sabato 23 giugno 2012

La Germania invidia l’Italia

Dopo la Grecia l’Italia, non c’è dubbio. C’è l’Italia nel mirino della Germania:, dello “Spiegel”, della Bundesbank, di mezzo governo Merkel, se non della stessa Merkel, ammesso che abbia focalizzato dove si trova l’Italia, dell’Ifo di Monaco e della “Bild”, il quotidiano dei tedeschi. Per un motivo preciso: la Germania è invidiosa dell’Italia. Lo è sempre stata e non si vede perché. Giacché si ritiene, si è sempre ritenuta da due secoli e mezzo, dall’invenzione degli “ariani”, superiore all’Italia.
Saranno almeno trent’anni che la Fiat non impensierisce più la Volkswagen, anzi si è quasi sbriciolata, ma VW non ha occhi che per la concorrenza Fiat. Per non dire della morale: il paese più omertoso, traditore e cattivo guidatore d’Europa – indisciplinato, ubriacone – si ritiene sempre in diritto di fare la morale all’Italia.
Non è tutta questione di calcio, della nazionale italiana che sempre batte la tedesca alle finali. La Germania invidiava per esempio all’Italia la pedagogia. Ma ha rimediato: da qualche generazione anche le donne tedesche sono diventate madri. Continua a invidiarne la cucina? È possibile. Il vino a buon mercato? Il sole? Il mare? È possibile, ma qui senza colpa per l’Italia. E perché, comunque, volerne la distruzione, il danno non sarebbe anche tedesco?
Però, ogni tanto bisogna riconoscerlo: i tedeschi sono più intelligenti. Delle cose italiane. Come dare torto allo “Spiegel” quando s’incazza che l’Italia si faccia governare dalla mafia? O dal sindacalismo dei nullafacenti?

L’Europa dei mediocri

È un’Europa mediocre che si sceglie governanti mediocri? Avendoli ascoltati ieri a Roma non si direbbe: i governanti sono troppo mediocri – si capisce che Monti giganteggi. Hollande e Merkel si sottraggono a un complimento a Roma che li ospita. Cosa che tutti fanno, anche quando sono convocati a Wuppertal. E una Merkel, cancelliere della Germania, che accampa scuse come una qualsiasi governante latina: sapete, non posso, ho diciassette, governi locali, diciotto parlamenti, sapete, la mia opinione pubblica…. Come se un cancelliere dovesse informarsi presso l’opinione pubblica e non la facesse. O Monti andasse a chiedere agli evasori perché non pagano le tasse. Il tutto tra sorrisi e pacche da festa in famiglia.
Sotto il vulcano? Sopra, sopra, la leggerezza d’animo vola. I personaggi si compendiano per la storia con Federico Fubini: “In tutto i quattro leaders si sono parlati ieri per 75 minuti: meno della durata della partita Germania-Grecia”, annota sul “Corriere della sera”: “Per assistere alla quale la cancelliera ha spostato gli orari del vertice di Roma”.
Par andare a esultare ai gol. A farsi fotografare nell’esultazione teatrale, che si è esercitata a imparare a sessant’anni. Intuito sicuro? Era una partita facile.

