Un fondo europeo di garanzie per le banche, dopo il credito illimitato, remunerativo, alle banche stesse: Mario Draghi non lo dice ma sa che l’Europa rischia il fallimento. L’ipotesi è di accelerane il funzionamento con le risorse dell’Esm, il fondo europeo di garanzia ai debiti sovrani in via di costituzione Il rischio non si dice, ma si sa che viene dai banchi spagnoli, il Santander e il Bilbao, tra i più grandi del continente, minacciati dalla crisi dell’immobiliare.
La proposta di fondo anti-fallimento delle banche ha veleggiato a lungo come ipotesi. Dell’istituto Brueghel, di cui Mario Monti è uno dei fondatori. E del direttivo della stessa Bce che Draghi presiede. In particolare del rappresentante, Jörg Asmussen. Un fondo speciale di garanzia bancaria ha chiesto Asmussen in più occasioni, se necessario anche con “soluzioni separate”, in mancanza cioè di un consenso a 27. Il collega francese di Asmussen, Benoît Coeuré, ha incluso il fondo anti rischi in un “financial compact” di più vasto consolidamento del mondo bancario. Il direttore della Brueghel, Pisani-Ferry, propugna una “unione bancaria”, e cioè un “sistema europeo” di supervisione e ricapitalizzazione delle banche per garantire l’euro da ogni rischio di “crisi della bilancia dei pagamenti interna”, per la debolezza o il fallimento di una o più banche.
Si può dirla una battaglia perduta, giacché l’Europa pensa a salvarsi. Una battaglia che l’Europa non ha iniziato , e anzi non s’è nemmeno accorta di stare combattendo, ma ne accetta il verdetto: la “fortezza Europa” che “i mercati” temevano quindici anni fa è svanita.
Il problema della Spagna non è il debito, è l’immobiliare. Cioè le banche. Una crisi analoga a quella americana che è all’origine del crack, di dimensioni minori ma non tanto. Lo sgonfiamento dell’immobiliare è già costato alle banche spagnole 155 miliardi, che potrebbero raddoppiare. Sia Zapatero che Rajoy hanno aiutato le banche con iniezioni di capitali anticrisi, ma non serve. Ora si lavora a una bad bank per l’immobiliare, in modo da poter presentare le banche libere.
sabato 28 aprile 2012
La Germania beneficiaria della crisi dell’euro
Si fanno i bilanci di quasi due anni di “crisi europea”, e i pareri ufficialmente sono divisi. Ufficialmente la Germania sostiene, guardando ai saldi della bilancia interna della Banca centrale europea, che la Bundesbank è quella che sopporta i costi maggiori della crisi. Trovandosi per questo sovraesposta nei confronti dei paesi del Sud Europa, i paesi in crisi, e quindi a rischio contraccolpi. È la tesi, polemica e anzi irridente, sostenuta in particolare dal presidente dell’Ifo, l’istituto per la congiuntura, di Monaco di Baviera, Hans-Werner Sinn. A Londra e negli Usa si leggono gli stessi dati in senso opposto: il Sud Europa paga l’austerità, mentre la Germania accumula attivi. Senza un bilanciamento, che anzi la Germania impedisce: col no a una politica espansiva della Bce, e il no agli stimoli alla sua domanda interna, per favorire l’export dei partner europei. Ma non è una “guerra di presupposti”, è un fatto: la Germania è la beneficiaria, unica, della crisi.
La Germania di Schröder e, di più, quella di Angela Merkel, da una quindicina d’anni quindi, ha usato l’euro a suo esclusivo vantaggio. Trasgredendo le regole di bilancio quando le faceva comodo, e imponendone di severissime nella stessa ottica, del vantaggio nazionale. La stessa crisi del debito greco e ora quella dell’immobiliare spagnolo sono opera in misura rilevante delle banche tedesche – in un tribunale fallimentare internazionale sarebbero sospettate, se non imputate, di bancarotta fraudolenta. Una politica che questo sito ha definito di moderno “mercantilismo”: una sorta di guerra civile, anche se sotto l’abito della cooperazione.
La Germania di Schröder e, di più, quella di Angela Merkel, da una quindicina d’anni quindi, ha usato l’euro a suo esclusivo vantaggio. Trasgredendo le regole di bilancio quando le faceva comodo, e imponendone di severissime nella stessa ottica, del vantaggio nazionale. La stessa crisi del debito greco e ora quella dell’immobiliare spagnolo sono opera in misura rilevante delle banche tedesche – in un tribunale fallimentare internazionale sarebbero sospettate, se non imputate, di bancarotta fraudolenta. Una politica che questo sito ha definito di moderno “mercantilismo”: una sorta di guerra civile, anche se sotto l’abito della cooperazione.
A lezione dall’“Astolfo della poesia”
Si riedita il manuale di Pound nella vecchia traduzione di Quadrelli, con una introduzione di Marzio Breda, quirinalista del “Corriere della sera” – a conferma che il poeta americano, con l’esclusione di Massimo Bacigalupo e altri pochi americanisti, è sempre materia per outsider e dilettanti. È un abbecedario piuttosto della scrittura che della lettura. Della scrittura poetica, con una lezione di metrica
Pound fu anche un organizzatore culturale, uno scopritore di talenti (l’elenco è sterminato e caratterizza il Novecento: Eliot e Joyce, e Cummings, Hemingway, W.C.Williams tra i tanti, non escluso Yeats di cui fu per un periodo tuttofare e quasi segretario) e uno studioso di letteratura. Non concluse il dottorato all’università di Pennsylvania a Filadelfia per aver voluto entrare in polemica col rettore (lavorava per la tesi sul ruolo del gracioso nella commedie di Lope de Vega) ma aveva scoperto i poeti provenzali e i siciliani, appassionandosi poi per il latino di Bembo e del Cinquecento (da lui definito “raffaellita”), e mantenne costante nei quasi settant’anni di attività l’interesse filologico. Montale, che spesso ne scrive qui e lì, in testi poi raccolti nel volume “Sulla poesia”, non ne apprezzava l’estetica, o meglio diceva di non capirla. E dai saggi dello “zio Ez” si diceva più che altro confuso: “Solo la sua poesia può rivelarcelo, non quei suoi saggi che saltabeccano tra un millennio e l’atro, trucidando infinite generazioni e sopprimendo interi secoli”. Salvo convenire: “Che cosa può contare un secolo di più o di meno per un Astolfo della poesia, capace di abolire il tempo e lo spazio?” Pound riserva sempre sorprese, al lettore se non allo studioso.
Ezra Pound, L’ABC del leggere, Garzanti, pp. 212 € 12
Pound fu anche un organizzatore culturale, uno scopritore di talenti (l’elenco è sterminato e caratterizza il Novecento: Eliot e Joyce, e Cummings, Hemingway, W.C.Williams tra i tanti, non escluso Yeats di cui fu per un periodo tuttofare e quasi segretario) e uno studioso di letteratura. Non concluse il dottorato all’università di Pennsylvania a Filadelfia per aver voluto entrare in polemica col rettore (lavorava per la tesi sul ruolo del gracioso nella commedie di Lope de Vega) ma aveva scoperto i poeti provenzali e i siciliani, appassionandosi poi per il latino di Bembo e del Cinquecento (da lui definito “raffaellita”), e mantenne costante nei quasi settant’anni di attività l’interesse filologico. Montale, che spesso ne scrive qui e lì, in testi poi raccolti nel volume “Sulla poesia”, non ne apprezzava l’estetica, o meglio diceva di non capirla. E dai saggi dello “zio Ez” si diceva più che altro confuso: “Solo la sua poesia può rivelarcelo, non quei suoi saggi che saltabeccano tra un millennio e l’atro, trucidando infinite generazioni e sopprimendo interi secoli”. Salvo convenire: “Che cosa può contare un secolo di più o di meno per un Astolfo della poesia, capace di abolire il tempo e lo spazio?” Pound riserva sempre sorprese, al lettore se non allo studioso.
Ezra Pound, L’ABC del leggere, Garzanti, pp. 212 € 12
Gramsci e il socialismo mancato in Italia
Perché non c’è il socialismo in Italia, unico paese europeo, un partito e uno schieramento socialista, è problema chiave – è il problema – della storia italiana nel Novecento, ignorato tuttavia dagli storici: Bobbio, Ginsborg, Lanaro, Pavone, Salvati, la Storia Einaudi. Tutti “di Partito”, cioè del(l’ex) Pci. Orsini ci prova caparbio: il socialismo fu impossibile in Italia per il “dogmatismo”, si diceva una volta, di Gramsci. Proprio così: il bonario letterato del nazionalpopolare, carcerato di Mussolini, era feroce a sinistra. È lui che ha dato l’impronta settaria e divisiva al Pci, che ha dominato e indebolito la Resistenza al fascismo e al nazifascismo, e ha impedito nel dopoguerra l’alternativa o alternanza di governo.
