisce, cioè si libera. Ma non nella prova, la ripetizione, la discussione, no, proprio sulla scena, con i fondali, i costumi e la musica, quando tutto è effettivamente falso, non nella preparazione, accurata, del falso. Il teatro è parte della liberazione - della lotta al “rispetto umano”, si diceva un tempo: delle convenienze, delle disparità sociali.
zeulig@antiit.eu
Amore – È anzitutto amore di se stessi. Accettazione. Che quando manca diventa disamore, un vuoto nella vita, seppure nella pratica sessuale - il vecchio tipo del single meridionale, mammone, galantuomo, cioè inetto alla vita.
È un moto spontaneo. Non regolato, disinteressato – non di convenienza né tattico, mirato a altro fine.
Un moto spontaneo dello spirito, vorrebbe la frase fatta. Dello spirito che però comprenda il corpo, giacché è mosso da riflessi organici ben distinti, e li muove.
Non è il puro spirito della riflessione, della filosofia. Di cui invece è la vittima. Si può dire che la riflessione uccide (nega, cancella) l’amore? Sì, alla sommatoria sì. Su basi storiche e statistiche. È psicologicamente (individualmente) l’origine e l’effetto del suo indebolimento. È motivo oggi della sua scomparsa, la manifestazione forse peculiare della secolarizzazione weberiana, del disincanto.
Lo muove la bellezza. Anche particolare o speciale, minima, circostanziale: un tratto, un tono, uno sguardo, un momento o un’occasione.
Nella polemica Marx-Proudhon il secondo sosteneva che “l’oggetto di ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna per l’innamorato, il potere per l’ambizioso, l’oro per l’avaro, una corona d’alloro per il poeta, il profitto per l’industriale”. Marx ribatteva che no, “l’oggetto immediato dell’emulazione industriale è il prodotto e non il profitto”, ma concordava: “L’oggetto immediato dell’innamorato è la donna”. Prosa maschia, senza i lugubri sottintesi del neutro inglese, amato-a eccetera. Ma vorrà pure dire che “oggetto dell’innamorata è l’uomo”? È possibile, l’amore una volta lo facevano le donne.
Le donne vogliono che si parli loro soltanto di amore, annota Voltaire. I diciannove ventesimi delle fantasticherie delle donne si riferiscono all’amore, aggiunge Stendhal, o Balzac. Ora forse non ne hanno più voglia. Come nei racconti di Hemingway, il climaterio è cronico: l’Islandese delle Operette morali, “disperato di piaceri come di cosa proibita alla nostra specie”, che pareva un pessimista leopardiano, è ora qui - il piacere è in limine, direbbe il teologo, da indiani del tantra perfetto, eunuchi. Ma “ogni amore rende felici, compresa l’infelicità in amore”: questo lo dice una donna, Lou Salomé, che ne ha insegnato molto, dell’uno e dell’altra, a poeti e filosofi.
Bellezza – Più che canonica, è una segreta corrispondenza. Psicologica, ambientale, storica.
La bellezza di Dostoevskij che “salverà la terra” è la bellezza dei corpi.
Corpo – Lo scandalo Casati fu nel 1970 un trionfo del corpo, in ogni suo dettaglio, elargito ai più e inconsutile, quando per i moralisti era putridume. Il corpo di Anna Casati s’impose dopo la morte. E se il corpo è lo spirito, come vuole san Paolo, la cosa è intrigante: la carne sarà debole se lo spirito è debole, ma se è forte, allora c’è dietro uno spirito forte.
Immagine – Tra le forme surrettizie del reale che l’immagine ipostatizza quelle amorosa è la più diffusa. In tutte le forme, dal puro angelo alla “Beatrice” - l’“essere dello schermo” – e a quella brutale della pornografia, moltiplicata dalla fotografia. Non solo le vicende esemplari della società dello schermo, anche quelle personali sono vissute in copia, immagini d’immagini.
Il desiderio è visivo. È il pensare di Bruno, “speculare con le immagini”. Kafka ama Felice in fotografia. Joyce lo eccitava l’idea che sua moglie se la facesse qualcun altro, seppure in foto, ci ha scritto su il romanzo. Bataille veniva all’idea che al suo posto ci fosse un altro – finché la moglie, la briosa Sylvia Maklès, attrice, sedicenne, non lo prese sul serio, e a nome suo s’è messa con Lacan, che è un uomo dietro la leggenda (“non c’è che un solo sesso, il femminile”), dopo quindici anni di furiosi amori e una figlia facendosene sposare, sempre come Sylvia Bataille. Le foto del delitto Casati, 30 agosto 1970, prolungarono quell’estate lubriche. E non per le pose scomposte, né per necrofilia, ai più ignota, ma per il desiderio che incarnavano fisico, una voglia d’essere cui la morte aggiunge e non toglie.
Immaginazione - Nello scandalo Casati la lubricità restò ufficialmente interdetta, pur nell’esposizione permanente dei corpi. Si disse provinciale lei, arrivista, troia, impotente lui, malato. Del complesso di Otello, il cialtronesco personaggio di Shakespeare, che gli uomini secondo Wilde porta a uccidere coloro che amano, e pure le donne per la verità. Ma la lussuria di Anna Fallarino Casati era reale, anche senza l’altro o la realtà dell’altro. L’evoluzione conosce di questi casi: ci può essere un organo senza funzione, e viceversa, siamo capaci di fare cose per le quali non siamo dotati, per la voglia. Tra i fringuelli di Darwin ce n’è uno che si sente un picchio, benché non ne possegga, dentro il becco, la lunga lingua: come quello scava i tronchi a caccia d’insetti e li cattura con appositi utensili, la spina di cactus nel becco, lo stuzzicadenti, un rametto, con cui artiglia gli insetti via via che escono dal buco.
Lo scandalo, esaurito l’orrore del primo momento (il marito uccide la moglie, con l’ultimo amante che lui le ha imposto, e si uccide), diventa uno scherzo dell’immaginazione. Dell’assenza d’immaginazione, giacché nella solitudine essa prolifera, ma è la stessa cosa: si fantastica per vezzo onanistico, anche se sulla carne d’altri, o sugli eventi, che non tollera limiti, dinieghi, contrasti. L’immaginazione non soffre la gravità, per quanto questa pesi. È il mondo del desiderio, e come la pornografia, che lo esprime, ha bisogno di nuovi eccessi. È congegno semplice e gratuito di trasgressione incessante. L’immaginazione è potere dissoluto. Che, non storicizzabile, marca pesante la storia, anche degli individui, ma può latitare. Moravia dice che la pornografia è noiosa perché non ha fantasia. Ma la tentazione è sempre stata forte, fin nel deserto. “L’eterno femminino\ ce lo tira su”, assicura Goethe alla fine dei due Faust, tredicimila versi. Ora forse non più, non è detto. Ma Gerardo Segarelli, nomen omen, fondatore degli zoccolanti apostolici, esercitava la continenza dormendo in mezzo alla donne.
Materialismo – “Memento quia pulvis es et in pulvere reverteris”: ricordati che sei polvere, l’unico materialismo è questo della chiesa, quando dimentica di aver magnificato il corpo nella resurrezione.
È il tratto più in comune che il cattolicesimo condivide col Book of Common Prayer anglicano del 1549, che ancora fa testo: “Earthe, to earthe/ ashes, to ashes/ dust, to dust”, terra alla terra, ceneri alle ceneri, polvere alla polvere.
Morte – Non giunge a sorpresa, è qualcosa di noto.
Morte, malattia, povertà e licenza turbarono Budda e Schopenhauer perché fino ai vent’anni essi le avevano ignorate. Altro è il caso se uno, come a tutti succede, li vive dall’infanzia.
Vero – Le forme più riconosciute e stabili di pedagogia prevedono l’obbligo del gioco e la recita. L’obbligo di giocare sembra un controsenso. Più ancora lo sembra, nella pedagogia della semplicità, recitare in teatro, mettersi in maschera. E invece il teatro, per chi lo fa, funziona al contrario: sotto il trucco e i costumi le maschere si abbandonano. L’attore si disinibisce, cioè si libera. Ma non nella prova, la ripetizione, la discussione, no, proprio sulla scena, con i fondali, i costumi e la musica, quando tutto è effettivamente falso, non nella preparazione, accurata, del falso. Il teatro è parte della liberazione - della lotta al “rispetto umano”, si diceva un tempo: delle convenienze, delle disparità sociali.
zeulig@antiit.eu
mercoledì 21 marzo 2012
È l’economia, presidente!
La politica è teatro. Ma c’è teatro e teatro: la tragedia, la commedia, e la farsa. Parlando dell’Italia è ovvio parlare di commedia dell’arte o all’italiana, cioè di farsa. Non si fa altro dacché l’Italia esiste. - qualche politico si rispetta dopo morto, a distanza di anni: Cavour, Giolitti, De Gasperi. Ma bisogna ricordare che la farsa non è per ridere, più spesso mette in scena personaggi sgradevoli: corrotti, truffatori, concussori. Ipocriti, insomma.
L’ipocrita è invadente, e da qualche tempo dominante. Occupa tribunali, la Rai, i giornali. E ora purtroppo il Quirinale. Di un presidente che sa quello che accade. Che l’Italia è in recessione. E che l’Italia ha bisogno di un vero governo, sorretto cioè dalla Costituzione e non da Alfano, Casini e Bersani. Ma non lo dice, e anzi opera per il nemico.
Non si vuole un governo eletto, ma si governa attraverso decreti. Stigmatizzati coi governi Berlusconi, solo benvenuti senza Berlusconi - Mussolini se ne fece approvare 2376 in una sola seduta della Camera, l’inconveniente è ora superato coi decreti Milleproroghe, o con le generiche dizioni, decreto Pensioni, decreto Liberalizzazioni, tutti in uno. Si combatte l’evasione fiscale attraverso gli scontrini e le piazzate, invece che con le leggi ben fatte. Si erige a totem un bilancio da squadrare a colpi di machete, camuffandolo per una sana gestione dell’economia, mentre è tutto il suo contrario.
“È l’economia, stupido!”, fu lo slogan con cui Clinton vinse nel 1992 contro Bush, uno dei pochi presidente americani non riconfermati, reduce da muri caduti e altre vittorie in terra, in cielo e in mare. Napolitano non è stupido, ma sul bilancio-totem non è questa la sua prima volta. Vent’anni fa fece lo stesso, da presidente della Camera, senza esito durevole. La sola differenza è che allora Napolitano l’equivoco condivideva con Amato, oggi con Monti, ma il risultato non è diverso. Se non che c’è di peggio.
Non si dice più che il Parlamento, così com’è, è solo una brutta bestia. O che il governo così com’è, un consiglio dei ministri appeso alle correnti dei partiti, è ancora peggio. Non si vuole un governo? Non si vuole un Parlamento. Napolitano ha semplicemente dimenticato quello per cui ha operato per una vita. Anche lui per il partito della crisi?