I miti sono falsi, ma l’Aspromonte è animista

Una raccolta per i cultori di Corrado Alvaro (“Viaggio nei luoghi di Corrado Alvaro” è il sottotitolo). E di una scrittura anomala, nel taglio, nell’immaginazione – nel racconto: il piacere della lettura è assicurato.
Zappone, calabrese di Palmi, cittadina luminosa di mare, aveva il culto di Alvaro, calabrese del remoto San Luca, e ne scrisse variamente. Santino Salerno ha raccolto qui alcuni dei suoi testi alvariani. Mettendo in guardia il lettore dalle eccentricità del personaggio e dello scrittore. Tali da impedirgli d’inserirsi in altre realtà alle sue ambizioni più confacenti, per esempio a Roma, benché sostenuto da amici considerati e influenti, Répaci, Altomonte, Accrocca, dell’Arco. Rimarrà maestro elementare al paese, la condizione di cui Sciascia, suo ammiratore e affettuoso corrispondente dei primi anni 1950, riuscirà invece presto a liberarsi.
La stessa “ironia corrosiva” che è la cifra di Zappone, e l’“eccesso”, Salerno imputa alle “dolorose condizioni esistenziali” dello scrittore – sopravvisse trent’anni a una grave ferita di guerra. Ma si può meglio imputarli a un disadattamento, o indiretto ribellismo, esistenziale e sociale insieme, e perfino regionale. Per quell’etichetta “Calabria” sovrimpressa – non sempre ostilmente – e ormai indelebile, interiorizzata. Che non si accetta e non si sa rifiutare. Si veda qui il forsennato – poco filologico, e lui lo sa – popolamento di eroi e divinità che Zappone fa dell’Aspromonte, la “Montagna”. È segno di animismo perdurante, ed è confuso, manifestazione di un ritardo (confusione) culturale. Ma è vero anche al contrario: pur essendo filologicamente zero, anzi negativo, il popolamento riflette un perdurante animismo. Anche nei laici professi.
L’ultima sezione, “Fede, mito e costume”, raccoglie tre racconti-testimonianze di dettagliata etnografia, e acute ermeneutiche, un tesoro. Della fede come identificazione (immedesimazione in un altro) e liberazione.  E dello scongiuro: come occultamento, e remissività di fronte alla sorte sempre maligna.
Domenico Zappone, Il pane della Sibilla, Rubbettino, pp. 142 € 12

venerdì 22 giugno 2012

Prescienza

Scirocco. I greci lo chiamavano euro.

Problemi di base - 105

spock

Sono tutti buoni praticanti gli scorticatori di Napolitano: sarà un caso?

In prima pagina vanno le vaseline e le limonate, con le mutande sporche della giudiziaria: è per questo che i giornali hanno un’aria triste?

È dura per i giornali o i giornali sono duri – da ingoiare?

Politicamente il conformismo è corretto o scorretto?

Starà PD per pere decotte, pargoli diabolici, pippe domestiche?

Perché l’intellettuale impegnato sempre si disimpegna?

La libertà Dio non ce l’ha, è per questo che non esiste?

Perché i gay “provocano” i calciatori azzurri dicendoli gay?

spock@antiit.eu

giovedì 21 giugno 2012

Il cronista meglio donna, fa empatia

Partendo dalle intromissioni della compagna di Hollande nella politica francese “Le Nouvel Observateur” dell’altra settimana imbastisce un’inchiesta sulle giornaliste amanti o seconde e terze mogli di uomini politici. Non sono molte per la verità, anche se tutte s’intromettono, da Anne Sinclair (Strauss Kahn) alla terza o quarta moglie di Schröder. L’inchiesta si segnala per il tabù che il settimanale rompe, con finta ingenuità: che il redattore o inviato si preferisce donna in certe situazioni, in Parlamento, nella giudiziaria, negli affari, e nei paesi islamici. Dove cioè il mondo è maschile.
Uno. Due: l’idea non è maschilista ma risale e Françoise Giroud, pia femminista, la grande giornalista dell’“Express” che ne fu a lungo anche la responsabile. “Voleva che si creasse empatia con gli interlocutori”, spiega una giornalista avviata al mestiere da Giroud, “e con i maschi in età pensava che una ragazza giovane avesse più possibilità”. La stessa ricorda: “Andai la prima volta alla Camera, a 22 anni, in minigonna all’inguine e stivali bianchi”. Non dice se l’empatia funzionò, solo che oggi se ne vergogna. Perché sono passati quarant’anni?