Orsini si applica a rivalutare Turati, la prima vittima di Gramsci, che lo chiamava “un povero imbroglione” e “un essere ributtante”, e questa è opera difficile, il fondatore del socialismo resta sfocato, trascurato dagli stessi storici socialisti, bloccati su Nenni. Ma su Gramsci, come sul Pci, qualche spiraglio comincia ad aprirsi. Mentre se ne celebra l’ennesimo revival, che Enrico Mannucci ha registrato su “Sette” del 19 aprile (“Tutti pazzi per Gramsci”): Donzelli annuncia per l’estate una “Piccola antologia”, Guido Liguori, il presidente della International Gramscian Society, ha appena compilato con Pasquale Voza un “Dizionario gramsciano”, e in Inghilterra Peter Thomas ne tenta il rilancio, con “The Gramscian Moment”.
Non è difficile uscire dall’agiografia. Per Matteotti, fatto assassinare da Mussolini nel 1924, Gramsci non si commuove. Lo chiama anzi “pellegrino del nulla”, come venivano chiamati nella rivoluzione leninista i socialisti che “non marciavano”. Curiosamente ripetendo il “pellegrino del nulla” con cui il Gramsci tedesco, Karl Radek, aveva appena “celebrato” Schlageter, il terrorista nazionalista antipolacco e antifrancese futuro martire del nazismo, fucilato dai francesi il 13 maggio ’23, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno dello stesso anno (“Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”) – Schlageter insomma “meglio” di Matteotti, la Terza Internazionale marciava all’unisono anche nei dettagli.
Ma non è l’invettiva che condanna Gramsci - mediata forse da Marx, anche se Gramsci praticava poco Marx, feroce sempre con i compagni non sudditi. Né con l’invettiva si scopre il vero Gramsci. Già nel 1952, in una delle sue ultime note, Croce protestava contro la beatificazione surrettizia di Gramsci: nella nota “De Sanctis-Gramsci”, pubblicata nel numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagliava con inconsulta rudezza “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”, senza effetto. È la svolta di Livorno e l’anno insensato che aprì le porte al fascismo che vanno riesaminati. La pubblicazione del discorso moscovita sulla rivoluzione imminente in Italia nel 1922, sull’ultimo numero di “Belfagor”, a opera di Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, apre su questo abisso uno spiraglio. E il terzinternazionalismo di cui Gramsci ha oberato Togliatti.
Il diverso approccio storiografico era stato tentato da Bedeschi senza fortuna una quindicina d’anni fa, con “Gentile e Gramsci: i due volti del totalitarismo” e “Il piccolo Lenin. Antonio Gramsci e «L’Ordine Nuovo»”. Orsini ha le carte in regola per uscire dalla storia giornalistica – anche se egli stesso qui sembra volerla privilegiare: professore di Sociologia politica a Tor Vergata e alla Luiss, ricercatore del Mit, già apprezzato autore di una “Anatomia delle Brigate Rosse” che fa testo (nonché denunciatore inflessibile, anche in proprio, dei concorsi truccati all’università). Sulla “Stampa” Angelo D’Orsi l’ha detto “un giovane vivace, e improvvido studioso… privo di credenziali scientifiche”. Ma non c’è partita: D’Orsi, professore titolare a Torino, soprattutto di gramscismo, sembrerebbe accreditato, ma egli stesso di preferenza pratica la collaborazione che depreca ai giornali, “La Stampa”, “Il Fatto”, “Micromega”, e la polemica onnipresente sul web – il problema Gramsci sono sempre stati i “suoi”.
Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino, pp. 147 € 12
Orsini si applica a rivalutare Turati, la prima vittima di Gramsci, che lo chiamava “un povero imbroglione” e “un essere ributtante”, e questa è opera difficile, il fondatore del socialismo resta sfocato, trascurato dagli stessi storici socialisti, bloccati su Nenni. Ma su Gramsci, come sul Pci, qualche spiraglio comincia ad aprirsi. Mentre se ne celebra l’ennesimo revival, che Enrico Mannucci ha registrato su “Sette” del 19 aprile (“Tutti pazzi per Gramsci”): Donzelli annuncia per l’estate una “Piccola antologia”, Guido Liguori, il presidente della International Gramscian Society, ha appena compilato con Pasquale Voza un “Dizionario gramsciano”, e in Inghilterra Peter Thomas ne tenta il rilancio, con “The Gramscian Moment”.
Non è difficile uscire dall’agiografia. Per Matteotti, fatto assassinare da Mussolini nel 1924, Gramsci non si commuove. Lo chiama anzi “pellegrino del nulla”, come venivano chiamati nella rivoluzione leninista i socialisti che “non marciavano”. Curiosamente ripetendo il “pellegrino del nulla” con cui il Gramsci tedesco, Karl Radek, aveva appena “celebrato” Schlageter, il terrorista nazionalista antipolacco e antifrancese futuro martire del nazismo, fucilato dai francesi il 13 maggio ’23, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno dello stesso anno (“Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”) – Schlageter insomma “meglio” di Matteotti, la Terza Internazionale marciava all’unisono anche nei dettagli.
Ma non è l’invettiva che condanna Gramsci - mediata forse da Marx, anche se Gramsci praticava poco Marx, feroce sempre con i compagni non sudditi. Né con l’invettiva si scopre il vero Gramsci. Già nel 1952, in una delle sue ultime note, Croce protestava contro la beatificazione surrettizia di Gramsci: nella nota “De Sanctis-Gramsci”, pubblicata nel numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagliava con inconsulta rudezza “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”, senza effetto. È la svolta di Livorno e l’anno insensato che aprì le porte al fascismo che vanno riesaminati. La pubblicazione del discorso moscovita sulla rivoluzione imminente in Italia nel 1922, sull’ultimo numero di “Belfagor”, a opera di Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, apre su questo abisso uno spiraglio. E il terzinternazionalismo di cui Gramsci ha oberato Togliatti.
Il diverso approccio storiografico era stato tentato da Bedeschi senza fortuna una quindicina d’anni fa, con “Gentile e Gramsci: i due volti del totalitarismo” e “Il piccolo Lenin. Antonio Gramsci e «L’Ordine Nuovo»”. Orsini ha le carte in regola per uscire dalla storia giornalistica – anche se egli stesso qui sembra volerla privilegiare: professore di Sociologia politica a Tor Vergata e alla Luiss, ricercatore del Mit, già apprezzato autore di una “Anatomia delle Brigate Rosse” che fa testo (nonché denunciatore inflessibile, anche in proprio, dei concorsi truccati all’università). Sulla “Stampa” Angelo D’Orsi l’ha detto “un giovane vivace, e improvvido studioso… privo di credenziali scientifiche”. Ma non c’è partita: D’Orsi, professore titolare a Torino, soprattutto di gramscismo, sembrerebbe accreditato, ma egli stesso di preferenza pratica la collaborazione che depreca ai giornali, “La Stampa”, “Il Fatto”, “Micromega”, e la polemica onnipresente sul web – il problema Gramsci sono sempre stati i “suoi”.
Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino, pp. 147 € 12
venerdì 27 aprile 2012
Angela Merkel teme la recessione
La Germania tiene ancora, ma tiene male. Le esportazioni non vanno più bene, e i consumi, che avevano alimentato la forte crescita nel 2011, sono piatti. Anche per effetto di una contenuta massa retributiva: la quasi piena occupazione tedesca fa perno sui “mini jobs”, retribuiti fino a 400 euro mensili (con ridottissimi oneri sociali), e i “bassi salari”, tra 400 e 800 euro (idem), cui sempre più datori di lavoro fanno ricorso – la flessibilità è totale in Germania. Angela Merkel teme di arrivare tra un anno alle elezioni con alle spalle una recessione, e per questo muta tattica.
È su questo cambio di strategia che Monti è intervenuto negli incontri a Bruxelles a patrocinare una politica europea di sviluppo. Senza ridiscutere il “fiscal compact”. Su entrambi i fronti in linea, cioè, col governo tedesco.
Fra i paesi europei già in crisi ci sono tre delle maggiori economie, l’Italia, la Gran Bretagna e la Spagna. E anche la Francia non se la passa bene: la povertà vi è cresciuta fuori controllo. Tra i paesi in crisi ci sono poi cinque vassalli della Germania: Belgio, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca e Slovenia. Il rallentamento in atto in Germania potrebbe arrivare anche alla recessione, nel secondo e terzo trimestre dell’anno.
È su questo cambio di strategia che Monti è intervenuto negli incontri a Bruxelles a patrocinare una politica europea di sviluppo. Senza ridiscutere il “fiscal compact”. Su entrambi i fronti in linea, cioè, col governo tedesco.