L’ipocrita è invadente, e da qualche tempo dominante. Occupa tribunali, la Rai, i giornali. E ora purtroppo il Quirinale. Di un presidente che sa quello che accade. Che l’Italia è in recessione. E che l’Italia ha bisogno di un vero governo, sorretto cioè dalla Costituzione e non da Alfano, Casini e Bersani. Ma non lo dice, e anzi opera per il nemico.
Non si vuole un governo eletto, ma si governa attraverso decreti. Stigmatizzati coi governi Berlusconi, solo benvenuti senza Berlusconi - Mussolini se ne fece approvare 2376 in una sola seduta della Camera, l’inconveniente è ora superato coi decreti Milleproroghe, o con le generiche dizioni, decreto Pensioni, decreto Liberalizzazioni, tutti in uno. Si combatte l’evasione fiscale attraverso gli scontrini e le piazzate, invece che con le leggi ben fatte. Si erige a totem un bilancio da squadrare a colpi di machete, camuffandolo per una sana gestione dell’economia, mentre è tutto il suo contrario.
“È l’economia, stupido!”, fu lo slogan con cui Clinton vinse nel 1992 contro Bush, uno dei pochi presidente americani non riconfermati, reduce da muri caduti e altre vittorie in terra, in cielo e in mare. Napolitano non è stupido, ma sul bilancio-totem non è questa la sua prima volta. Vent’anni fa fece lo stesso, da presidente della Camera, senza esito durevole. La sola differenza è che allora Napolitano l’equivoco condivideva con Amato, oggi con Monti, ma il risultato non è diverso. Se non che c’è di peggio.
Non si dice più che il Parlamento, così com’è, è solo una brutta bestia. O che il governo così com’è, un consiglio dei ministri appeso alle correnti dei partiti, è ancora peggio. Non si vuole un governo? Non si vuole un Parlamento. Napolitano ha semplicemente dimenticato quello per cui ha operato per una vita. Anche lui per il partito della crisi?
La 7, televisione a perdere
“Abbiamo toccato il fondo”, dice l’amministratore delegato delle Generali Giovanni Perissinotto. Lo dice con soddisfazione, “grazie” alle perdite incorse, aggiunge, in Grecia e con Telecom Italia: come a dire “abbiamo perso tanto, non possiamo fare peggio”. Ma poiché Telecom Italia ha appena annunciato la sua solita perdita annuale con Telecom Italia Media, cioè con La 7 e Mtv, e poiché gli azionisti di Telecom, e quindi di TI Media, sono gli stessi del governo Monti, vale la pena fermarsi un attimo alle strategie e tattiche di queste forze buone del mercato.
TI Media-La 7 chiude il 2011 con un fatturato analogo a quello di cinque anni prima. E con una perdita di 83 milioni. Dopo una perdita di 54 milioni nel 2010, di 72 milioni nel 2009, di 92 nel 2008, di 88 milioni nel 2007, eccetera. Ogni anno TI Media produce solo perdite, fra i 50 e i 100 milioni, fra il 25 e il 40 per cento del fatturato. Altrove sarebbe fallita, a Milano sta in Borsa, ed è tenuta in vita da Telecom Italia. Che sa fare – non bene – solo telefonate, e non televisione. Ed è uno dei maggiori gruppi in Borsa, ad azionariato diffuso. Ma Franco Bernabé, l’ad di Telecom che all’Eni e altrove ha tagliato senza pietà i rami secchi, qui se ne guarda bene – la distratta TI Media fa peraltro gestire dal suo pupillo Giovanni Stella, figlio del compianto giurista Federico, che aveva introdotto in Italia lo studio della criminalità del colletti bianchi. Il segreto sta nei padroni: Mediobanca, Generali, Intesa, Sintonia. Cioè Bazoli, la Fiat e i Benetton. Che pagano ogni anno 50-100 milioni per avere uno strumento di potere, contendendo i contratti alla Rai, nientemeno, e a Mediaset – i milioni li pagano i piccoli azionisti, loro si godono il potere.
TI Media-La 7 chiude il 2011 con un fatturato analogo a quello di cinque anni prima. E con una perdita di 83 milioni. Dopo una perdita di 54 milioni nel 2010, di 72 milioni nel 2009, di 92 nel 2008, di 88 milioni nel 2007, eccetera. Ogni anno TI Media produce solo perdite, fra i 50 e i 100 milioni, fra il 25 e il 40 per cento del fatturato. Altrove sarebbe fallita, a Milano sta in Borsa, ed è tenuta in vita da Telecom Italia. Che sa fare – non bene – solo telefonate, e non televisione. Ed è uno dei maggiori gruppi in Borsa, ad azionariato diffuso. Ma Franco Bernabé, l’ad di Telecom che all’Eni e altrove ha tagliato senza pietà i rami secchi, qui se ne guarda bene – la distratta TI Media fa peraltro gestire dal suo pupillo Giovanni Stella, figlio del compianto giurista Federico, che aveva introdotto in Italia lo studio della criminalità del colletti bianchi. Il segreto sta nei padroni: Mediobanca, Generali, Intesa, Sintonia. Cioè Bazoli, la Fiat e i Benetton. Che pagano ogni anno 50-100 milioni per avere uno strumento di potere, contendendo i contratti alla Rai, nientemeno, e a Mediaset – i milioni li pagano i piccoli azionisti, loro si godono il potere.
La Juventus chiama a testimone Guido Rossi
In attesa dell’Appello nel processo a Moggi (ma più ancora della Cassazione, che il giudizio potrebbe portare fuori Napoli), e dell’esito dei suoi ricorsi amministrativi, la Juventus accarezza l’idea di portare a testimone nei processi per Calciopoli Guido Rossi. Testimone a favore. Lo stesso avvocato d’affari, professore, senatore ex Pci e consigliere d’amministrazione dell’Inter e dello sponsor dell’Inter Tronchetti Provera.
È un’idea non societaria, Né degli avvocati. Ma del presidente della società, Andrea Agnelli, che ne ha parlato con gli amici. L’idea di convocare Rossi quale testimone a carico nasce dalla lite che oppose lo stesso Rossi a Tronchetti Provera subito dopo aver assolto il suo compito ammazza-Juventus alla Figc. Rossi presiedeva Olimpia, la finanziaria con cui Tronchetti Provera controllava Telecom. Ma ai primi del 2007 Tronchetti Provera non gli rinnovò l’incarico e il professore se la prese a male. La convocazione di Rossi dovrebbe servire a riportare nel processo anche le intercettazioni abusive di Telecom-Tronchetti Provera sulla Juventus, che la Procura di Milano ha insabbiato.
È un’idea non societaria, Né degli avvocati. Ma del presidente della società, Andrea Agnelli, che ne ha parlato con gli amici. L’idea di convocare Rossi quale testimone a carico nasce dalla lite che oppose lo stesso Rossi a Tronchetti Provera subito dopo aver assolto il suo compito ammazza-Juventus alla Figc. Rossi presiedeva Olimpia, la finanziaria con cui Tronchetti Provera controllava Telecom. Ma ai primi del 2007 Tronchetti Provera non gli rinnovò l’incarico e il professore se la prese a male. La convocazione di Rossi dovrebbe servire a riportare nel processo anche le intercettazioni abusive di Telecom-Tronchetti Provera sulla Juventus, che la Procura di Milano ha insabbiato.
Male & male, la Patria di Fruttero & Gramellini
Gramellini trascina Fruttero alla sua ultima fatica in una serie interminabile dei suoi predicozzi da Fazio. Dapprima sulla “Stampa”, poi in questa scelta negli Oscar. È tutto dire. Un “ritratto” dell’Italia anno per anno nei suoi centocinquant’anni – alcuni anni si saltano, ma altri si raddoppiano. Il genere: Mogol e Battisti sono “il miracolo del genio che esplode spontaneo” (Battisti, che “passa per fascista”, di più: “Tutti – lottacontinuisti, maoisti, leninisti, e persino i brigatisi nei giorni della carcerazione di Moro – confesseranno di aver cantato Lucio in segreto”). O di “Gomorra”, per dire, il reportage di Saviano: “La magistratura e le forze dell’ordine prendono infine sul serio la piaga della camorra”. Forse Fruttero dormiva, se è quello de “La prevalenza del cretino”.
L’Avvocato Agnelli “carrista in Africa occidentale” è approssimazione minore. C’è anche Puccini “che anticipa sontuosamente la musica d’accompagnamento dei film prima che il cinema esista”. Ma questa è di Baricco.
Carlo Fruttero, Massimo Gramellini, La Patria, bene o male, Oscar, pp. 363 € 9,50
L’Avvocato Agnelli “carrista in Africa occidentale” è approssimazione minore. C’è anche Puccini “che anticipa sontuosamente la musica d’accompagnamento dei film prima che il cinema esista”. Ma questa è di Baricco.
Carlo Fruttero, Massimo Gramellini, La Patria, bene o male, Oscar, pp. 363 € 9,50
martedì 20 marzo 2012
Per la patria tedesca non basta la lingua
“Se Irene avesse dovuto dire quello che stava pensando, nessuna frase sarebbe stata adatta”, nessuna sillaba che il caso legasse. A metà del primo libro tradotto della scrittrice poi premio Nobel 2009 (pubblicato nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, tradotto nel 1992, riedito ora in economica), questo si può dirne il codice: lo stupore. Con espressione mediata dalla filosofia di Jeanne Hersch ma con altro senso, riduttivo: della solitudine, nello spaesamento. Di chi ha due patrie e non ne ha nessuna. Del disadattamento, si sarebbe tentati di pensare, che però viene rifiutato con ostinazione, con una vigilanza politica in Romania, e sociale poi in Germania, costante. Della stessa condizione esistenziale, allora, di chi vive in Romania nella sua piccola patria tedesca del Banato, e nella grande Germania da immigrata, anche se privilegiata per essere Aussiedler, una cittadina tedesca di fuori: tra “il paese di là” e “il paese di qua”, nel quale solo incontra “abitanti con la valigia”, non di più, niente di meglio. Che Irene-Herta, in questo racconto che è un excursus dei primi mesi in Germania dopo l’emigrazione definitiva nel 1987, si fa spiegare in uno dei due omaggi all’Italia: da un tedesco di origine italiana nato in Svizzera – l’altro omaggio è a Calvino: Irene viene esplicitamente dalle “Città invisibili”. Lui è “senza patria”, ma lei non è “in patria”, è “soltanto all’estero”.