La stagione aspra di Carlo era piena

La prima riga accula l’Italia “al maggio 1978”, a quando fu ucciso Moro cioè – i due autori non erano nati. “Quando l’arma esplode”, sia pure l’arma la temibile – perché? - pistola tedesca Walther PKK, è un’imprecisione e un’esagerazione. Ci scappa pure il “sedicente” gruppo terroristico. C’è molta inverosimiglianza in questo racconto. Per una discreta voglia, forse, di “riaprire il discorso” sul ’77, sul terrorismo. Anche se la vicenda narrata, quella di Carlo Rivolta, è per ogni aspetto una testimonianza, se non fu un sacrificio, in senso contrario. In fine si può anche ridere: “Queste pagine sono state scritte durante un’altra guerra fredda, dando del Tu alla Catastrofe”, sono le ultime righe, “mentre il corvo Joe faceva ancora paura e gli Spietati salivano sui treni”. E si tratta di Berlusconi – che è l’editore del libro. Forse è solo questione di epoca, il Millennio è della confusione: le guerre non mancano, vere, coi morti, la disoccupazione, la povertà, anche la fine dei giornali, perché no, ma niente, siamo solo nostalgici – i giovani, non i vecchi.
Nel 1977 Carlo Rivolta aveva 28 anni, e una vita alle spalle. Cinque anni dopo morirà in crisi di astinenza, dopo essersi segnalato nelle cronache dell’Autonomia, il movimento di lotta prevalentemente romano, su “Repubblica”. La dipendenza avendo acquisita per supponenza, come tanti in quegli anni, per i quali la droga, erba o eroina che fosse, era una “esperienza”. Per un’acuta assenza, anche, della figura paterna, essendosi i genitori separati poco dopo la sua nascita. Malgrado l’amore forte della madre Isabella, che ne ha custodito ogni memoria, e l’affetto di compagne di forte personalità, Emanuela Forti prima, la nipote di Nello Rosselli, poi Francesca Comencini.
La ricerca di De Lorenzis e Favale è accurata, molti archivi si vedono consultati, molte testimonianze sono state acquisite, è durata quattro anni, ha avuto lo stimolo di Isabella “Lilli” Chidichimo, la madre che non ha mai trascurato il figlio, non in morte, la narrazione è stimolante. E tuttavia si legge come un’occasione mancata. Il canone è dell’agiografia, il mondo visto attraverso gli occhi di Carlo Rivolta, che non è possibile – né Carlo ne aveva l’ambizione. Il libro era un desiderio di Lilli, gli autori lo sceneggiano in modo da farsi leggere, ma non di più.
C’è sempre qualcosa d’insoddisfacente nel ricordo altrui di qualcuno che si è conosciuto. Carlo, per esempio, era sempre in guardia, e selettivo: coltivava se stesso, molto, nella diversità che opponeva a ognuno, la sua lettura era speciale, la scarpetta, la camicia. La stessa Lilli, viene di dire, sarebbe stata più personaggio, che alla morte di Carlo si ritirò nelle campagne di famiglia, a creare dalla desolazione un’azienda agricola modello e un agriturismo che è oggi quanto di più trendy, tutto ecocompatibile, di legno e pietra, e molte piante e fiori, etniche e allogene. Di un puntiglio e una creatività inimmaginabili. O Scalfari, qui confinato al ruolo di Fondatore, una sorta di Zeus olimpico, che suona periodicamente le sue campane a morto sulla Repubblica, come fa ormai dal 1955, da quasi cinquant’anni, mentre è vivo e attivo, il più grande giornalista che ci sia, informato, di forte giudizio, di grande presa, avveduto, ingegnoso e costante imprenditore, uno che non si scoraggia, direttore anche paterno, con Carlo Rivolta come con ogni altro, e insieme lontano o indifferente. Manca la Calabria, per esempio, se non come sfondo di vacanze. O il mondo dei calabresi, compresi Isabella e il fratello Rinaldo, futuro direttore generale della Confagricoltura, forse più di lei impegnato nella modernizzazione (www.unfaroperilfuturo.it), sbarcati a Roma con Giacomo Mancini nella stagione del centrosinistra – di cui non c’è cenno (Mancini introdurrà Carlo ventenne all’“Avanti!”, poi alla sua segreteria politica e a “Paese Sera”, e dopo morto ne pubblicherà un’antologia nelle sue Edizioni Lerici, con Enzo Forcella, Luigi Manconi e Paolo Mieli). Vivono ai Parioli, con gli agi e le abitudini della borghesia da cui provengono, grandi proprietari di terre nell’alto cosentino tra Sibari e Rocca Imperiale. Carlo ha le stesse abitudini, seppure in aspetto da fricchettone: viaggia in Guzzi 850 California, fa viaggi esotici, non si fa mancare nulla.
Insoddisfacente è, forse, inevitabilmente la ricostruzione di un’epoca che si è vissuta. Peter Tosh in tour nell’estate del 1980 non aveva nulla di diabolico, è capitato di ascoltarlo in concerti “per famiglie”, il suo reggae era musica ballabile. Mentre forse da fare non era il “Dr.Bush” ma la Bologna dello sfondo al suo concerto, quella vera, drammatica rispetto all’oleografia che il Pci vendeva alla stampa estera quale esempio di buongoverno: balorda, violenta, bisognosa di droga. La stagione era, bene o male, altrimenti “aspra” che la unidimensionalità politica che sembra avere occupato ogni spazio dopo la caduta. Al confronto con l’oggi succosissima e perfino eroica - senza bisogno di oltraggiare le parole.
Tommaso De Lorenzis, Mauro Favale, L’aspra stagione, Einaudi, pp. 263 € 18