Fra i paesi europei già in crisi ci sono tre delle maggiori economie, l’Italia, la Gran Bretagna e la Spagna. E anche la Francia non se la passa bene: la povertà vi è cresciuta fuori controllo. Tra i paesi in crisi ci sono poi cinque vassalli della Germania: Belgio, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca e Slovenia. Il rallentamento in atto in Germania potrebbe arrivare anche alla recessione, nel secondo e terzo trimestre dell’anno.
Gesù e l’islam – o l’ipotetico siciliano
Un raro esempio di psicologia del profondo degli arabi che sia stata tradotta. A un certo punto sembra di leggere Camilleri, quando il Profeta si attarda in cinque o sei ipotesi sulla morte di Giovanni Battista: la scomposizione del reale nell’ipotetico del Novecento siciliano (Pirandello, Sciascia, Camilleri) non si radicherà nel deserto? Per il resto è semplice, la presenza di Gesù nel “Corano”, e di Maria, Giuseppe suo “cugino”, Giovanni Battista, Anna, Zaccaria. Anche ingenua, specie nel gusto per le etimologie, di “Giovanni” (Yahia), “Nobile”, “Casto”, “Maria”.
Il Vecchio e il Nuovo Testamento fanno parte della tradizione islamica. Una continuità religiosa che incide nella politica e la storia: l’islam riconosce il cristianesimo, il cristianesimo non conosce l’islam, se non come il nemico della Conquista. In questo secolo non si può più dire, sono i mussulmani che perseguitano i cristiani, ma a lungo fu il contrario, almeno nell’islam arabo: i Crociati sterminavano gli arabi, mentre i cristiani poterono poi convivere e professare sotto gli arabi, a Gerusalemme, in Siria, in Iraq, in Grecia, in Egitto – perfino a Dubai e negli altri desertici Emirati del Golfo sopravvivono confessioni cristiane.
Vita di Gesù secondo le tradizioni islamiche
Il Vecchio e il Nuovo Testamento fanno parte della tradizione islamica. Una continuità religiosa che incide nella politica e la storia: l’islam riconosce il cristianesimo, il cristianesimo non conosce l’islam, se non come il nemico della Conquista. In questo secolo non si può più dire, sono i mussulmani che perseguitano i cristiani, ma a lungo fu il contrario, almeno nell’islam arabo: i Crociati sterminavano gli arabi, mentre i cristiani poterono poi convivere e professare sotto gli arabi, a Gerusalemme, in Siria, in Iraq, in Grecia, in Egitto – perfino a Dubai e negli altri desertici Emirati del Golfo sopravvivono confessioni cristiane.
Vita di Gesù secondo le tradizioni islamiche
Piazza Fontana non è un romanzo
La capacità narrativa di Giordana non ha ragione di Piazza Fontana. Il film, lanciato in sole 250 copie con la ragionevole attesa di una lunga vita nelle sale, ha lasciato gli schermi ad appena tre settimane dal lancio – a Roma per il 25 aprile era disponibile in soli quattro cinema, King, Madison, Quattro Fontane e Tibur, e ne primi tre nelle sale piccole, da cinefili. Il racconto è solido, ma lo spettatore resta a disagio. Le ferite aperte sono due, le bombe e le indagini, e non è facile addebitare tutto alla strage di Stato salvando poi questo e quello. Oppure il nodo è Pinelli, cioè Calabresi: il ruolo del commissario nell’indirizzare le indagini sulla pista (falsa) dell’anarchia.
Giordana è maestro in Italia del film politico, sulle questioni critiche (appassionanti), ma non abbastanza come il modello americano, che sa essere “imparziale”. L’onorevole Moro, per esempio, è presente a nessun effetto critico. Giordana ce lo vuole come parte buona della politica, ma è pure quello che, disinnescando il centrosinistra, ha precipitato l’Italia nell’autunno caldo, e nella terribile storia che ne seguirà. In questa prospettiva sarebbe stato un personaggio anche lui avvincente - ma non si può, la storia deve essere sempre mutila in Italia?
Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage
Giordana è maestro in Italia del film politico, sulle questioni critiche (appassionanti), ma non abbastanza come il modello americano, che sa essere “imparziale”. L’onorevole Moro, per esempio, è presente a nessun effetto critico. Giordana ce lo vuole come parte buona della politica, ma è pure quello che, disinnescando il centrosinistra, ha precipitato l’Italia nell’autunno caldo, e nella terribile storia che ne seguirà. In questa prospettiva sarebbe stato un personaggio anche lui avvincente - ma non si può, la storia deve essere sempre mutila in Italia?
Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage
La fotomodella smonta le (non) indagini
Per l’uscita del film di Giordana Adriano Sofri ha messo in rete l’ennesima ricostruzione della vicenda, che è, infine, un atto d’accusa. Unico perdente , condannato, di tutta la vicenda, Sofri è l’esempio vivente della contraddizione. Che è giudiziaria, politica, e anche storica o d’opinione – e perfino istituzionale: è l’unico escluso, nonché dalla grazia, anche dalla pacificazione per i 40 anni al Quirinale. Ma finora non aveva eccepito, legandosi anzi ai suoi carnefici, politici e mediatici. Aveva onorato la memoria di Pinelli, ma nulla più. Ora smonta – involontariamente? - l’incredibile vicenda, di polizia e giudiziaria, con un semplice ricorso alla verità delle indagini.
Il suo pamphlet Sofri dice diretto a smontare le “tesi” di un libro di divulgazione, “Il segreto di Piazza Fontana”, scritto tre anni fa dal giornalista parlamentare dell’Ansa Paolo Cucchiarelli, cui Giordana ha fatto riferimento – le cui tesi però (due borse, due bombe, due taxi, e perfino “due ferrovieri”: per poter avere la pista anarchica e quella fascista-servizi segreti Cucchiarelli imbastisce il suo romanzo sul doppio) non ci sono nel film. Ma d’acchito mostra come le indagini sono state condotte male – non per incapacità. Riporta infatti la testimonianza resa il 15 dicembre, 48 ore dopo la strage, da una cittadina norvegese, Gunhild Svenning. Ventitrenne, fotomodella, aveva incassato un assegno di 35 mila lire dall’agenzia teatrale “21” di via Cappuccio, e dalla stessa agenzia alle 15.44 aveva chiamato il radiotaxi per andare alla Banca d’Agricoltura di piazza Fontana in tempo per cambiarlo. L’aveva fatto e se n’era andata a casa a piedi, a via Belisario 1. La chiamata al radiotaxi fu segnalata, Gunhild fu subito convocata, e rese la sua testimonianza. Che il direttore dell’agenzia “21” il giorno successivo confermò. Ma Gunhild insieme con la borsetta aveva anche una “grande cartella”, afferma il tassista. “Era il mio portfolio”, dice la modella.
Le cose si potevano dire e sapere, non c’era bisogno di tante ipotesi campate sul nulla. Che però confluirono a rallentare e deviare le indagini. Inutile dire che su questo particolare dimenticato s’impiantarono per un anno o due quasi processi: la modella era un uomo truccato, la cartella era una valigia, il suo taxi incrociò quello di Cornelio Rolandi, l’accusatore di Valpreda. E non è finita: se qualcuno ritiene la “doppietà” di Cucchiarelli espediente romanzesco, o ridicolo, si ricreda, la Procura di Milano ci ha indagato per alcuni anni, e solo ora archivia, nell’anno 43.
Sofri usa l’episodio della modella per smontare la tesi del complotto. Ma con questo semplice rimando, a una semplice testimonianza, smonta invece la (non) inchiesta su piazza Fontana. Dell’Ufficio Politico della Questura, della Procura, del ministero. Dà uno spaccato di come le indagini si potevano fare e non furono fatte: le indagini su piazza Fontana si potevano fare bene, con professionalità, e furono fatte male, inescusabilmente se non di proposito – poi magari un giorno lo steso Sofri dirà la verità anche sull’assassinio di Calabresi, che non fu indagato. Il complotto non c’è, eccetto che quando c’è.
Sofri scrive “43 anni” per dire che piazza Fontana fu l’opera di gruppi fascisti. E basta. Non è vero: piazza Fontana, come poi Brescia, e altri attentati alla bomba, hanno evidenti responsabilità politiche, giudiziarie e di polizia. Si trova quel che si cerca, la scoperta suppone un progetto, ma come dimenticare? La colpa delle bombe fu così accertata: hanno confessato in due, Valpreda e Pinelli, anarchici. Pinelli si è poi ucciso. Ha confessato quando un questurino gli ha detto: “Valpreda ha confessato”. Lo schema Romeo e Giulietta. Tuttavia, Sofri toglie egli stesso il sasso portante alla costruzione, con la testimonianza di una fotomodella, ineccepibile.