Un’impossibilità che non è evidentemente linguistica. Herta Müller fa anche qui la “scoperta della lingua” che è la sua cifra di scrittura, delle forme grammaticali e sintattiche, delle metafore e delle altre figure, ma da padrona della lingua stessa. Di chi come lei è cresciuto in una lingua – integrato in un’altra comunità ma differenziato (marchiato) dalla lingua. Qui è come se dicesse, o chiedesse (ponesse il problema): si può essere “all’estero” nella lingua materna?
Un paradosso solo tedesco – non c’è tra i tanti franco-africani, né fra gli anglo-indiani, o gli indiani delle West Indies, e tra gli anglo-africani. Di cui si vorrebbe sapere di più dai germanisti. Ma i germanisti da qualche tempo tacciono, sui Nobel d’area che pure sono tanti: Grass, Jelinek, Müller, Tranströmer. Perplessi?
Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, Marsilio, pp. 169 € 9
Un’impossibilità che non è evidentemente linguistica. Herta Müller fa anche qui la “scoperta della lingua” che è la sua cifra di scrittura, delle forme grammaticali e sintattiche, delle metafore e delle altre figure, ma da padrona della lingua stessa. Di chi come lei è cresciuto in una lingua – integrato in un’altra comunità ma differenziato (marchiato) dalla lingua. Qui è come se dicesse, o chiedesse (ponesse il problema): si può essere “all’estero” nella lingua materna?
Un paradosso solo tedesco – non c’è tra i tanti franco-africani, né fra gli anglo-indiani, o gli indiani delle West Indies, e tra gli anglo-africani. Di cui si vorrebbe sapere di più dai germanisti. Ma i germanisti da qualche tempo tacciono, sui Nobel d’area che pure sono tanti: Grass, Jelinek, Müller, Tranströmer. Perplessi?
Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, Marsilio, pp. 169 € 9
Umbratile, impegnato, scomunicato, Cassola
È la riedizione del Supercorallo Einaudi del 1959, con analogo titolo. Con una cronologia e una nota al testo di Alba Andreini che sono un racconto a sé, attingendo a fonti inedite e agli archivi Einaudi. Un vivace ritratto di Manlio Cancogni, amico della vita di Cassola, ne esaurisce la biografia, caratteriale e artistica se non puntuale. Era un’altra epoca, un altro mondo: una gita al mare a Marina di Pietrasanta nell’ottobre del ’48 vede assieme Cassola, Cancogni, Bassani, Carlo Laurenzi e Hombert Bianchi – il giornalista gentiluomo futuro direttore del “Giornale del Mattino” di Firenze. A Grosseto Cassola lavora insieme con Bianciardi. All’Einaudi ha come redattori Calvino e Luciano Foà. Quando a vent’anni era entrato, da Roma dov’era nato e cresciuto, a Firenze per il tramite del cugino Piero Santi, gli interlocutori sono Fortini, Parronchi, Franco Calamandrei.
Cassola ha vissuto gli ultimi vent’anni tra le polemiche politiche, per il pacifismo totale, e per una propensione alla polemica. Ma è scrittore letterato. Tracciato anche lui - come Pasolini – all’esordio nel 1942 da grande fiutatore Gianfranco contini. In contatto con gli ambienti fiorentini, di “Letteratura”, “Paragone” che negli anni 1930-1940 facevano la letteratura italiana. Autore di racconti umbratili, crepuscolari alla Marino Moretti, uno scrittore di una generazione precedente ancora in auge. Della stessa insularità senese, seppure decentrata, di Tozzi. Di esistenze umili e introflesse, anche nella Resistenza, Racconti d’ambiente e non di caratteri, da fermo, in surplace, dove nulla accade, non c’è aneddoto né intrigo, neppure della natura inclemente o del caso-fato avverso, istantanee di vita dettagliate, minute, e indistinte. Non un personaggio resta, ma un mondo. Il mondo degli umili – Cassola fu segnato dalla lettura di Verga - negli anni della nostra vita o epoca, postbellici cioè, ma precedenti al boom.
Ma conviene dirne di più. Dei crepuscolari Cassola ha distinta la vocazione alle tonalità basse, di personaggi non eroici, nelle gesta quotidiane. Del rifiuto netto dell’ideologia, religiosa come politica, per una sorta d’integralismo umanitario e di libertà. Ma, a differenza dei crepuscolari, è stato impegnato in tutte le più minute attività sociali e politiche, dall’insegnamento nelle scuole al consiglio comunali e alla Lega per la pace e il disarmo unilaterale. Si può anzi dire personaggio civile quanto nessun altro scrittore italiano, impegnato nella politica ideale e pratica con giudizio sempre attento e non per comodità o opportunismo. Già nel 1935, a diciott’anni, si vedeva con Zangrandi, Alicata, Zevi (e Vittorio Mussolini) in un Movimento Novista Antifuturista, in realtà di fronda al regime. Qualche mese dopo ne mise assieme uno suo, più propriamente di critica al regime, con Alicata e Zevi tra gli altri. Fu attivo nella Resistenza dopo l8 settembre. Dubbioso sul Fronte Popolare nel 1948, sarà poi attivo in politica tra i radicali del “Mondo” di Pannunzio e i socialisti di Nenni. Tra i creatori nel 1952 di unità Popolare, un partito che non sfonda alle elezioni del 1953 e nel 1958 confluirà nel Psi. Di cui Cassola diventa esponente di spicco (ne sarà consigliere comunale a Grosseto fino al 1964. Quindi, negli ultimi venti anni, nel pacifismo militante – un percorso analogo a quello di Jean Giono in Francia, suo gemello se non modello. Nel 1977 fonda la Lega per il disarmo, per il disarmo unilaterale, con la quale tiene raduni e convegni. Dal 1979 in collegamento con la Lega Socialista dei radicali di Rutelli, col quale pubblicherà l’anno successivo in alcuni numeri il mensile “L’asino”, un’antica testata socialista, per il disarmo unilaterale.
In questa battaglie Cassola è però stato spesso osteggiato, anche con virulenza. E non sempre per colpa, caratteriale o errore di scelta. L’aver tratteggiato la Resistenza fuori dagli schemi, nei romanzi “Fausto e Anna” e “La ragazza di Bube”, gli valse una sorta di ostracismo. “Fausto e Anna” s’indusse perfino a riscriverlo, sulla base delle riserve del suo estimatore ed editore Calvino, dopo un’accesa e lunga polemica, a riscriverlo. Cassola è stato uno scandalo in vita, benché mite e ritroso, e continua a esserle dopo morto, per il greve silenzio.
Si riedita ora timidamente da un paio d’anni, dopo un quarto di secolo di silenzio. Negli Oscar di cui pure fu la colonna. Con un milione e mezzo di copie, “reali”, nei primi vent’anni della collana, dopo il 1965. Cassola morì nel 1987, ma già da molti anni era stato accantonato nella “stima”, seppellito dai lazzi del Gruppo 63, un’avanguardia che dominava le redazioni culturali. Mentre il suo schieramento politico radicalsocialista lo isolava nella “politica culturale” dominante, del Pci. Un assassinio di lunga durata. Oggi Cancogni si ricorda nelle biografie della Fallaci, bersaglio delle prime imprese della giornalista al liceo, già allora in cerca di glamour, che lo irrise con un tazebao. E il posto di Cassola più venduto è stato preso da Umberto Eco, che animava il Gruppo '63 - gruppo che si celebra a Palermo, dove si consacrò nel 1965 su iniziativa e invito di Pietro A. Buttitta, omettendone il nome (Pietro non era bello abbastanza?).
Carlo Cassola, Il taglio del bosco. Racconti lunghi e romanzi brevi, Oscar, pp. LXVII + 505 €12
Cassola ha vissuto gli ultimi vent’anni tra le polemiche politiche, per il pacifismo totale, e per una propensione alla polemica. Ma è scrittore letterato. Tracciato anche lui - come Pasolini – all’esordio nel 1942 da grande fiutatore Gianfranco contini. In contatto con gli ambienti fiorentini, di “Letteratura”, “Paragone” che negli anni 1930-1940 facevano la letteratura italiana. Autore di racconti umbratili, crepuscolari alla Marino Moretti, uno scrittore di una generazione precedente ancora in auge. Della stessa insularità senese, seppure decentrata, di Tozzi. Di esistenze umili e introflesse, anche nella Resistenza, Racconti d’ambiente e non di caratteri, da fermo, in surplace, dove nulla accade, non c’è aneddoto né intrigo, neppure della natura inclemente o del caso-fato avverso, istantanee di vita dettagliate, minute, e indistinte. Non un personaggio resta, ma un mondo. Il mondo degli umili – Cassola fu segnato dalla lettura di Verga - negli anni della nostra vita o epoca, postbellici cioè, ma precedenti al boom.
Ma conviene dirne di più. Dei crepuscolari Cassola ha distinta la vocazione alle tonalità basse, di personaggi non eroici, nelle gesta quotidiane. Del rifiuto netto dell’ideologia, religiosa come politica, per una sorta d’integralismo umanitario e di libertà. Ma, a differenza dei crepuscolari, è stato impegnato in tutte le più minute attività sociali e politiche, dall’insegnamento nelle scuole al consiglio comunali e alla Lega per la pace e il disarmo unilaterale. Si può anzi dire personaggio civile quanto nessun altro scrittore italiano, impegnato nella politica ideale e pratica con giudizio sempre attento e non per comodità o opportunismo. Già nel 1935, a diciott’anni, si vedeva con Zangrandi, Alicata, Zevi (e Vittorio Mussolini) in un Movimento Novista Antifuturista, in realtà di fronda al regime. Qualche mese dopo ne mise assieme uno suo, più propriamente di critica al regime, con Alicata e Zevi tra gli altri. Fu attivo nella Resistenza dopo l8 settembre. Dubbioso sul Fronte Popolare nel 1948, sarà poi attivo in politica tra i radicali del “Mondo” di Pannunzio e i socialisti di Nenni. Tra i creatori nel 1952 di unità Popolare, un partito che non sfonda alle elezioni del 1953 e nel 1958 confluirà nel Psi. Di cui Cassola diventa esponente di spicco (ne sarà consigliere comunale a Grosseto fino al 1964. Quindi, negli ultimi venti anni, nel pacifismo militante – un percorso analogo a quello di Jean Giono in Francia, suo gemello se non modello. Nel 1977 fonda la Lega per il disarmo, per il disarmo unilaterale, con la quale tiene raduni e convegni. Dal 1979 in collegamento con la Lega Socialista dei radicali di Rutelli, col quale pubblicherà l’anno successivo in alcuni numeri il mensile “L’asino”, un’antica testata socialista, per il disarmo unilaterale.