mercoledì 20 giugno 2012

Ombre - 135

I giornali fanno deridere Napolitano da personaggi quali Ingroia e Di Pietro. Senza un motivo, senza un fondamento. Senza difese: un galantuomo contro due giudici politicanti. Non ha il governo il dovere di proteggere il presidente della Repubblica? Non c’è un governo? Non c’è un Csm, con un certo Vietti? Non ci sono partiti, solo Di Pietro e le intercettazioni?
È però vero che se è uno è un agnello non può farsi leone.

L’Italia può vincere contro Rooney. Oppure può perdere. Ma se perde ci saranno guai al Gay Village. E non potremo che difenderlo. Ma perché provocare?

Il diritto dirotto
Ecocompatibile
tutto è possibile
poiché è ribaltabile,
basta la parola,
che la melma irrora
e il cumulo degli stimoli
a fondo perduto,
tumuli di cimoli,
invece onora,
l’ozioso linguaggio
rendendo odioso.

Gherardo Colombo, magistrato, Democratico ex Pci appassionato, si vuole tecnico in Rai? Di ruote di scorta?

Che fine hanno fatto le ossa “scoperte” nella bara di Renato De Pedis a Sant’Apollinare?
Come nasce Emanuela Orlandi sepolta nella bara di De Pedis? Da una telefonata a “Chi l’ha visto?” nel 2005. La fece Giuseppe “Sergione” De Tomasi, noto prestatore di denaro, come il defunto De Pedis, a pokeristi e altri giocatori, ora sotto processo per usura. Giornalismo? Giustizia? Irrisione?

Monti racconta, non è la prima volta, compiaciuto l’aneddoto dell’emiro del Qatar, che alla sua richiesta d’investire in Italia risponde di no. Perché, dice, “in Italia c’è la corruzione”.
Non è vero, l’emiro vuole la Snam e, se fosse possibile, anche l’Eni. Ma questo non importa. Farsi dare lezioni di moralità in affari da un emiro dice tutto Monti – a partire dallo scarso uso di mondo. Rifilarle agli italiani è disprezzo.

Il titolare di Valvitalia, azienda di componenti per l’industria petrolifera, ha i conti bloccati in Germania, dice, perché ha onorato contratti di esportazione verso l’Iran sottoscritti prima del blocco economico. Mentre la Germania esporta liberamente verso l’Iran. Magari non è vero, ma è possibile. È anzi probabile: i tedeschi sono infami con la concorrenza.
La Bundesbank in realtà non ha bloccato i conti, li ha solo congelati in attesa di un’indagine. In corso da sei mesi.

La Procura di Palermo diffonde presunte intercettazioni di Mancino col Quirinale, col consigliere D’Ambrosio in particolare, per condizionare l’inchiesta a suo carico della stessa Procura. Poi il capo della Procura Messineo si sbraccia a spiegare a Maria Antonietta Calabrò che mai nessuna pressione, di nessun tipo, è stata effettuata da nessuno al Quirinale. Ci prende in giro? Si prende in giro?
Le intercettazioni che girano da sole però sono un’idea – Palermo è proprio il luogo adatto per inventarla, il ludibrio vi è senza limiti.