Adriano Sofri, 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film, free online
Il suo pamphlet Sofri dice diretto a smontare le “tesi” di un libro di divulgazione, “Il segreto di Piazza Fontana”, scritto tre anni fa dal giornalista parlamentare dell’Ansa Paolo Cucchiarelli, cui Giordana ha fatto riferimento – le cui tesi però (due borse, due bombe, due taxi, e perfino “due ferrovieri”: per poter avere la pista anarchica e quella fascista-servizi segreti Cucchiarelli imbastisce il suo romanzo sul doppio) non ci sono nel film. Ma d’acchito mostra come le indagini sono state condotte male – non per incapacità. Riporta infatti la testimonianza resa il 15 dicembre, 48 ore dopo la strage, da una cittadina norvegese, Gunhild Svenning. Ventitrenne, fotomodella, aveva incassato un assegno di 35 mila lire dall’agenzia teatrale “21” di via Cappuccio, e dalla stessa agenzia alle 15.44 aveva chiamato il radiotaxi per andare alla Banca d’Agricoltura di piazza Fontana in tempo per cambiarlo. L’aveva fatto e se n’era andata a casa a piedi, a via Belisario 1. La chiamata al radiotaxi fu segnalata, Gunhild fu subito convocata, e rese la sua testimonianza. Che il direttore dell’agenzia “21” il giorno successivo confermò. Ma Gunhild insieme con la borsetta aveva anche una “grande cartella”, afferma il tassista. “Era il mio portfolio”, dice la modella.
Le cose si potevano dire e sapere, non c’era bisogno di tante ipotesi campate sul nulla. Che però confluirono a rallentare e deviare le indagini. Inutile dire che su questo particolare dimenticato s’impiantarono per un anno o due quasi processi: la modella era un uomo truccato, la cartella era una valigia, il suo taxi incrociò quello di Cornelio Rolandi, l’accusatore di Valpreda. E non è finita: se qualcuno ritiene la “doppietà” di Cucchiarelli espediente romanzesco, o ridicolo, si ricreda, la Procura di Milano ci ha indagato per alcuni anni, e solo ora archivia, nell’anno 43.
Sofri usa l’episodio della modella per smontare la tesi del complotto. Ma con questo semplice rimando, a una semplice testimonianza, smonta invece la (non) inchiesta su piazza Fontana. Dell’Ufficio Politico della Questura, della Procura, del ministero. Dà uno spaccato di come le indagini si potevano fare e non furono fatte: le indagini su piazza Fontana si potevano fare bene, con professionalità, e furono fatte male, inescusabilmente se non di proposito – poi magari un giorno lo steso Sofri dirà la verità anche sull’assassinio di Calabresi, che non fu indagato. Il complotto non c’è, eccetto che quando c’è.
Sofri scrive “43 anni” per dire che piazza Fontana fu l’opera di gruppi fascisti. E basta. Non è vero: piazza Fontana, come poi Brescia, e altri attentati alla bomba, hanno evidenti responsabilità politiche, giudiziarie e di polizia. Si trova quel che si cerca, la scoperta suppone un progetto, ma come dimenticare? La colpa delle bombe fu così accertata: hanno confessato in due, Valpreda e Pinelli, anarchici. Pinelli si è poi ucciso. Ha confessato quando un questurino gli ha detto: “Valpreda ha confessato”. Lo schema Romeo e Giulietta. Tuttavia, Sofri toglie egli stesso il sasso portante alla costruzione, con la testimonianza di una fotomodella, ineccepibile.
Adriano Sofri, 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film, free online
La paranoia del complotto è(ra) di destra
Il complesso del complotto era di destra – che dobbiamo pensare di una sinistra che se ne fa scudo? Richard Hofstadter lo spiegava nel saggio più acuto sul complottismo, “Lo stile paranoico della politica americana”, prima di Daniel Pipes, “Il lato oscuro della storia. L’ossessione del Grande Complotto”, 2005. Il saggio di Hofstadter, che dopo quasi cinquant’anni la “Rivista di politica” di Alessandro Campi traduce, è del 1963..
Lo storico della Columbia trova paranoico anche il populismo di sinistra americano di fine Ottocento, anti-finanza. E i processi di Stalin. Ma soprattutto, insiste, il complotto è la spiegazione della storia che si dà la destra. Hitler, McCarthy, la John Birch Society, razzista. Di cui trova antecedenti nell’anti-gesuitismo, nell’anti-illuminismo, nelle crociate anti-massoniche, e infine nell’antisemitismo. Con alcune costanti, che ridicolmente l’attualità ripete: il Nemico è sempre troppo potente, e lussurioso - ha captali illimitati, controlla la stampa, esercita la licenza sessuale. Salvo copiarne le attitudini. Il Ku Klux Klan imita il cattolicesimo fine nei paramenti, ne rituali, nella gerarchia. La John Birch Society si organizzò come le cellule comuniste, e professò l’intransigenza ideologica del comunismo.
Al dossier contribuiscono Roberto Valle, “Le derive del machiavellismo immaginario”, e Raoul Girardet, “Il mito politico della cospirazione universale”. Una disamina, quest’ultima, dei ricorrenti complotti dell’Ottocento, sulla spinta dell’abate Barruel, che nel 1797, nelle “Memorie per servire alla storia del giacobinismo” aveva ridotto la rivoluzione del 1789 a un complotto massonico contro la “civiltà cristiana”. Ma si potrebbe andare più indietro, allo storico savoiardo Saint-Réa, allievo dei gesuiti, l’autore della “Congiura degli Spagnoli contro Venezia”: “Fra tutte le imprese degli uomini nessuna è grande come la Congiura… (Sono) questi i luoghi della storia più morali e istruttivi”.
Campi, l’“ideologo di Fini”, che però non l’ha seguito nello spostamento a sinistra, contribuisce con la distinzione tra congiura e complotto. Leonardo Varasano, storico del fascismo in Umbria, candidato alle comunali di Perugia nel 2009 nella lista Azione Giovani (Alleanza Nazionale), critica in una nota “dietrologia e complottismo, due costanti del discorso pubblico italiano”. Presentando la rivista sul “Corriere della sera”, Giovanni Belardelli, che contribuisce alla stessa con una nota sull’idea di nazione nel Risorgimento, rileva come la paranoia dilaghi in Rete, ma ne dà una spiegazione duplice. “La necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi” è una. A cui lo storico fa seguire Durkheim: “Quando la società soffre, sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suo male”. E se si trattasse invece di un fallimento politico?
Congiure, complotti, Cospirazioni, “Rivista di politica”, Rubbettino, n. 1\2012 € 10
Lo storico della Columbia trova paranoico anche il populismo di sinistra americano di fine Ottocento, anti-finanza. E i processi di Stalin. Ma soprattutto, insiste, il complotto è la spiegazione della storia che si dà la destra. Hitler, McCarthy, la John Birch Society, razzista. Di cui trova antecedenti nell’anti-gesuitismo, nell’anti-illuminismo, nelle crociate anti-massoniche, e infine nell’antisemitismo. Con alcune costanti, che ridicolmente l’attualità ripete: il Nemico è sempre troppo potente, e lussurioso - ha captali illimitati, controlla la stampa, esercita la licenza sessuale. Salvo copiarne le attitudini. Il Ku Klux Klan imita il cattolicesimo fine nei paramenti, ne rituali, nella gerarchia. La John Birch Society si organizzò come le cellule comuniste, e professò l’intransigenza ideologica del comunismo.
Al dossier contribuiscono Roberto Valle, “Le derive del machiavellismo immaginario”, e Raoul Girardet, “Il mito politico della cospirazione universale”. Una disamina, quest’ultima, dei ricorrenti complotti dell’Ottocento, sulla spinta dell’abate Barruel, che nel 1797, nelle “Memorie per servire alla storia del giacobinismo” aveva ridotto la rivoluzione del 1789 a un complotto massonico contro la “civiltà cristiana”. Ma si potrebbe andare più indietro, allo storico savoiardo Saint-Réa, allievo dei gesuiti, l’autore della “Congiura degli Spagnoli contro Venezia”: “Fra tutte le imprese degli uomini nessuna è grande come la Congiura… (Sono) questi i luoghi della storia più morali e istruttivi”.
Campi, l’“ideologo di Fini”, che però non l’ha seguito nello spostamento a sinistra, contribuisce con la distinzione tra congiura e complotto. Leonardo Varasano, storico del fascismo in Umbria, candidato alle comunali di Perugia nel 2009 nella lista Azione Giovani (Alleanza Nazionale), critica in una nota “dietrologia e complottismo, due costanti del discorso pubblico italiano”. Presentando la rivista sul “Corriere della sera”, Giovanni Belardelli, che contribuisce alla stessa con una nota sull’idea di nazione nel Risorgimento, rileva come la paranoia dilaghi in Rete, ma ne dà una spiegazione duplice. “La necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi” è una. A cui lo storico fa seguire Durkheim: “Quando la società soffre, sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suo male”. E se si trattasse invece di un fallimento politico?
Congiure, complotti, Cospirazioni, “Rivista di politica”, Rubbettino, n. 1\2012 € 10
mercoledì 25 aprile 2012
È la destra che non c’è, o la sinistra?