In questa battaglie Cassola è però stato spesso osteggiato, anche con virulenza. E non sempre per colpa, caratteriale o errore di scelta. L’aver tratteggiato la Resistenza fuori dagli schemi, nei romanzi “Fausto e Anna” e “La ragazza di Bube”, gli valse una sorta di ostracismo. “Fausto e Anna” s’indusse perfino a riscriverlo, sulla base delle riserve del suo estimatore ed editore Calvino, dopo un’accesa e lunga polemica, a riscriverlo. Cassola è stato uno scandalo in vita, benché mite e ritroso, e continua a esserle dopo morto, per il greve silenzio.
Si riedita ora timidamente da un paio d’anni, dopo un quarto di secolo di silenzio. Negli Oscar di cui pure fu la colonna. Con un milione e mezzo di copie, “reali”, nei primi vent’anni della collana, dopo il 1965. Cassola morì nel 1987, ma già da molti anni era stato accantonato nella “stima”, seppellito dai lazzi del Gruppo 63, un’avanguardia che dominava le redazioni culturali. Mentre il suo schieramento politico radicalsocialista lo isolava nella “politica culturale” dominante, del Pci. Un assassinio di lunga durata. Oggi Cancogni si ricorda nelle biografie della Fallaci, bersaglio delle prime imprese della giornalista al liceo, già allora in cerca di glamour, che lo irrise con un tazebao. E il posto di Cassola più venduto è stato preso da Umberto Eco, che animava il Gruppo '63 - gruppo che si celebra a Palermo, dove si consacrò nel 1965 su iniziativa e invito di Pietro A. Buttitta, omettendone il nome (Pietro non era bello abbastanza?).
Carlo Cassola, Il taglio del bosco. Racconti lunghi e romanzi brevi, Oscar, pp. LXVII + 505 €12
lunedì 19 marzo 2012
Torna la ragazza che non piaceva a Pasolini
Si torna a pubblicare Cassola, a lungo negletto, anche se non dai lettori. “La ragazza di Bube”, il suo racconto più letto, è il primo della riedizione negli Oscar Classici Moderni. Cassola vi pratica al meglio la sua scrittura asciutta, l’anticipazione di una sorta di “grado zero” della scrittura – di poco posteriore, e dunque contemporaneo, di altri scrittori realisti negli Usa, Carson McCullers, Faulkner. Una storia d’amore attorno alla morte, alle molte morti innecessarie e trascurate dell’epoca, anche tra partigiani – la sola giusta, del giovane partigiano ucciso dai tedeschi, resta inconsolabile. In mezzo agli artifici della politica, qui del partito Comunista – del Pci toscano, spesso violento, sconsiderato. “Amanti senza domani”, il vecchio film americano che la ragazza Mara vede una domenica, è la sua storia, l’amore impossibile.
Fu un racconto scomodo all’uscita, nel 1960, di due adolescenze, tra gli assassinii facili a ridosso della guerra - una storia che Giampaolo Pansa ultimamente ha imposto, ma che nel 1960 faceva scandalo. Nel caso, era la guerra dei comunisti contro i badogliani, qui detti monarchici: il loro bando continuerà a lungo, solo Ciampi, quindi non molti anni fa, li riabiliterà totalmente. Fu questo il vero motivo del lungo purgatorio cui Cassola è stato confinato. Sembra un altro mondo ma era ieri: la forza della censura, politica se non istituzionale. “Fausto e Anna”, il suo precedente racconto, su e contro il Pci, Cassola lo riscriverà in seguito alle polemiche. “La ragazza di Bube” solo per poche parole – quanto basta a far dire a Bube che ha sbagliato a dare la colpa dei suoi errori ai cattivi maestri (ma la cosa non resta detta? la censura è un imprimatur e un sigillo, lavora contro se stessa).
Ufficialmente Cassola è stato bandito in quanto traditore del neorealismo. Che lui non aveva praticato, se non come epigono del verismo, della verità delle cose, e più delle persone. Di quelle che non hanno diritto alla storia, nemmeno di Partito. Mentre il neorealismo si distingue per l’ossatura costruttivista, del trionfo del bene – il genere del romanzo “sovietico”. Anche in “Ragazzi di vita”, e poi in “Una vita violenta”, che circolano poco in libreria ma sono lettura d’obbligo nei circoli democratici e nei gruppi di lettura - nella “costruzione dei classici”.
Il riferimento è d’obbligo perché fu Pasolini a mettere Cassola all’indice, scherzosamente e no, con una “ode” alla maniera di Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare: “In morte del neorealismo”. Al premio Strega quell’anno, che “La ragazza di Bube” vinse, Pasolini patrocinava Calvino, col fiabesco “Cavaliere inesistente”. Al “realismo” Pasolini ascrive Gadda, Moravia, Bassani, Carlo Levi, Morante, e il Calvino della trilogia fiabesca. Cassola è colpevole di “neo purismo”. Un nonsenso noto, ma senza conseguenze: Pasolini ha ragione a insultare Cassola, allora come oggi. Successivamente Pasolini dirà di avere “sempre stimato non molto, moltissimo” Cassola e di averlo sempre letto “sin dal suo primo libro”. Cassola gli è odioso in quanto socialista: “I neo-puristi, i socialisti bianchi\ - benvisti in Vaticano -…” è l’ultimo insulto dell’ode.
I versi di Pasolini, fragorosi, frastornanti, non rubarono la scena al romanzo, che fu il primo grande successo di pubblico dopo “Il Gattopardo” – e anche di critica. Mara, la ragazza di Bube, sarà al cinema Claudia Cardinale agli esordi, ed è già un risultato. Ma nel romanzo è ancora più viva e vivace. Con le scarpe rotte e spesso a servizio nelle case. Alla quale il meglio che le capita, dopo Bube, è di essere adorata con versi e richiesta in matrimonio. Mentre lei pensa: “«Sono giovane, voglio vivere», questo era ciò che pensava nel suo intimo”.
Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar, pp. XXI- 219 € 9
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (121)
Giuseppe Leuzzi
Gombrich, “Del mio tempo (p.65), cita un detto austriaco: “Non dico nulla, né in un senso né in un altro, perché nessuno dica che io ho detto qualcosa, in un senso o nell’altro”. L’omertà, come concetto se non come fatto, è stata importata al Sud. Dai Carabinieri: è sociologia di caserma.
L’omertà non è meridionale. Ovvero: i meridionali sono omertosi per essere paurosi, non per essere violenti. Quando sono violenti, nelle faide, le vendette dei pentiti, i dispetti di mafia, non si nascondono.
La violenza si diffonde al Sud perché vi è diffusa la paura, nei secoli interiorizzata, e quindi spesso viltà.
Cassirer, “Il mito dello Stato” (p.482), minimizza: “Nelle società in cui la vendetta di sangue costituisce uno degli obblighi più alti, non è necessario vendicarsi sopra lo stesso uccisore. Basta uccidere i componenti della sua famiglia o della sua tribù. Nella Nuova Guinea e fra i Somali dell’Africa quello he viene ucciso è il fratello maggiore, a preferenza dello stesso colpevole”.
Non siamo unici neanche nel male.
L’unità
Si chiude in sordina il centocinquantenario dell’unità. Che, se un bilancio si può farne, è: l’Italia non è una nazione – con buona volontà, perché nemmeno questo si dice più: non si dice niente, sono annichilite anche le velleità. Niente celebrazioni, niente consuntivi, che la ricorrenza non ha gradito, esauritasi nella fiammata tricolore della giornata d’apertura. Con un governo di pietra, seppure d’emergenza, di tecnocrati induriti. Segno tangibile della mancata unità, della mancanza di una sentimento nazionale: di un comune destino e un comune intendimento, pur nelle divisioni. Quale è delle nazioni solide, la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e più nella disgrazia, la Germania. Anche l’emergenza, ripiego ricorrente che l’Italia impone al paese, è segno evidente della mancata unità nazionale: surrettizia, volgare, antidemocratica. I tirannelli sono ora intellettuali (giornalisti, esperti, politicanti), ma questo è peggio: reazionaria è pure l’intelligenza.
Non si saprebbe apprezzare abbastanza l’Italia, questo sito scriveva un anno fa, che è stata la consolazione dell’Ottocento:
http://www.antiit.com/2011/03/litalia-unita-consolazione-delleuropa.html
Ma un anno dopo l’unificazione l’Italia unita era in guerra contro il Sud, e ancora non ha finito.
L’unità d’Italia era stata la rivoluzione dell’Europa. Al tirare delle somme, anzi, l’unica rivoluzione dell’Ottocento. Ma non era quello che sembrò. Se dopo pochi mesi occupava in armi la metà del paese: una vera occupazione militare, con coprifuoco, stato d’assedio, esecuzioni. Rivelandosi presto per quello che era: l’espansione del regno di Sardegna. Non più lungimirante, morto Cavour. Protetta dalle Potenze – la prima “spedizione dei Mille”, quella dei “trecento giovani e forti” di Pisacane tre anni prima, era semplicemente fallita, mancando le coperture.
Si dice Sacco di Roma e s’intende quello del 1527. Che invece fu riparato: si ricomprarono gli arredi saccheggiati e si restaurarono i fabbricati danneggiati. In subordine, Cederna diceva sacco di Roma la costruzione dei quartieri popolari nel dopoguerra lungo le vie consolari di Sud Est, Appia, Tuscolana, Casilina, Tirburtina. Mentre il vero sacco di Roma, ancora visibile e incancellabile, è quello “piemontese” di Roma Capitale, successivo a Porta Pia. La Roma delle Mura Aureliane, che era bellissima e gioiello di urbanistca, fu sventrata per il business immobiliare, dei nuovi “banchieri”, gli affaristi venuti di Toscana, Lombardia, Piemonte, che ne saccheggiarono vile e palazzi, la riempirono di monumenti immondi, sempre nella corruttela, e ne disegnarono male pure gli assi viari. Attorno al Quirinale e al Gianicolo. Con l’esclusivo fine di costruirvi i loro palazzoni. Sole le mura del Tevere hanno una logica e anche un’estetica.
Si dice la Roma di Pio IX una città addormentata, provinciale, fuori del mondo. Per l’anticlericalismo che l’unità realizzò. Trascurando che fu lo stesso pio IX ad avviare l’unità. Su basi meno divisive di come poi s’è realizzata. E che Roma era, come è, città industre e bene amministrata. Con problemi, certo, ma la meglio amministrata d’Italia. Al confronto con Firenze per esempio, allora e oggi, con Milano, con Torino, per non dire con Napoli e Genova.