Il giornalismo italiano si è diviso nella settimana tra i travaglisti e gli anti-travaglisti. Di Marco Travaglio, s’intende, il giornalista antiberlusconiano. Sembrerebbe impossibile ma è così: i miglior giornali si sono schierati. E uno non sa se ha sbagliato professione, paese, mondo. La stupidità esiste.

Renato Mannheimer dice che, se si votasse ora, il partito di Grillo vincerebbe, con almeno un quarto dei voti. Non preso sul serio nemmeno sul suo giornale. Ma almeno si divertono?

Il Procuratore Capo di Palermo, e uno dei due giudici che hanno condotto l’inchiesta sulle collusioni Stato-Mafia, si rifiutano di firmare l’atto d’incolpazione di mezzo governo Ciampi, 1993. Sembrerebbe un fatto grave, ma ha solo mezza riga, criptica, nella mezza pagina di cronaca di Bianconi sul”Corriere della sera”.

Al processo per lo spionaggio Telecom, Tavaroli conferma: “Ho spiato Moggi su richiesta dell’Inter. Consegnai i dossier al vicepresidente Facchetti”. Per il “Corriere della sera” non è una notizia. Zero.

Narducci, il giudice che ha distrutto la Juventus e mezzo calcio senza nessuna ipotesi di reato (il traffico d’influenze), s’era imposto un anno fa come assessore al suo sindaco, che ora esasperato lo dimette. “Credo che abbia problemi con la magistratura”, dice il sindaco. “Mai avuto problemi, forse qualcun altro”, ribatte il giudice-(ex)assessore – e intende: il sindaco, anche lui giudice. Galantuomini?
È il modo d’essere dei giudici, rancorosi e vendicativi. Anche se i fatti avvengono a Napoli – dove altro?

La fine angosciosa del giornalismo

Da tempo non si vuole più termometro dell’opinione pubblica, sensibile, avvertito, equilibrato, ma non è neppure una saponetta, come si voleva. Perché, che prodotto è quello che scoraggia il consumatore, con protervia anche? Chi fosse disposto ancora a leggere il giornale non vi trova infatti che questo messaggio.
Lo trova sotto forma sarcastica, di presa in giro. Viene imbottito di venti o trenta pagine di nulla: la legge che non c’è, una peste stagionale, suina, ovina, bovina, aviaria, presto ittica, la siccità, o l’umidità, e l’ozono, con un po’ di cosce, meglio se politicamente imputabili – il buon giornale non ama le donne. E per sapere cosa succede non sa dove rigirarsi. Il lavoro che non c’è, per esempio. L’acutezza della crisi. Le troppe tasse. Le pensioni che non ci saranno per i giovani, nemmeno dopo la famosa riforma. Jens Weidmann, chi è costui? E Ingroia, che personaggio! O gli esodati di cui tanto si parla, chi sono, come vivono? Per non dire di Angela Merkel, la Germania è tutta terra incognita. O delle guerre che stiamo combattendo – ma questo fa parte del sistema “Star Trek”, siamo da tempo una remota provincia dell’impero.
Il modello è il giornalaccio a un soldo anglo-americano. Ma neanche quello. In una foliazione pure abbondante nemmeno il lettore superficiale troverà ciò che lo interessa. Coma fa uno operato di cuore, come Cassano, a correre e saltare? Come funziona questa storia della benzina a un euro, sarà vera? E com’è che la Chrysler, che per dieci anni minacciò di far fallire la Mercedes, un colosso, fa invece la fortuna della Fiat? O Marchionne, ora che fa caldo, come fa col pullover?
Si può anche fare a meno del giornale, si capiscono quel paio di milioni di lettori che da un paio d’anni non lo comprano più: se questa è la strategia degli editori non si può obiettare, sono soldi loro. Ma neanche questo è argomento di informazione - due milioni di acquirenti perduti su sei! Creano angoscia quei giornalisti che a centinaia, a migliaia, volentieri collaborano alla fine del giornalismo.