Galli della Loggia ripropone nel prossimo fascicolo del “Mulino”, dandone anticipazione sul “Corriere della sera”, la sua tesi che non c’è una destra in Italia. Non sul piano delle idee o culturale. Soffocata per tutto il dopoguerra fino a Berlusconi dal conformismo di sinistra, e successivamente incapace di darsi un’idea e un tono. Berlusconi ha vinto (quasi) tutte le elezioni dal 1994 in poi (in quella del 1996 ebbe più voti, anche se meno parlamentari, di Prodi, e nel 2006 perse per i voti di Lombardo, che non può dirsi uomo di sinistra). Ma “l’obiettivo della «rivoluzione liberale» con il quale … si presentò venti anni fa è stato totalmente mancato”.
È discutibile. Berlusconi ha vinto le elezioni ma non ha saputo, potuto anche, governare. Ha ricondotto alla “ragione repubblicana” l’Msi e la Lega, ma non si è sottratto ai condizionamenti di gruppi e gruppetti, le vecchie correnti – non si spiegano altrimenti le fortune, nel suo schieramento, di gente come Scajola o Pisanu. Non è questo però che interessa lo storico, la novità di questo suo ennesimo intervento sulla “destra che non c’è”. Il fatto nuovo è, dice, che paradossalmente “l’interdetto antifascista” si è potuto imporre nuovamente “sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista”. Riportando la storia indietro.
O non è il contrario che è avvenuto e sta avvenendo? Nei numeri e anche nell’opinione: non c’è una sinistra, l’antiberlusconismo non l’ha ricomposta e non l’ha nemmeno rivitalizzata. Perché è morta sotto il conformismo. Coprendosi con un governicchio che ha imposto una serie incredibile di soprusi, e ha creato una serie letale di ingiustizie. È questa la causa della paralisi, italiana, prima ancora che europea: una sinistra con una sola mezza idea avrebbe aperto un qualche spazio politico invece di santificare un mediocre governo di interessi.
Il vuoto non è a sinistra più che a destra? È alla Rai, nei giornali, nel politicamente corretto. Una sinistra che oggi non si sa più nemmeno definire: ogni volta che parla sembra e vuole essere la destra. Una sinistra che già non era più quella di Bobbio, dell’uguaglianza, della solidarietà, ai tempi di Bobbio. Tutti valori medi, “moderati” direbbe Berlusconi – per non dire dei “fascisti” alla Storace: niente di più ugualitario e solidaristico. Né è quella della giustizia che impera, per la carriera di qualche giudice che opportunisticamente si dica compagno - Misiani era un sicuro compagno, Boccassini, che l’ha perseguitato, lo è? Non il fiscalismo del week-end a Portofino, per la vacanza degli agenti delle tasse. O dei contributi al 34 per cento per chi non ha nemmeno un contratto discontinuo, da sprofondare in una previdenza parallela da cui non prenderà mai nulla. La scienza delle finanza è una cosa seria, dove essa ancora si insegna le tasse si pagano, la sinistra non sa nemmeno questo. Ma dov’è la sinistra? Prime firme di questa sinistra sono fascisti e leghisti peraltro dichiarati. C’è, è vero, un predominio incontestato della sinistra nei media, nell’editoria, nella scuola. Qualsiasi giornale uno compri, in qualsiasi libreria si avventuri, in qualsiasi università studi. Ma su che valori, idee, proposte? La mobilitazione, la faziosità, l’esclusione, anche cattiva, con la politica del “gruppo” – la cordata, gli amici degli amici, o compagni. Che seppure siano (siano stati) valori di una certa sinistra (sovietica), non si può dire incarnino o propaghino alcunché di sinistra: d’innovativo, progressista, inclusivo invece che settario. C’è un’asimmetria, ecco. La sinistra si vuole militante, missionaria, resistente. La destra invece “silenziosa”, è stato detto negli anni 1970, e quindi remissiva in ogni manifestazione esteriore, escluso il voto segreto. Per viltà forse, quieto vivere. Forse anche per pudore, una diversa concezione della politica, non totalitaria. Ciò si traduce, in campo culturale, in un’asimmetria opposta rispetto al potere istituzionale ed economico. Della cui forza proterva (regressiva, reazionaria) la sinistra culturale finisce per essere aeda se non guardia, la destra vittima. Lo storico dirà che la promessa liberale non è stata mantenuta in Italia per la resistenza delle istituzioni e degli interessi costituiti: la delegificazione e la deburocratizzazione contro la corruzione, una nuova leva bismarckiana sulla previdenza che consenta contribuzioni e fiscalità in linea col mercato libero del lavoro. Niente che si possa dire di sinistra: corruzione? tasse? imprevidenza? Ciononostante la sinistra si vuole verità e ragione, se necessario col cinismo (calunnia). La destra invece osserva, in cuor uso giudica, e tace. Si veda anche alla Rai, azienda saldamente ex dc. Rai 1 e Rai 2, gestite da Saccà, Del Noce, Mazza, si permettono Santoro, Floris, Annunziata, Benigni, Fiorello, mentre la Rai 3, ex Pci, non lascia passare una virgola on in linea. Si viene rinviati cioè alla casella base: di che sinistra stiamo parlando?
È discutibile. Berlusconi ha vinto le elezioni ma non ha saputo, potuto anche, governare. Ha ricondotto alla “ragione repubblicana” l’Msi e la Lega, ma non si è sottratto ai condizionamenti di gruppi e gruppetti, le vecchie correnti – non si spiegano altrimenti le fortune, nel suo schieramento, di gente come Scajola o Pisanu. Non è questo però che interessa lo storico, la novità di questo suo ennesimo intervento sulla “destra che non c’è”. Il fatto nuovo è, dice, che paradossalmente “l’interdetto antifascista” si è potuto imporre nuovamente “sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista”. Riportando la storia indietro.
O non è il contrario che è avvenuto e sta avvenendo? Nei numeri e anche nell’opinione: non c’è una sinistra, l’antiberlusconismo non l’ha ricomposta e non l’ha nemmeno rivitalizzata. Perché è morta sotto il conformismo. Coprendosi con un governicchio che ha imposto una serie incredibile di soprusi, e ha creato una serie letale di ingiustizie. È questa la causa della paralisi, italiana, prima ancora che europea: una sinistra con una sola mezza idea avrebbe aperto un qualche spazio politico invece di santificare un mediocre governo di interessi.
Il vuoto non è a sinistra più che a destra? È alla Rai, nei giornali, nel politicamente corretto. Una sinistra che oggi non si sa più nemmeno definire: ogni volta che parla sembra e vuole essere la destra. Una sinistra che già non era più quella di Bobbio, dell’uguaglianza, della solidarietà, ai tempi di Bobbio. Tutti valori medi, “moderati” direbbe Berlusconi – per non dire dei “fascisti” alla Storace: niente di più ugualitario e solidaristico. Né è quella della giustizia che impera, per la carriera di qualche giudice che opportunisticamente si dica compagno - Misiani era un sicuro compagno, Boccassini, che l’ha perseguitato, lo è? Non il fiscalismo del week-end a Portofino, per la vacanza degli agenti delle tasse. O dei contributi al 34 per cento per chi non ha nemmeno un contratto discontinuo, da sprofondare in una previdenza parallela da cui non prenderà mai nulla. La scienza delle finanza è una cosa seria, dove essa ancora si insegna le tasse si pagano, la sinistra non sa nemmeno questo. Ma dov’è la sinistra? Prime firme di questa sinistra sono fascisti e leghisti peraltro dichiarati. C’è, è vero, un predominio incontestato della sinistra nei media, nell’editoria, nella scuola. Qualsiasi giornale uno compri, in qualsiasi libreria si avventuri, in qualsiasi università studi. Ma su che valori, idee, proposte? La mobilitazione, la faziosità, l’esclusione, anche cattiva, con la politica del “gruppo” – la cordata, gli amici degli amici, o compagni. Che seppure siano (siano stati) valori di una certa sinistra (sovietica), non si può dire incarnino o propaghino alcunché di sinistra: d’innovativo, progressista, inclusivo invece che settario. C’è un’asimmetria, ecco. La sinistra si vuole militante, missionaria, resistente. La destra invece “silenziosa”, è stato detto negli anni 1970, e quindi remissiva in ogni manifestazione esteriore, escluso il voto segreto. Per viltà forse, quieto vivere. Forse anche per pudore, una diversa concezione della politica, non totalitaria. Ciò si traduce, in campo culturale, in un’asimmetria opposta rispetto al potere istituzionale ed economico. Della cui forza proterva (regressiva, reazionaria) la sinistra culturale finisce per essere aeda se non guardia, la destra vittima. Lo storico dirà che la promessa liberale non è stata mantenuta in Italia per la resistenza delle istituzioni e degli interessi costituiti: la delegificazione e la deburocratizzazione contro la corruzione, una nuova leva bismarckiana sulla previdenza che consenta contribuzioni e fiscalità in linea col mercato libero del lavoro. Niente che si possa dire di sinistra: corruzione? tasse? imprevidenza? Ciononostante la sinistra si vuole verità e ragione, se necessario col cinismo (calunnia). La destra invece osserva, in cuor uso giudica, e tace. Si veda anche alla Rai, azienda saldamente ex dc. Rai 1 e Rai 2, gestite da Saccà, Del Noce, Mazza, si permettono Santoro, Floris, Annunziata, Benigni, Fiorello, mentre la Rai 3, ex Pci, non lascia passare una virgola on in linea. Si viene rinviati cioè alla casella base: di che sinistra stiamo parlando?