Breve storia del Nord - 2
Il Nord è nella Bibbia il luogo del male: “Dal settentrione soffierà la sciagura sopra tutti gli abitanti della terra”. Non per scristianizzare il mondo, giacché di Cristo fa variate sociologie, ma per disincantarlo, alla Weber. Non c’è musica nel suo mondo, se non arida matematica, né ritmo nel tempo, non c’è diletto se non nell’orgasmo, né corpo se non avariato. E come misurare l’uomo, con che metro? Dal Nord vengono Gog e Magog. I ragazzi non sono cavalieri, non pagano al bar. E non parlano, né prima né dopo, per questo le ragazze fuggono nel Mediterraneo. E non è vero che il Nord è più alto: ci sono più giocatori di basket in Grecia che in Scandinavia. Per non dire dei tedeschi di Hitler nelle foto: visi topini, occhiali, gambette, spalle strette, gli eletti hanno denti guasti, pance larghe, cappotti a botte per nulla eleganti, avevano freddo perfino a Roma.
È così che l’Europa è passata a Odino. Ai popoli di Odino, che dall’Asia, dove regnava sul Ponto Eusino, l’hanno seguito in Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia - in Finlandia no - e nel Vinland. Negli Usa cioè, che ai vichinghi prospettarono burloni e gesuiti. E ai regni che Odino assegnò ai figli: Russia, Sassonia, Westfalia. La storia viene dal Nord, con Eric il Rosso che scoprì la vela, e le sei tonnellate d’oro e argento dai vichinghi estorte ai parigini nell’845. Inizia dalla fine: Odino ha un palazzo di ombre, i morti ripetono le attività svolte in vita, dove i vivi sono dunque morti. Il Nord suona il corno e medita, nella Seconda sinfonia e nel Nordisches Lied di Schumann. Anche esporre le lenzuola in segno di lutto è uso nordico, fu portato al Sud da Arminio e Dorotea con Goethe.
Milano
Possibile che Belsito non sia un meridionale, un imbroglione nato? La colonna del “Corriere della sera”, Gian Antonio Stella, è sinceramente dispiaciuto domenica 26 febbraio, nel pieno dello scandalo per i rimborsi elettorali investiti in Tanzania, che l’amministratore della Lega, un ex autista, sia un “taroccatore” – che vuole dire imbroglione, uno del Nord tarocca e non imbroglia.
Milano tace. Osserva. Si riserva. Ma tutto controlla, nel parlamento e nell’antiparlamento, nella politica e nell’antipolitica, nella moralità e nell’immoralità. Non vuole perdersi nulla, ma nulla concede: non è buona tiranna?
È il porto dei siciliani silenziosi, dei napoletani taciturni – ce ne sono. Cuccia, Sindona, Virgillito, Ligresti, i prefetti, burocrati delle tenebre, qualche giudice. Ma fino a che rendono, poi li butta via. Ci provarono anche con Cuccia. Oppure finché non diventano concorrenti: i cavalieri dell’edilizia li spazzarono via con la mano sinistra, anche se a opera di volenterosi giudici siciliani: tutti avevano tra i dipendenti un lontano parente di un mafioso.
Michelangelo Virgillito era un muratore che vinceva in Borsa, con l’aiuto pare della Madonna di Paternò, provincia di Catania. Allievo di Attilio Marzollo da Vicenza, il commissionario che sparì con la grana e fa ancora impazzire Milano, d’invidia.
Milano, scrive Eric Ambler nel suo romanzo ambrosiano d’anteguerra, “è né più né meno che una versione italiana di Birmingham”. Sapere com’è Birmigham non è dato, Milano dovrebbe essere meglio, è il posto più ricco in Europa. Ma Ambler ne fa pure il centro della corruzione, e questo non è contestabile.
Bocciò “La dolce vita” alla prima uscita. Al cinema Capitol il pubblico milanese rumoreggiò, fischiò, e spintonò Fellini all’uscita. Poi vennero Roma, Cannes, l’America e il trionfo – che Milano osannò.
La prima si proiettava a Milano perché il produttore era Angelo Rizzoli. Un milanese diverso, socialista, cresciuto all’orfanotrofio.
Stendhal ci trovava l’amore. In una città popolare, vorace. Ma dov’è ora il popolo? O Milano ha stomaci di ferro?
Fece Mussolini e lo disfece, uccidendolo. Poi fece il terrorismo e lo disfece. Poi disfece la politica che l’Italia del dopoguerra era riuscita a tessere. Milano sempre vuole fare fuori qualcuno, ora Bossi e Berlusconi, dopo averceli imposti.
Fu nemica feroce perfino del centro-sinistra, che non voleva niente – una ricerca casuale sul “Corriere della sera” degli anni 1958-63 è orripilante.
Città d’integralismo, laico e confessionale. Entrambi acquisitivi e sempre indulgenti con se stessi. Perché la Controriforma vi ha inciso con la radicalità (self-righteousness) della Riforma. Laico naturalmente nel senso di predone.
Fa ogni anno a sant’Ambrogio la sfilata della ricchezza alla Scala. Usanza unica al mondo.
leuzzi@antiit.eu
Gombrich, “Del mio tempo (p.65), cita un detto austriaco: “Non dico nulla, né in un senso né in un altro, perché nessuno dica che io ho detto qualcosa, in un senso o nell’altro”. L’omertà, come concetto se non come fatto, è stata importata al Sud. Dai Carabinieri: è sociologia di caserma.
L’omertà non è meridionale. Ovvero: i meridionali sono omertosi per essere paurosi, non per essere violenti. Quando sono violenti, nelle faide, le vendette dei pentiti, i dispetti di mafia, non si nascondono.
La violenza si diffonde al Sud perché vi è diffusa la paura, nei secoli interiorizzata, e quindi spesso viltà.
Cassirer, “Il mito dello Stato” (p.482), minimizza: “Nelle società in cui la vendetta di sangue costituisce uno degli obblighi più alti, non è necessario vendicarsi sopra lo stesso uccisore. Basta uccidere i componenti della sua famiglia o della sua tribù. Nella Nuova Guinea e fra i Somali dell’Africa quello he viene ucciso è il fratello maggiore, a preferenza dello stesso colpevole”.
Non siamo unici neanche nel male.
L’unità
Si chiude in sordina il centocinquantenario dell’unità. Che, se un bilancio si può farne, è: l’Italia non è una nazione – con buona volontà, perché nemmeno questo si dice più: non si dice niente, sono annichilite anche le velleità. Niente celebrazioni, niente consuntivi, che la ricorrenza non ha gradito, esauritasi nella fiammata tricolore della giornata d’apertura. Con un governo di pietra, seppure d’emergenza, di tecnocrati induriti. Segno tangibile della mancata unità, della mancanza di una sentimento nazionale: di un comune destino e un comune intendimento, pur nelle divisioni. Quale è delle nazioni solide, la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, e più nella disgrazia, la Germania. Anche l’emergenza, ripiego ricorrente che l’Italia impone al paese, è segno evidente della mancata unità nazionale: surrettizia, volgare, antidemocratica. I tirannelli sono ora intellettuali (giornalisti, esperti, politicanti), ma questo è peggio: reazionaria è pure l’intelligenza.
Non si saprebbe apprezzare abbastanza l’Italia, questo sito scriveva un anno fa, che è stata la consolazione dell’Ottocento:
http://www.antiit.com/2011/03/litalia-unita-consolazione-delleuropa.html
Ma un anno dopo l’unificazione l’Italia unita era in guerra contro il Sud, e ancora non ha finito.
L’unità d’Italia era stata la rivoluzione dell’Europa. Al tirare delle somme, anzi, l’unica rivoluzione dell’Ottocento. Ma non era quello che sembrò. Se dopo pochi mesi occupava in armi la metà del paese: una vera occupazione militare, con coprifuoco, stato d’assedio, esecuzioni. Rivelandosi presto per quello che era: l’espansione del regno di Sardegna. Non più lungimirante, morto Cavour. Protetta dalle Potenze – la prima “spedizione dei Mille”, quella dei “trecento giovani e forti” di Pisacane tre anni prima, era semplicemente fallita, mancando le coperture.
Si dice Sacco di Roma e s’intende quello del 1527. Che invece fu riparato: si ricomprarono gli arredi saccheggiati e si restaurarono i fabbricati danneggiati. In subordine, Cederna diceva sacco di Roma la costruzione dei quartieri popolari nel dopoguerra lungo le vie consolari di Sud Est, Appia, Tuscolana, Casilina, Tirburtina. Mentre il vero sacco di Roma, ancora visibile e incancellabile, è quello “piemontese” di Roma Capitale, successivo a Porta Pia. La Roma delle Mura Aureliane, che era bellissima e gioiello di urbanistca, fu sventrata per il business immobiliare, dei nuovi “banchieri”, gli affaristi venuti di Toscana, Lombardia, Piemonte, che ne saccheggiarono vile e palazzi, la riempirono di monumenti immondi, sempre nella corruttela, e ne disegnarono male pure gli assi viari. Attorno al Quirinale e al Gianicolo. Con l’esclusivo fine di costruirvi i loro palazzoni. Sole le mura del Tevere hanno una logica e anche un’estetica.
Si dice la Roma di Pio IX una città addormentata, provinciale, fuori del mondo. Per l’anticlericalismo che l’unità realizzò. Trascurando che fu lo stesso pio IX ad avviare l’unità. Su basi meno divisive di come poi s’è realizzata. E che Roma era, come è, città industre e bene amministrata. Con problemi, certo, ma la meglio amministrata d’Italia. Al confronto con Firenze per esempio, allora e oggi, con Milano, con Torino, per non dire con Napoli e Genova.
Breve storia del Nord - 2
Il Nord è nella Bibbia il luogo del male: “Dal settentrione soffierà la sciagura sopra tutti gli abitanti della terra”. Non per scristianizzare il mondo, giacché di Cristo fa variate sociologie, ma per disincantarlo, alla Weber. Non c’è musica nel suo mondo, se non arida matematica, né ritmo nel tempo, non c’è diletto se non nell’orgasmo, né corpo se non avariato. E come misurare l’uomo, con che metro? Dal Nord vengono Gog e Magog. I ragazzi non sono cavalieri, non pagano al bar. E non parlano, né prima né dopo, per questo le ragazze fuggono nel Mediterraneo. E non è vero che il Nord è più alto: ci sono più giocatori di basket in Grecia che in Scandinavia. Per non dire dei tedeschi di Hitler nelle foto: visi topini, occhiali, gambette, spalle strette, gli eletti hanno denti guasti, pance larghe, cappotti a botte per nulla eleganti, avevano freddo perfino a Roma.
È così che l’Europa è passata a Odino. Ai popoli di Odino, che dall’Asia, dove regnava sul Ponto Eusino, l’hanno seguito in Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia - in Finlandia no - e nel Vinland. Negli Usa cioè, che ai vichinghi prospettarono burloni e gesuiti. E ai regni che Odino assegnò ai figli: Russia, Sassonia, Westfalia. La storia viene dal Nord, con Eric il Rosso che scoprì la vela, e le sei tonnellate d’oro e argento dai vichinghi estorte ai parigini nell’845. Inizia dalla fine: Odino ha un palazzo di ombre, i morti ripetono le attività svolte in vita, dove i vivi sono dunque morti. Il Nord suona il corno e medita, nella Seconda sinfonia e nel Nordisches Lied di Schumann. Anche esporre le lenzuola in segno di lutto è uso nordico, fu portato al Sud da Arminio e Dorotea con Goethe.