Com’è reale la sinfonia
“Sono realista rispetto al mondo fisico, il Mondo 1. Allo stesso modo, sono realista rispetto al Mondo 2, il mondo delle esperienze. E sono realista rispetto al Mondo 3, il mondo degli oggetti astratti”. Il problema è questo Mondo 3, cioè “il mondo dei prodotti della mente umana, come i linguaggi, i racconti, le storie e i miti religiosi; o, ancora, le congetture e le teorie scientifiche, e le costruzioni matematiche; oppure le canzoni e le sinfonie, i dipinti e le sculture”. E compresa “la serie infinita dei numeri naturali”, che per essere infinita “non può realizzarsi fisicamente o incarnarsi”.
Leggere Popper riconcilia con la ragione – lui dice col “senso comune”. Senza agudezas, né one-upmanship, né sistemi da incastrare. Per la semplicità: come per la fisica, per la filosofia un ragionamento è tanto più bello (vero) quanto più è semplice. Gli “oggetti” del Mondo 3, ad esempio la teoria della gravità di Newton e di Einstein, Popper vuole reali. E aggiunge: “E lo sono proprio nel senso in cui il fisicalista direbbe reali o realmente esistenti le forze e i campi di forza”. Che è quello che Massimo Scaligero, spiritualista, insegnava ai giovani “scampati a Evola” cinquant’anni fa. Popper naturalmente difende la “soluzione realista” sulla base di argomenti razionali. Ma il reale si oppone al niente anche senza.
Karl R. Popper, I tre mondi, Il Mulino, pp. 114 € 10
Leggere Popper riconcilia con la ragione – lui dice col “senso comune”. Senza agudezas, né one-upmanship, né sistemi da incastrare. Per la semplicità: come per la fisica, per la filosofia un ragionamento è tanto più bello (vero) quanto più è semplice. Gli “oggetti” del Mondo 3, ad esempio la teoria della gravità di Newton e di Einstein, Popper vuole reali. E aggiunge: “E lo sono proprio nel senso in cui il fisicalista direbbe reali o realmente esistenti le forze e i campi di forza”. Che è quello che Massimo Scaligero, spiritualista, insegnava ai giovani “scampati a Evola” cinquant’anni fa. Popper naturalmente difende la “soluzione realista” sulla base di argomenti razionali. Ma il reale si oppone al niente anche senza.
Karl R. Popper, I tre mondi, Il Mulino, pp. 114 € 10
Com’è dereale il giornale
Eravamo rimasti a Diego Marconi alcuni anni fa, con qualche utile. Ferraris, già storico dell’“Ermeneutica” e teorico dell’“Estetica razionale”, nonché ultimamente della necessità di “Ricostruire la decostruzione”, dopo tanto girovagare tra i telefonini, Babbo Natale, Gesù adulto, Kant, l’ipad, e la filosofia delle donne, un’oggettistica (ontologia?) non innocua, torna stanco al vecchio-nuovo realismo. Per dire che la verità esiste, etc. Tutto giusto, magari. Ferraris è anche brioso e spiritoso. La “virgolettizzazione del mondo” è qui ottimo tag anti-postmoderno. Ma il brio qui trascura, forse per essere passato da cronista a editorialista. Questa la sua “autopresentazione”: ha elaborato il “nuovo realismo” negli ultimi vent’anni, avendo abbandonato “l’ermeneutica, per proporre un’estetica come teoria della sensibilità, una ontologia naturale come teoria della in emendabilità e infine una ontologia sociale come teoria della documentalità”. Semplice, no? In linea, aggiunge, “con l’Occidente”.
E il “nuovo” realismo? Il postmoderno, per cominciare, Ferraris dice finito nel populismo – che è un’altra cosa ma, ci capiamo, intende Berlusconi, la “tv commerciale” (come se ce ne potesse essere un’altra). La modernità riduce al “prevalere degli schemi concettuali sul mondo esterno” – o non il contrario, dove mettiamo la tv? Il “pensiero debole” riconduce a Joseph de Maistre, alla “polemica cattolica contro gli esprits forts”. Folgorante, forse, ma insensato. Senza risparmiarci l’ennesima esercitazione destra-sinistra, della sinistra che diventa destra e viceversa, che non è per la verità da esprit fort e nemmeno debole – se non ha stufato pure i lettori dei giornali, in emorragia di copie. Tanto per la documentazione: il destra-sinistra è applicato allo heideggerismo, alla rivoluzione desiderante, all’ironizzazione e alla desublimazione. A cui Ferraris aggiunge di suo la deoggettivazione – questo è Bush jr. Le cinque alluvioni convergono infine nel realitysmo, ultima ontologia di Ferraris, coniata su “Repubblica” il 29 gennaio 2011. Che a sua volta si basa su tre “meccanismi fondamentali”, che risparmiamo.
Il resto è argomentato, più che spiegato o esposto, sullo schema dell’Autore in resta per il Primato. E, certo, non si può dire: Ferraris esiste. Ma con più “verità” si potrebbe sostenere che il giornalismo, pur esistendo, rovina la filosofia, Ferraris con Galli, Galimberti, De Monticelli.
E Vattimo? È a lui che Ferraris scrive, citandolo (demolendolo) e no. I duellanti “escono” insieme, scambiandosi gli editori, ma stanno ognuno nella sua parte. Vattimo, sempre elegante, resta all’antico: l’ermeneutica, o costante reinterpretazione, resta il miglior strumento conoscitivo, poiché consente di superare la “dittatura del presente” - un’ermeneutica, insomma, un po’ revisionista. Soprattutto, Vattimo s’impegna a rigettare l’accusa che il postmoderno sia stato e sia una difesa e un trionfo per il neocapitalismo – cosa che, se mai qualcuno l’ha detta, nessuno ci crede. Semmai, aggiunge, è il realismo che impone oggi l’accettazione conformista del capitalismo imperante…
Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, pp. 113 €15
Gianni Vattimo, Della realtà, Garzanti, pp.238 € 18
E il “nuovo” realismo? Il postmoderno, per cominciare, Ferraris dice finito nel populismo – che è un’altra cosa ma, ci capiamo, intende Berlusconi, la “tv commerciale” (come se ce ne potesse essere un’altra). La modernità riduce al “prevalere degli schemi concettuali sul mondo esterno” – o non il contrario, dove mettiamo la tv? Il “pensiero debole” riconduce a Joseph de Maistre, alla “polemica cattolica contro gli esprits forts”. Folgorante, forse, ma insensato. Senza risparmiarci l’ennesima esercitazione destra-sinistra, della sinistra che diventa destra e viceversa, che non è per la verità da esprit fort e nemmeno debole – se non ha stufato pure i lettori dei giornali, in emorragia di copie. Tanto per la documentazione: il destra-sinistra è applicato allo heideggerismo, alla rivoluzione desiderante, all’ironizzazione e alla desublimazione. A cui Ferraris aggiunge di suo la deoggettivazione – questo è Bush jr. Le cinque alluvioni convergono infine nel realitysmo, ultima ontologia di Ferraris, coniata su “Repubblica” il 29 gennaio 2011. Che a sua volta si basa su tre “meccanismi fondamentali”, che risparmiamo.
Il resto è argomentato, più che spiegato o esposto, sullo schema dell’Autore in resta per il Primato. E, certo, non si può dire: Ferraris esiste. Ma con più “verità” si potrebbe sostenere che il giornalismo, pur esistendo, rovina la filosofia, Ferraris con Galli, Galimberti, De Monticelli.
E Vattimo? È a lui che Ferraris scrive, citandolo (demolendolo) e no. I duellanti “escono” insieme, scambiandosi gli editori, ma stanno ognuno nella sua parte. Vattimo, sempre elegante, resta all’antico: l’ermeneutica, o costante reinterpretazione, resta il miglior strumento conoscitivo, poiché consente di superare la “dittatura del presente” - un’ermeneutica, insomma, un po’ revisionista. Soprattutto, Vattimo s’impegna a rigettare l’accusa che il postmoderno sia stato e sia una difesa e un trionfo per il neocapitalismo – cosa che, se mai qualcuno l’ha detta, nessuno ci crede. Semmai, aggiunge, è il realismo che impone oggi l’accettazione conformista del capitalismo imperante…
Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, pp. 113 €15
Gianni Vattimo, Della realtà, Garzanti, pp.238 € 18
lunedì 23 aprile 2012
Persico tradito dagli amici
Una sceneggiatura legnosa di Camilleri, e una serie inverosimile d’ipotesi dello stesso attorno alla morte di Edoardo Persico a 35 anni, escludendo la probabile tisi. Basate sulle memorie sconnesse degli amici di Persico, Alfonso Gatto e Giulia Veronesi, e sulle reticenze di Anna Maria Mazzucchelli, allora segretaria di redazione a “Casabella”, poi moglie di Argan. Eileen Romano fa di ognuno di questi volumetti Skira un’occasione sociale, schierando attorno al personaggio o alla vicenda amici e parenti, ma questa volta non funziona. Solo ipotesi, non c’è l’uomo, se non come un minus habens, né l’“architetto” che molti (tutti) onorano, sico, il geniale teorico d’arte e organizzatore culturale, condirettore di “Casabella”, che fu all’origine del design a Milano, e avrebbe costituto un soggetto molto più interessante.
Uno sberleffo, involontario, alla storia degli indizi – quando la storia semplice sarebbe stata tanto più interessante. La storia indiziaria di Persico, rilanciata nel dopoguerra da Gualtiero Peirce, un ex comunista passato al “Borghese”, era stata proposta trentacinque anni fa a Sciascia, che non ne fece nulla, e successivamente a Oreste Del Buono, che ne scrisse su “Tuttolibri”, a lungo, nel 1993. L’unico “indizio” di qualche interesse sono le raccomandazioni successive di Persico, quando studiava a Torino, da parte della contessa Soldati. Via parrocchia. Persico fu raccomandato dapprima come addetto alle pulizie alla Fiat poi come redattore alla rivista “Motor Italia”. La “contessa” è la madre di Mario Soldati.
Andrea Camilleri, Dentro il labirinto, Skira, pp. 165 € 15
Uno sberleffo, involontario, alla storia degli indizi – quando la storia semplice sarebbe stata tanto più interessante. La storia indiziaria di Persico, rilanciata nel dopoguerra da Gualtiero Peirce, un ex comunista passato al “Borghese”, era stata proposta trentacinque anni fa a Sciascia, che non ne fece nulla, e successivamente a Oreste Del Buono, che ne scrisse su “Tuttolibri”, a lungo, nel 1993. L’unico “indizio” di qualche interesse sono le raccomandazioni successive di Persico, quando studiava a Torino, da parte della contessa Soldati. Via parrocchia. Persico fu raccomandato dapprima come addetto alle pulizie alla Fiat poi come redattore alla rivista “Motor Italia”. La “contessa” è la madre di Mario Soldati.
Andrea Camilleri, Dentro il labirinto, Skira, pp. 165 € 15
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (125)
Giuseppe Leuzzi
A Milano per ogni Brambilla, secondo l’Anci, l’associazione dei comuni, ci sono più di 2 Hu. Per ogni Sala, Cattaneo, Galli, Mariani, Barbieri s'incontra almeno un Chen. Il cognome Zhou, al diciassettesimo posto per frequenza, ricorre più di Fontana, Negri, Riva, Pozzi, Grassi, Gatti, tutti cognomi ambrosiani tipici. Mohamed è il 33mo. Tra i primi 100 cognomi si contano 9 cinesi, 3 arabi e uno di Sri Lanka Fernando.
La città della Lega è la più meticcia. Non di meridionali. È una scelta, è una nemesi?
Colombe e palloncini bianchi a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria, con applausi, ai funerali di Luigi Napoli, morto a diciannove anni. Mentre faceva una rapina a mano armata in un supermercato. Nella quale aveva ucciso il commerciante.
A Polistena il sindaco Michele Tripodi sfida il governo e abbatte l’Imu sulla prima casa allo 0,2 per mille. Se lo può permettere perché ha l’amministrazione in ordine, e perché ritiene la tassa “ingiusta e iniqua” – c’è differenza tra i due aggettivi? C’è.
Tripodi è un comunista puro e duro, di famiglia comunista. Suo zio era il senatore “Mommo”, Girolamo, Tripodi, tra i fondatori di Rifondazione e poi del PdCI, parlamentare per cinque legislature, sindaco per trentun anni. Michele è stato l’assessore più giovane d’Italia e più “delegato”, nella passata giunta provinciale di Reggio Calabria, a guida PdCI. Governa la cittadina contro il Pd e la Sel, oltre che contro il Pdl.
Il risentimento
È l’uso da qualche anno al Sud di perdonarsi a vicenda, tra le mamme o le mogli degli assassinati e le mamme degli assassini - che più spesso non hanno mogli, sono giovani e balordi. Davanti ai telegiornali, che ne sono ghiotti: il perdono è politicamente corretto, e le lacrime fanno audience. Con l’intermediazione in genere di parroci e confessori. Ma senza farsi l’esame di coscienza.
In più casi concreti la famiglia anzi si conferma, in questi perdoni superficiali, la scuola del risentimento. Peggio: dell’odio – dell’irresponsabilità (la colpa è degli altri). Familiare e sociale. Per un senso atavico della giustizia (ingiustizia). Per un senso malinteso della democrazia. Di cui soprattutto le donne – le mamme – sono portatrici. Su uno sfondo di rinunce o fallimenti personali, in una realtà tetra che il rancore consolida.
Il “discorso” è la realtà
Si può dire la Calabria la regione che ha più verde protetto. Con più parchi marini. E l’aria più pulit - certificata. I boschi più estesi. Gli ulivi più antichi - una selva interminabile nella valle delle Saline, o piana di Gioia Tauro. Oppure dirla la regione del malaffare. Della ‘ndrangheta. Dell’abusivismo.
È il “discorso” che fa la realtà. Nel senso che interagisce sulla realtà vera, la monopolizza, la domina. Quella sociale e politica, ma anche quella naturale: pochi calabresi sanno godersi l’aria, o trovano verdi i boschi e le coste, pensano che il “discorso” che se ne fa sia un trucco, il “discorso” vero è quello dominante. Dei media, dell’editoria, della sociologia di caserma.
Aggiornamenti
Di alcuni concetti sfocati e da troppo tempo convenzionali, che reggono il rapporto Nord-Sud, un aggiornamento e un minimo di chiarezza si rendono necessari - di alcuni termini deprecativi di cui si obera il mai abbastanza deprecato Sud.
Casta – La politica come casta è una dato nazionale, che Sud è sopportato, male. È l’intoccabilità (immunità) e insieme l’arroganza del potere. Un milione di persone, facendo un rapido calcolo, tra incumbent e contendenti. Circa ventimila persone tra eletti e personale di servizio (consulenti, consiglieri, segretari) nelle Camere e ai ministeri. Venti consigli regionali, cento provinciali, ottomila comunali, un migliaio circoscrizionali. I consiglieri delle tante Autorità. E gli innumerevoli comitati per reduci e falliti.
Consociativismo – L’ha inventato ufficialmente Depretis. Ma era già attivo alla morte di Cavour, Rattazzi fu il primo consociativo.
Corruzione – È ritenuta “normale” in affari, tra privati cioè. Giusto la distinzione di Formigoni. Dove gli affari sono più fiorenti, dunque, la corruzione più fiorisce. Ma dove gli affari predominano è inevitabile che la corruzione infetti la funzione pubblica: è un concetto pervasivo delle relazioni sociali.
Dualismo – S’intende tra Nord e Sud. Invece è tra produttivi e privilegiati (garantiti).
Familismo – Non è solo di Di Pietro, è anche di Bossi dunque – ma si sapeva. È radicato nei ceti professionali. Tra i giudici, i militari, i medici. Di un famoso giudice politico Santoro e la Rai celebrano le virtù dicendolo “giudice figlio di giudice, nipote di giudice” - come se il giudice figlio di contadino fosse da meno. Il compianto sociologo politico della Luiss Viktor Zaslavsky, il cui figlio è fisico, peraltro valente, negli Usa, usava commentare: “Solo in Italia il figlio del professore è professore. Nella stessa disciplina”.
Si dice: una professione richiede formazione, un po’ come nelle arti e mestieri. Ma “Dinastie d’Italia”, una ricerca dei bocconiani Jacopo Orsini e Michele Pellizzari documenta un grado di familismo tra medici, avvocati, farmacisti e giornalisti quattro volte superiore a quello degli artigiani. Anche se incomparabile con quello dei professori universitari, che sarebbe addirittura il doppio. Su tutto il territorio nazionale, a Sud come a Nord.