Milano
Possibile che Belsito non sia un meridionale, un imbroglione nato? La colonna del “Corriere della sera”, Gian Antonio Stella, è sinceramente dispiaciuto domenica 26 febbraio, nel pieno dello scandalo per i rimborsi elettorali investiti in Tanzania, che l’amministratore della Lega, un ex autista, sia un “taroccatore” – che vuole dire imbroglione, uno del Nord tarocca e non imbroglia.
Milano tace. Osserva. Si riserva. Ma tutto controlla, nel parlamento e nell’antiparlamento, nella politica e nell’antipolitica, nella moralità e nell’immoralità. Non vuole perdersi nulla, ma nulla concede: non è buona tiranna?
È il porto dei siciliani silenziosi, dei napoletani taciturni – ce ne sono. Cuccia, Sindona, Virgillito, Ligresti, i prefetti, burocrati delle tenebre, qualche giudice. Ma fino a che rendono, poi li butta via. Ci provarono anche con Cuccia. Oppure finché non diventano concorrenti: i cavalieri dell’edilizia li spazzarono via con la mano sinistra, anche se a opera di volenterosi giudici siciliani: tutti avevano tra i dipendenti un lontano parente di un mafioso.
Michelangelo Virgillito era un muratore che vinceva in Borsa, con l’aiuto pare della Madonna di Paternò, provincia di Catania. Allievo di Attilio Marzollo da Vicenza, il commissionario che sparì con la grana e fa ancora impazzire Milano, d’invidia.
Milano, scrive Eric Ambler nel suo romanzo ambrosiano d’anteguerra, “è né più né meno che una versione italiana di Birmingham”. Sapere com’è Birmigham non è dato, Milano dovrebbe essere meglio, è il posto più ricco in Europa. Ma Ambler ne fa pure il centro della corruzione, e questo non è contestabile.
Bocciò “La dolce vita” alla prima uscita. Al cinema Capitol il pubblico milanese rumoreggiò, fischiò, e spintonò Fellini all’uscita. Poi vennero Roma, Cannes, l’America e il trionfo – che Milano osannò.
La prima si proiettava a Milano perché il produttore era Angelo Rizzoli. Un milanese diverso, socialista, cresciuto all’orfanotrofio.
Stendhal ci trovava l’amore. In una città popolare, vorace. Ma dov’è ora il popolo? O Milano ha stomaci di ferro?
Fece Mussolini e lo disfece, uccidendolo. Poi fece il terrorismo e lo disfece. Poi disfece la politica che l’Italia del dopoguerra era riuscita a tessere. Milano sempre vuole fare fuori qualcuno, ora Bossi e Berlusconi, dopo averceli imposti.
Fu nemica feroce perfino del centro-sinistra, che non voleva niente – una ricerca casuale sul “Corriere della sera” degli anni 1958-63 è orripilante.
Città d’integralismo, laico e confessionale. Entrambi acquisitivi e sempre indulgenti con se stessi. Perché la Controriforma vi ha inciso con la radicalità (self-righteousness) della Riforma. Laico naturalmente nel senso di predone.
Fa ogni anno a sant’Ambrogio la sfilata della ricchezza alla Scala. Usanza unica al mondo.
leuzzi@antiit.eu
domenica 18 marzo 2012
A italiano italiano e mezzo
“Dobbiamo chiamarla sir, baronetto?” Fazio invita il maestro Pappano alla sua trasmissione e apre l’incontro aggredendolo. Si sa che i baronetti della regina sono per ridere. Fosse stato un cavalierato del Lavoro, magari… Solo gli italiani sono seri… I sottintesi sono molti. Che Pappano coglie con immediatezza e rilancia: “La cosa bella è di fare la telefonata alla propria madre e dire che sei diventato Sir”. La mamma dunque. Ma non basta, il maestro raddoppia. “I miei genitori mi hanno instillato un’etica del lavoro che è proprio meridionale, del Sud”. Contra il conduttore sui suoi stereotipi, gli stereotipi della Rai, e lo costringe alla resa, alla simpatia – ma continuerà a guardarsene (sa già i poteri della Rai?): a brigante, brigante e mezzo.
La partita continua ambigua. Fra quello che il conduttore non sa, o non dice ai suoi ascoltatori, e quello che si sa del maestro. Che è figlio di emigranti. Di emigranti meridionali, da Castelfranco in Miscano, in provincia di Benevento. Questo è linguaggio Rai, alla seconda potenza. Di emigranti si suppone poveri, giacché la mamma fa a Londra la cuoca, il padre il cameriere. Anche questo è linguaggio Rai, ma Fazio non lo tocca. Perché i due emigranti a questo punto si rivelerebbero per quello che furono e sono: un diplomato del conservatorio di Milano, specializzato in canto, che con la moglie cercava a Londra la possibilità di esercitare la sua vocazione. Che ebbe, in una scuola di canto, la scuola del padre. Il figlio fu educato praticamente in famiglia. E quando Anthony aveva tredici anni la famiglia emigrò in cerca di miglior sorte in Connecticut, negli Usa, di cui Anthony è cittadino naturalizzato. Tutto questo, che farebbe molto personaggio, esula però dall’orizzonte di Fazio e della Rai.
È un teatrino. Fazio, senza esserlo stato quando la cosa aveva un senso, “fa” il comunista di Berlusconi, fazioso, sgradevole. Sempre in linea con la buona ipocrisia Rai. Pappano, che è agli antipodi, di Fazio e della Rai, cosmopolita e libero, si trincera a sua volta dietro questo personaggio. Ma ha più carte, non solo per la simpatia fisica, personale.
La partita continua ambigua. Fra quello che il conduttore non sa, o non dice ai suoi ascoltatori, e quello che si sa del maestro. Che è figlio di emigranti. Di emigranti meridionali, da Castelfranco in Miscano, in provincia di Benevento. Questo è linguaggio Rai, alla seconda potenza. Di emigranti si suppone poveri, giacché la mamma fa a Londra la cuoca, il padre il cameriere. Anche questo è linguaggio Rai, ma Fazio non lo tocca. Perché i due emigranti a questo punto si rivelerebbero per quello che furono e sono: un diplomato del conservatorio di Milano, specializzato in canto, che con la moglie cercava a Londra la possibilità di esercitare la sua vocazione. Che ebbe, in una scuola di canto, la scuola del padre. Il figlio fu educato praticamente in famiglia. E quando Anthony aveva tredici anni la famiglia emigrò in cerca di miglior sorte in Connecticut, negli Usa, di cui Anthony è cittadino naturalizzato. Tutto questo, che farebbe molto personaggio, esula però dall’orizzonte di Fazio e della Rai.
È un teatrino. Fazio, senza esserlo stato quando la cosa aveva un senso, “fa” il comunista di Berlusconi, fazioso, sgradevole. Sempre in linea con la buona ipocrisia Rai. Pappano, che è agli antipodi, di Fazio e della Rai, cosmopolita e libero, si trincera a sua volta dietro questo personaggio. Ma ha più carte, non solo per la simpatia fisica, personale.
Letture - 90
letterautore
Céline - Bernard Henri-Lévy, su “L’Espresso” 15 novembre 1981, ora in “L’ideologia francese”, pp. 119-132, dice Céline un iperprogressista, o progressista radicale, e uno tra i fondatori di un “socialismo alla francese”. Anche questa ci mancava, Céline socialista.
Cesare Cases criticava sullo stesso “Espresso” il ragionamento di Henri-Lévy. Riportando Céline all’“anticapitalista romantico”. Non feroce né specialmente antisemita, che in “Bagatelle” (“libro assai notevole, forse il migliore dell’autore dopo il «Viaggio al termine della notte»)” assembla “i vecchi e più plausibili oggetti del suo odio…: l’impero del denaro, la standardizzazione, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America, l’Urss”.
Confezione – La Capria rispolvera, sul “Corriere della sera” di mercoledì 14, la nozione di “composizione” come opposta a “creazione”, la distinzione che Sedlmayr opera in “Arte e verità”, per spiegare il profluvio di grandi opere oggi illeggibili. Citati due giorni prima aveva lamentato sullo stesso giornale di non trovare più nulla da leggere.
Confezione è lo stucchevole di tanta pittura e statuaria che va sotto il nome di manierismo. Anche se con punte talvolta elevate di qualità nella replica, o di produttività, quale è il caso del Tintoretto nell’attuale mostra romana. È la differenza che corre – correva quando si poteva scegliere – tra il vestito del sarto e la confezione.
Con lo stesso rischio. Del sarto che diventa proibitivo, e suo modo, manierato, una sorta di confezione su misura – si fa anche a distanza. Mentre l’arte della confezione, prêt-à-porter, si impreziosisce. Che è l’essenza del manierismo (Tintoretto, “Guido” che Stendhal adorava).
Cose viste – È titolo di Victor Hugo, di un lungo diario in pubblico. S’impongono, dice Montale alla “Volpe” Spaziani (“Montale e la Volpe”, 73-74) per mancanza d’immaginazione. A proposito di Simenon, che sull’autorità di Gide Montale vuole dice “sottile pensatore, un poeta in prosa, un visionario del profondo, un maestro dello stile”, una vocazione poi tradita per accedere al successo: “Ha dovuto salire verso la superficie e sviluppare un’immaginazione di supporto”, mescolando “i frammenti variopinti” dell’osservazione esterna.
Montale include se stesso tra i non immaginativi: “Perché in un certo senso abito altrove. Ho scritto pochi raccontini… e sai come sono nati? Non invento niente ma mi guardo in giro con curiosità”. Con una ricetta: “Se ognuno di noi, la sera, pensasse a una cosa buffa vista nel corso della giornata avremmo una quantità di raccontini in nuce, anche se mancassimo d’immaginazione”.
“E perché la cosa vista dev’essere buffa?”, obietta Maria Luisa. “Perché concentra il suo senso in una situazione o una battuta”.
Dante - È matematico. Piergiorgio Odifreddi ne ha fatto tema di un saggio al festival dell’Aurora a Capo Colonna nel maggio del 2000.
Tutti i tempi della Commedia sono “calcolati”. Tutto è misurato nelle cantiche. La geometria dei gironi impressionò Galileo, che nel 1588 tenne due lezioni all’Accademia Fiorentina sulle misure dell’“Inferno”, rispondenti a precisi canoni geometrici. Ci sono Empedocle, Talete e Euclide nel limbo. Di Empedocle è la teoria delle quattro radici, che saranno elementi in Platone, e chiamate “forze” sono al centro dell’odierna Teoria Standard dell’universo. Di Talete e Euclide un teorema ciascuno è messo in versi. Dio è un cerchio di cui non si conoscerà mai la quadratura.