Questo è importante: la pubblicistica si fa con le università folkloristiche Jean Monnet di Casamassima e Parthenope di Napoli, create appositamente per sistemare i familiari, e con le dinastie baresi dei Massari e Girone (Economia) e De Santis (Amministrazione). Ma uno studio di Stefano Allesina, ecologo all’università di Chicago, sui cognomi ricorrenti, mostra il familismo radicato, nell’ordine, in Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia, Calabria.
In certe condizioni è peraltro valore positivo. La trasmissione delle conoscenza artigianali, di maestranza. O le dinastie industriali, degli Agnelli, i Pirelli, i Benetton, di chi cioè mantiene i capitali in un certo settore industriale piuttosto che movimentarli liberamente alla ricerca del maggior guadagno.
Feudalesimo – In molte aree del Sud si segnala per non esserci stato. S’intende il feudalesimo in senso proprio, nei secoli fra il VII e il XII secolo, prima dell’affermarsi delle città, e poi delle signorie. Quel particolare rapporto tra un signore e le sue genti, di esazioni (corvées, etc.) ma anche di protezione, e di stimolo (esempio). Al coperto di un insieme di statuti obbligati in area imperiale, anche quando il vincolo di sudditanza nell’impero era sfidato o rigettato.
In molte aree del Sud il padrone-guida locale è mancato, come sono mancati gli statuti. In quei secoli “bui” molta parte del Sud era preda di lontane o imbelli monarchie e di incessanti scorrerie, con trasferimenti continui di popolazioni, dalla costa nei più impervi recessi montuosi, e la disgregazione costante, sociale e produttiva.
leuzzi@antiit.eu
A Milano per ogni Brambilla, secondo l’Anci, l’associazione dei comuni, ci sono più di 2 Hu. Per ogni Sala, Cattaneo, Galli, Mariani, Barbieri s'incontra almeno un Chen. Il cognome Zhou, al diciassettesimo posto per frequenza, ricorre più di Fontana, Negri, Riva, Pozzi, Grassi, Gatti, tutti cognomi ambrosiani tipici. Mohamed è il 33mo. Tra i primi 100 cognomi si contano 9 cinesi, 3 arabi e uno di Sri Lanka Fernando.
La città della Lega è la più meticcia. Non di meridionali. È una scelta, è una nemesi?
Colombe e palloncini bianchi a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria, con applausi, ai funerali di Luigi Napoli, morto a diciannove anni. Mentre faceva una rapina a mano armata in un supermercato. Nella quale aveva ucciso il commerciante.
A Polistena il sindaco Michele Tripodi sfida il governo e abbatte l’Imu sulla prima casa allo 0,2 per mille. Se lo può permettere perché ha l’amministrazione in ordine, e perché ritiene la tassa “ingiusta e iniqua” – c’è differenza tra i due aggettivi? C’è.
Tripodi è un comunista puro e duro, di famiglia comunista. Suo zio era il senatore “Mommo”, Girolamo, Tripodi, tra i fondatori di Rifondazione e poi del PdCI, parlamentare per cinque legislature, sindaco per trentun anni. Michele è stato l’assessore più giovane d’Italia e più “delegato”, nella passata giunta provinciale di Reggio Calabria, a guida PdCI. Governa la cittadina contro il Pd e la Sel, oltre che contro il Pdl.
Il risentimento
È l’uso da qualche anno al Sud di perdonarsi a vicenda, tra le mamme o le mogli degli assassinati e le mamme degli assassini - che più spesso non hanno mogli, sono giovani e balordi. Davanti ai telegiornali, che ne sono ghiotti: il perdono è politicamente corretto, e le lacrime fanno audience. Con l’intermediazione in genere di parroci e confessori. Ma senza farsi l’esame di coscienza.
In più casi concreti la famiglia anzi si conferma, in questi perdoni superficiali, la scuola del risentimento. Peggio: dell’odio – dell’irresponsabilità (la colpa è degli altri). Familiare e sociale. Per un senso atavico della giustizia (ingiustizia). Per un senso malinteso della democrazia. Di cui soprattutto le donne – le mamme – sono portatrici. Su uno sfondo di rinunce o fallimenti personali, in una realtà tetra che il rancore consolida.
Il “discorso” è la realtà
Si può dire la Calabria la regione che ha più verde protetto. Con più parchi marini. E l’aria più pulit - certificata. I boschi più estesi. Gli ulivi più antichi - una selva interminabile nella valle delle Saline, o piana di Gioia Tauro. Oppure dirla la regione del malaffare. Della ‘ndrangheta. Dell’abusivismo.
È il “discorso” che fa la realtà. Nel senso che interagisce sulla realtà vera, la monopolizza, la domina. Quella sociale e politica, ma anche quella naturale: pochi calabresi sanno godersi l’aria, o trovano verdi i boschi e le coste, pensano che il “discorso” che se ne fa sia un trucco, il “discorso” vero è quello dominante. Dei media, dell’editoria, della sociologia di caserma.
Aggiornamenti
Di alcuni concetti sfocati e da troppo tempo convenzionali, che reggono il rapporto Nord-Sud, un aggiornamento e un minimo di chiarezza si rendono necessari - di alcuni termini deprecativi di cui si obera il mai abbastanza deprecato Sud.
Casta – La politica come casta è una dato nazionale, che Sud è sopportato, male. È l’intoccabilità (immunità) e insieme l’arroganza del potere. Un milione di persone, facendo un rapido calcolo, tra incumbent e contendenti. Circa ventimila persone tra eletti e personale di servizio (consulenti, consiglieri, segretari) nelle Camere e ai ministeri. Venti consigli regionali, cento provinciali, ottomila comunali, un migliaio circoscrizionali. I consiglieri delle tante Autorità. E gli innumerevoli comitati per reduci e falliti.
Consociativismo – L’ha inventato ufficialmente Depretis. Ma era già attivo alla morte di Cavour, Rattazzi fu il primo consociativo.
Corruzione – È ritenuta “normale” in affari, tra privati cioè. Giusto la distinzione di Formigoni. Dove gli affari sono più fiorenti, dunque, la corruzione più fiorisce. Ma dove gli affari predominano è inevitabile che la corruzione infetti la funzione pubblica: è un concetto pervasivo delle relazioni sociali.
Dualismo – S’intende tra Nord e Sud. Invece è tra produttivi e privilegiati (garantiti).
Familismo – Non è solo di Di Pietro, è anche di Bossi dunque – ma si sapeva. È radicato nei ceti professionali. Tra i giudici, i militari, i medici. Di un famoso giudice politico Santoro e la Rai celebrano le virtù dicendolo “giudice figlio di giudice, nipote di giudice” - come se il giudice figlio di contadino fosse da meno. Il compianto sociologo politico della Luiss Viktor Zaslavsky, il cui figlio è fisico, peraltro valente, negli Usa, usava commentare: “Solo in Italia il figlio del professore è professore. Nella stessa disciplina”.
Si dice: una professione richiede formazione, un po’ come nelle arti e mestieri. Ma “Dinastie d’Italia”, una ricerca dei bocconiani Jacopo Orsini e Michele Pellizzari documenta un grado di familismo tra medici, avvocati, farmacisti e giornalisti quattro volte superiore a quello degli artigiani. Anche se incomparabile con quello dei professori universitari, che sarebbe addirittura il doppio. Su tutto il territorio nazionale, a Sud come a Nord.
Questo è importante: la pubblicistica si fa con le università folkloristiche Jean Monnet di Casamassima e Parthenope di Napoli, create appositamente per sistemare i familiari, e con le dinastie baresi dei Massari e Girone (Economia) e De Santis (Amministrazione). Ma uno studio di Stefano Allesina, ecologo all’università di Chicago, sui cognomi ricorrenti, mostra il familismo radicato, nell’ordine, in Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia, Calabria.
In certe condizioni è peraltro valore positivo. La trasmissione delle conoscenza artigianali, di maestranza. O le dinastie industriali, degli Agnelli, i Pirelli, i Benetton, di chi cioè mantiene i capitali in un certo settore industriale piuttosto che movimentarli liberamente alla ricerca del maggior guadagno.
Feudalesimo – In molte aree del Sud si segnala per non esserci stato. S’intende il feudalesimo in senso proprio, nei secoli fra il VII e il XII secolo, prima dell’affermarsi delle città, e poi delle signorie. Quel particolare rapporto tra un signore e le sue genti, di esazioni (corvées, etc.) ma anche di protezione, e di stimolo (esempio). Al coperto di un insieme di statuti obbligati in area imperiale, anche quando il vincolo di sudditanza nell’impero era sfidato o rigettato.
In molte aree del Sud il padrone-guida locale è mancato, come sono mancati gli statuti. In quei secoli “bui” molta parte del Sud era preda di lontane o imbelli monarchie e di incessanti scorrerie, con trasferimenti continui di popolazioni, dalla costa nei più impervi recessi montuosi, e la disgregazione costante, sociale e produttiva.
leuzzi@antiit.eu