Destra-sinistra – Le riviste d’informazione e culturali erano in Francia negli anni 1930 di destra: vivaci, avvolgenti, innovative. Palestre ambite degli scrittori anche non di destra – un po’ come le riviste del Guf e i Littoriali, anche se in Francia non c’era il regime. Il caso di maggior rilievo è quello di Maurice Blanchot, che fu attivista culturale (editore, direttore, giornalista) di destra fino a guerra inoltrata. Riccardo De Benedetti, che questo primo Blanchot ha indagato (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”) ha censito 252 suoi articoli “su quasi tutte le riviste di destra degli anni 1930”. Che lo storico Sternhell, studioso del fascismo, dice (“Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia”) “il perfetto esempio dello spirito fascista” in Francia in quel periodo.
Caillois e Bataille, che peraltro saranno icone nel dopoguerra della destra europea, non erano alieni dal fascino hitleriano. Anche se Bataille era sicuro comunista, dal 1936 troskista ma pur sempre comunista. Caillois e Bataille tennero al Collège de Sociologie, ha ricordato Carlo Ginzburg già nel lontano “Miti, emblemi e spie” (“Mitologia germanica e nazismo. Su un vecchio libro di Georges Dumézil”) “un atteggiamento estremamente ambiguo nei confronti delle ideologie fasciste e comuniste”. Di Bataille si ricorda anche la conferenza, tenuta il 24 gennaio 1939, su “Hitler e l’ordine teutonico”, la massima onorificenza nazista ricalcata sull’ordine creato in Terrasanta nella Terza Crociata. Di quell’anno al Collège de Sociologie scrissero criticamente sia Kojève che W.Benjamin. Il quale però, al momento del confino in Francia quale tedesco dopo la dichiarazione di guerra, e successivamente, dopo l’occupazione di Parigi, al momento di tentare la fuga in Spagna, confidò manoscritti e progetto dei “Passages” a Bataille.
L’ambiguità c’è stata, c’è, in politica. C’è stata anche in letteratura, per tutto il Novecento. In Italia come in Francia – e in Germania, Polonia, Romania eccetera. Di destra, anche accesa, prima della guerra, che diventa sinistra dopo. Di Malaparte e Ungaretti come di Pound e Céline, i casi di maggiore risonanza, e Blanchot, Caillois, lo stesso Bataille, la lista è lunga. Praticamente con le stesse parole, senza rinnegare niente.
In campo culturale, dalla letteratura alla storiografia e all’ideologia, c’è una sorta di rovesciamento a specchio, tra le due decadi 1930-1940, col discrimine della guerra, fra la destra e la sinistra. Che spesso si riduce a opportunismo, ma ha sicuramente un fondamento. Si vede ripercorrendo l’editoria, le riviste e i giornali degli anni 1930, che in Italia obbligatoriamente, in Francia per scelta, sono di destra ma sono anche vivi e innovativi. Per le stesse esigenze, d’innovazione e invenzione, che si troveranno dopo la guerra a loro agio nel (relativo) progressismo della sinisitra, mentre la destra, sconfitta in guerra, si faceva arcigna e, di colpo, invecchiata.
Riccardo De Benedetti ne tratta in un’altra prospettiva (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”, 2004), quella dell’anticonformismo - Blanchot diceva dei “dissidenti”. Come di una iperpresunzione di sé che i “rivoluzionari conservatori”, in Germania e in Francia, esibivano: più che alla parola d’ordine “né di destra né di sinistra”, pronti a “essere realmente contro la destra e contro la sinistra” - dove quell’“essere”, per uno scrittore e filosofo forbito dei linguaggi quale Blanchot, è povera cosa, come povero è il concetto.
Italiano - “Come dobbiamo chiamala: baronetto?”, Fabio Fazio esordisce ironico con Anthony Pappano, che pure ha invitato a onorare la sua trasmissione. Il maestro capisce e si ritira in buon ordine, l’intervista sarà freddissima. Non prima però di avere detto: “È un riconoscimento. Che uno è fiero di poter comunicare alla mamma. È un riconoscimento all’opera educativa dei genitori”. La mamma, i sacrifici dei genitori: Pappano fa suo il linguaggio Rai. Senza naturalmente il sottinteso “Dio stramaledica gli inglesi”, o gli americani, che ne è parte costituiva.
È il limite dell’italiano oggi, di cui si riprende la discussione. Della sua inconsistenza. Del linguaggio parlato e scritto, e della pubblica opinione: giornali, media, politica, istituzioni, giustizia. L’italiano di oggi è Rai senza residui, ventiquattro ore di notiziari che non lasciano scampo, Orwell non l’avrebbe immaginato. Il linguaggio Rai è moralista. Cioè, ognuno lo sa, falso moralista, essendo la Rai la quintessenza del sottobosco politico, corrotto e corruttivo. Ma per questo stesso motivo aggressivo Una parte quindi accusa, non la migliore, l’altra parte si difende. Parlando poco, o non parlando.
Se Pappano fosse stato insignito del cavalierato del Lavoro, magari da Napolitano, della cui bandiera Fazio oggi trova comodo gloriarsi, grandi lodi al maestro. Poiché il cavalierato glielo ha dato la regina Elisabetta, sberleffi.
Traduzione - In Italia, dove usa doppiare i film, gli attori stranieri prendono la voce dei doppiatori. La cui voce finisce per identificarli, un doppiatore è Bogart, uno è Jean Gabin, una è Marilyn. Ma può capitare che un doppiatore richiesto, se il suo attore non lavora, è impedito, è malato, faccia parlare con le stesse sue cadenze, pause, ticchi altri attori, anche altrettanto importanti ma diversi dall’originale, per i personaggi che interpretano, il fisico, lo sguardo, e questo suona falso, senz’altra ragione. Così è per la traduzione. La traduzione non è solo arbitraria, è violenta: per la filosofia è un’insidia radicale, per l’espressione e lo stesso pensiero. Il traduttore sa che non c’è idea o concetto a sé stante, ogni lingua ha i suoi, che differiscono più spesso per gli attributi, direbbe Spinoza, ma talvolta per la sostanza. La linguistica, con le sue apparenti balordaggini, ne è il segno più evidente. Saussure lo dice chiaro, per quanto perturbante: “Se le idee fossero predeterminate nello spirito umano prima di essere valori di lingua, accadrebbe forzatamente che i termini di una lingua in un’altra corrisponderebbero esattamente. La corrispondenza esatta non c’è”.
letterautore@antiit.eu
Céline - Bernard Henri-Lévy, su “L’Espresso” 15 novembre 1981, ora in “L’ideologia francese”, pp. 119-132, dice Céline un iperprogressista, o progressista radicale, e uno tra i fondatori di un “socialismo alla francese”. Anche questa ci mancava, Céline socialista.
Cesare Cases criticava sullo stesso “Espresso” il ragionamento di Henri-Lévy. Riportando Céline all’“anticapitalista romantico”. Non feroce né specialmente antisemita, che in “Bagatelle” (“libro assai notevole, forse il migliore dell’autore dopo il «Viaggio al termine della notte»)” assembla “i vecchi e più plausibili oggetti del suo odio…: l’impero del denaro, la standardizzazione, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America, l’Urss”.
Confezione – La Capria rispolvera, sul “Corriere della sera” di mercoledì 14, la nozione di “composizione” come opposta a “creazione”, la distinzione che Sedlmayr opera in “Arte e verità”, per spiegare il profluvio di grandi opere oggi illeggibili. Citati due giorni prima aveva lamentato sullo stesso giornale di non trovare più nulla da leggere.
Confezione è lo stucchevole di tanta pittura e statuaria che va sotto il nome di manierismo. Anche se con punte talvolta elevate di qualità nella replica, o di produttività, quale è il caso del Tintoretto nell’attuale mostra romana. È la differenza che corre – correva quando si poteva scegliere – tra il vestito del sarto e la confezione.
Con lo stesso rischio. Del sarto che diventa proibitivo, e suo modo, manierato, una sorta di confezione su misura – si fa anche a distanza. Mentre l’arte della confezione, prêt-à-porter, si impreziosisce. Che è l’essenza del manierismo (Tintoretto, “Guido” che Stendhal adorava).
Cose viste – È titolo di Victor Hugo, di un lungo diario in pubblico. S’impongono, dice Montale alla “Volpe” Spaziani (“Montale e la Volpe”, 73-74) per mancanza d’immaginazione. A proposito di Simenon, che sull’autorità di Gide Montale vuole dice “sottile pensatore, un poeta in prosa, un visionario del profondo, un maestro dello stile”, una vocazione poi tradita per accedere al successo: “Ha dovuto salire verso la superficie e sviluppare un’immaginazione di supporto”, mescolando “i frammenti variopinti” dell’osservazione esterna.
Montale include se stesso tra i non immaginativi: “Perché in un certo senso abito altrove. Ho scritto pochi raccontini… e sai come sono nati? Non invento niente ma mi guardo in giro con curiosità”. Con una ricetta: “Se ognuno di noi, la sera, pensasse a una cosa buffa vista nel corso della giornata avremmo una quantità di raccontini in nuce, anche se mancassimo d’immaginazione”.
“E perché la cosa vista dev’essere buffa?”, obietta Maria Luisa. “Perché concentra il suo senso in una situazione o una battuta”.
Dante - È matematico. Piergiorgio Odifreddi ne ha fatto tema di un saggio al festival dell’Aurora a Capo Colonna nel maggio del 2000.
Tutti i tempi della Commedia sono “calcolati”. Tutto è misurato nelle cantiche. La geometria dei gironi impressionò Galileo, che nel 1588 tenne due lezioni all’Accademia Fiorentina sulle misure dell’“Inferno”, rispondenti a precisi canoni geometrici. Ci sono Empedocle, Talete e Euclide nel limbo. Di Empedocle è la teoria delle quattro radici, che saranno elementi in Platone, e chiamate “forze” sono al centro dell’odierna Teoria Standard dell’universo. Di Talete e Euclide un teorema ciascuno è messo in versi. Dio è un cerchio di cui non si conoscerà mai la quadratura.
Destra-sinistra – Le riviste d’informazione e culturali erano in Francia negli anni 1930 di destra: vivaci, avvolgenti, innovative. Palestre ambite degli scrittori anche non di destra – un po’ come le riviste del Guf e i Littoriali, anche se in Francia non c’era il regime. Il caso di maggior rilievo è quello di Maurice Blanchot, che fu attivista culturale (editore, direttore, giornalista) di destra fino a guerra inoltrata. Riccardo De Benedetti, che questo primo Blanchot ha indagato (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”) ha censito 252 suoi articoli “su quasi tutte le riviste di destra degli anni 1930”. Che lo storico Sternhell, studioso del fascismo, dice (“Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia”) “il perfetto esempio dello spirito fascista” in Francia in quel periodo.
Caillois e Bataille, che peraltro saranno icone nel dopoguerra della destra europea, non erano alieni dal fascino hitleriano. Anche se Bataille era sicuro comunista, dal 1936 troskista ma pur sempre comunista. Caillois e Bataille tennero al Collège de Sociologie, ha ricordato Carlo Ginzburg già nel lontano “Miti, emblemi e spie” (“Mitologia germanica e nazismo. Su un vecchio libro di Georges Dumézil”) “un atteggiamento estremamente ambiguo nei confronti delle ideologie fasciste e comuniste”. Di Bataille si ricorda anche la conferenza, tenuta il 24 gennaio 1939, su “Hitler e l’ordine teutonico”, la massima onorificenza nazista ricalcata sull’ordine creato in Terrasanta nella Terza Crociata. Di quell’anno al Collège de Sociologie scrissero criticamente sia Kojève che W.Benjamin. Il quale però, al momento del confino in Francia quale tedesco dopo la dichiarazione di guerra, e successivamente, dopo l’occupazione di Parigi, al momento di tentare la fuga in Spagna, confidò manoscritti e progetto dei “Passages” a Bataille.
L’ambiguità c’è stata, c’è, in politica. C’è stata anche in letteratura, per tutto il Novecento. In Italia come in Francia – e in Germania, Polonia, Romania eccetera. Di destra, anche accesa, prima della guerra, che diventa sinistra dopo. Di Malaparte e Ungaretti come di Pound e Céline, i casi di maggiore risonanza, e Blanchot, Caillois, lo stesso Bataille, la lista è lunga. Praticamente con le stesse parole, senza rinnegare niente.
In campo culturale, dalla letteratura alla storiografia e all’ideologia, c’è una sorta di rovesciamento a specchio, tra le due decadi 1930-1940, col discrimine della guerra, fra la destra e la sinistra. Che spesso si riduce a opportunismo, ma ha sicuramente un fondamento. Si vede ripercorrendo l’editoria, le riviste e i giornali degli anni 1930, che in Italia obbligatoriamente, in Francia per scelta, sono di destra ma sono anche vivi e innovativi. Per le stesse esigenze, d’innovazione e invenzione, che si troveranno dopo la guerra a loro agio nel (relativo) progressismo della sinisitra, mentre la destra, sconfitta in guerra, si faceva arcigna e, di colpo, invecchiata.
Riccardo De Benedetti ne tratta in un’altra prospettiva (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”, 2004), quella dell’anticonformismo - Blanchot diceva dei “dissidenti”. Come di una iperpresunzione di sé che i “rivoluzionari conservatori”, in Germania e in Francia, esibivano: più che alla parola d’ordine “né di destra né di sinistra”, pronti a “essere realmente contro la destra e contro la sinistra” - dove quell’“essere”, per uno scrittore e filosofo forbito dei linguaggi quale Blanchot, è povera cosa, come povero è il concetto.
Italiano - “Come dobbiamo chiamala: baronetto?”, Fabio Fazio esordisce ironico con Anthony Pappano, che pure ha invitato a onorare la sua trasmissione. Il maestro capisce e si ritira in buon ordine, l’intervista sarà freddissima. Non prima però di avere detto: “È un riconoscimento. Che uno è fiero di poter comunicare alla mamma. È un riconoscimento all’opera educativa dei genitori”. La mamma, i sacrifici dei genitori: Pappano fa suo il linguaggio Rai. Senza naturalmente il sottinteso “Dio stramaledica gli inglesi”, o gli americani, che ne è parte costituiva.
È il limite dell’italiano oggi, di cui si riprende la discussione. Della sua inconsistenza. Del linguaggio parlato e scritto, e della pubblica opinione: giornali, media, politica, istituzioni, giustizia. L’italiano di oggi è Rai senza residui, ventiquattro ore di notiziari che non lasciano scampo, Orwell non l’avrebbe immaginato. Il linguaggio Rai è moralista. Cioè, ognuno lo sa, falso moralista, essendo la Rai la quintessenza del sottobosco politico, corrotto e corruttivo. Ma per questo stesso motivo aggressivo Una parte quindi accusa, non la migliore, l’altra parte si difende. Parlando poco, o non parlando.
Se Pappano fosse stato insignito del cavalierato del Lavoro, magari da Napolitano, della cui bandiera Fazio oggi trova comodo gloriarsi, grandi lodi al maestro. Poiché il cavalierato glielo ha dato la regina Elisabetta, sberleffi.
Traduzione - In Italia, dove usa doppiare i film, gli attori stranieri prendono la voce dei doppiatori. La cui voce finisce per identificarli, un doppiatore è Bogart, uno è Jean Gabin, una è Marilyn. Ma può capitare che un doppiatore richiesto, se il suo attore non lavora, è impedito, è malato, faccia parlare con le stesse sue cadenze, pause, ticchi altri attori, anche altrettanto importanti ma diversi dall’originale, per i personaggi che interpretano, il fisico, lo sguardo, e questo suona falso, senz’altra ragione. Così è per la traduzione. La traduzione non è solo arbitraria, è violenta: per la filosofia è un’insidia radicale, per l’espressione e lo stesso pensiero. Il traduttore sa che non c’è idea o concetto a sé stante, ogni lingua ha i suoi, che differiscono più spesso per gli attributi, direbbe Spinoza, ma talvolta per la sostanza. La linguistica, con le sue apparenti balordaggini, ne è il segno più evidente. Saussure lo dice chiaro, per quanto perturbante: “Se le idee fossero predeterminate nello spirito umano prima di essere valori di lingua, accadrebbe forzatamente che i termini di una lingua in un’altra corrisponderebbero esattamente. La corrispondenza esatta non c’è”.
letterautore@antiit.eu
Una diversa musica per i sonetti di Benjamin
Claudia Ciardi, già classicista e americanista, e ora germanista (ma in petto narratrice), pubblica le sue traduzioni di un paio di dozzine dei sonetti di Benjamin in morte dell’amico Heinle, il giovanissimo poeta suicida a vent’anni con al fidanzata. Curiosa riedizione, a pochi mesi dall’edizione Einaudi, e quasi un confronto con le traduzioni che, per la parte di quel’edizione qui ricompresa, sono da ascrivere a Claudio Groff. Meno manierate, più dirette. Più benjaminiane. A conferma dell’irresolubilità (inconsistenza) del problema “traduzione”, una volta che abbia assolto il compito primario di dare accesso a un’altra lingua. Le traduzioni Groff-Einaudi sono più costruite, danno spessore poetico a Benjamin. Che però non ne ha, non in versi, non in questi sonetti – a parte la capacità retorica.
Dieci anni di sonetti Benjamin praticò nel nome dell’amico. Anzi, Benjamin, che non scriveva poesie, diventa poeta quando Heinle si suicida, a vent’anni, con la fidanzata. Un esercizio da strizzacervelli, se non fu una posa. È una maniera di reagire allo sconforto, spiega al grande amico di una vita Gershom Scholem. E questa potrebbe essere una spiegazione: i dieci anni di sonetti hanno funzione apotropaica, di scongiuro, contro un cedimento, una tentazione analoga – “la fatica lieve dell’ora della morte”. La scelta del sonetto, forma da polire, di applicazione costante più che d’invenzione, confluisce in questa lettura, come un esercizio di attenzione prolungato, un’operosità scacciaumori – e scacciapoesia. Il canzoniere è una divagazione e l’edizione di Claudia Ciardi, senza riferimenti all’edizione Tiedemann (Einaudi), e senza originali a confronto, ne è materializzazione.Il rapporto di Benjamin con Heinle era stato sporadico, e non sempre concorde. Benjamin ne parlerà poco, a parte i sonetti. Una conferenza su Heinle tenuta nel dicembre 1922 a Heidelberg ridurrà a “un lavoro svogliato”, caduto per di più “nell’incomprensione e lo snobismo” dei frequentatori del salotto di Marianne Weber. Di Heinle, ora dimenticato, Benjamin voleva soprattutto dimenticarsi, e con lui della comune esperienza nella Jugendbewegung, il movimento giovanile che Gustav Wyneken creò all’insegna del “nazionalpopolare” di Stefan George: “Alla luce degli eventi successivi”, scrive in nota Claudia Ciardi, “Benjamin analizzo la morte di Heinle come il frutto malato di simili cattivi insegnamenti” – questo non c’è nei sonetti, ma il ripudio è vero, di George se non della Jugendbewegung.
Walter Benjamin, Liberami dal tempo e altre poesie, Via col Vento, pp. 33 € 4
Dieci anni di sonetti Benjamin praticò nel nome dell’amico. Anzi, Benjamin, che non scriveva poesie, diventa poeta quando Heinle si suicida, a vent’anni, con la fidanzata. Un esercizio da strizzacervelli, se non fu una posa. È una maniera di reagire allo sconforto, spiega al grande amico di una vita Gershom Scholem. E questa potrebbe essere una spiegazione: i dieci anni di sonetti hanno funzione apotropaica, di scongiuro, contro un cedimento, una tentazione analoga – “la fatica lieve dell’ora della morte”. La scelta del sonetto, forma da polire, di applicazione costante più che d’invenzione, confluisce in questa lettura, come un esercizio di attenzione prolungato, un’operosità scacciaumori – e scacciapoesia. Il canzoniere è una divagazione e l’edizione di Claudia Ciardi, senza riferimenti all’edizione Tiedemann (Einaudi), e senza originali a confronto, ne è materializzazione.Il rapporto di Benjamin con Heinle era stato sporadico, e non sempre concorde. Benjamin ne parlerà poco, a parte i sonetti. Una conferenza su Heinle tenuta nel dicembre 1922 a Heidelberg ridurrà a “un lavoro svogliato”, caduto per di più “nell’incomprensione e lo snobismo” dei frequentatori del salotto di Marianne Weber. Di Heinle, ora dimenticato, Benjamin voleva soprattutto dimenticarsi, e con lui della comune esperienza nella Jugendbewegung, il movimento giovanile che Gustav Wyneken creò all’insegna del “nazionalpopolare” di Stefan George: “Alla luce degli eventi successivi”, scrive in nota Claudia Ciardi, “Benjamin analizzo la morte di Heinle come il frutto malato di simili cattivi insegnamenti” – questo non c’è nei sonetti, ma il ripudio è vero, di George se non della Jugendbewegung.
Walter Benjamin, Liberami dal tempo e altre poesie, Via col Vento, pp. 33 € 4