L’Angela disgustata in Calabria

Il ritorno al paese è indigesto per Angela Bubba, tutto le va storto. Anche il viaggio in pullman dalla Tiburtina invece che in treno, che dice di prediligere – fa arcaico? Non salva nessuno, madri, figli, conoscenti. Qui non è questione di ‘ndrangheta, burocrazia, abusivismo di necessità, in riva al mare, in cima al colle, in coppa al vicino. È una normalità impossibile - per la scrittrice, bene o male ci sono ancora calabresi in Calabria (che si lamentano, ma non è un reato).
Il malumore si estende al blurb editoriale: “Benvenuti in Calabria, paese di Spartani e Africani sfrattati, delle arance di sangue e dei corpi dimenticati. Il paese delle badanti e dei raccoglitori stranieri, il luogo dei morti bianchi e dei morti neri. Benvenuti nel paese della solitudine. Nel posto della ‘ndrangheta e dell’anonimato, delle strade d’arsenico e del passato affondato. Nella terra degli ospedali assassini e dello Stato invisibile, e dove nessuno sembra poter arrivare. Dove tutto si può dimenticare. Benvenuti in una disperazione bianca, nel paese che non ha più miti…”. È un invito a non comprare? Su un concentrato d’inversioni. La Calabria è l’unico posto dove il mito vive, benché non storiografato né interpretato: nel linguaggio, nei gesti, nei tempi, nei culti molto, nelle forme reali. Dove la socievolezza è sconfinata e perfino invadente – cápita di dover parlare, discutere e rendere conto in Calabria in dieci giorni più che in un anno a Milano. Dove le arance sono semmai bionde, “biondo di Calabria” - tiene fino a giugno. Le strade d’arsenico (asfalto?) sono solo in Calabria? E gli “Spartani” non saranno Bruzi residuali, sfibrati, in un matriarcheo epizefirico?
Forse per l’ira, trascura pure gli arcaismi, le invenzioni linguistiche, le archeologie, di cui testimoniano Brunella Schisa o Paolo Giordano nella fascetta promozionale. C’erano in “La casa”, l’altro libro della scrittrice, come adattamento del sicilianese di Camilleri – che però concorre a un plot, a un’atmosfera, è partecipativo (includente) e non ostativo (escludente).
Angela Bubba, MaliNati, Rizzoli, pp. 373 € 17

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (132)

Giuseppe Leuzzi

Il banchiere Passera si fa un giro in elicottero sulla Salerno-Reggio Calabria, dopodiché dichiara che l’ammodernamento sarà completato entro il 2013. Anche lui. A volo d’uccello - nomen omen? Ammesso che l’abbiano portato a Salerno – lui non sa dov’è. Mentre ci vorranno ancora una diecina d’anni, un buon quarto del manufatto, se non è un terzo, è ancora da appaltare.
Perché i ministri, per quanto lombardi, possono trattare il Sud con disprezzo? Perché il Sud si lascia insultare?

La toponomastica è chiara. Roccapiemonte, San Mango Piemonte, Castiglione dei Genovesi, appena presa l’autostrada per il Sud a Salerno, i comuni tedeschi tra Lauria e Mormanno, Guardia Piemontese, i tanti Lombardi e Piemonte di Sicilia, e perfino una Novara di Sicilia
Intere comunità hanno emigrato per secoli, fino al Cinquecento, dal Nord al Sud. Non c’è l’analogo in direzione contraria. Portavano speciali tecniche, o credi religiosi concussi. In aree ricche e più liberali.

Un diplomato dell’Isef, insegnante di ginnastica nelle scuole, è stato nominato dal ministro dell’Istruzione della Ricerca Profumo, l’ex rettore del Politecnico di Torino, su indicazione della sua predecessora Gelmini, a capo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Senza scandalo a Milano, nell’opinione che conta: il professore è bresciano di Chiari, Mariastella Gelmini bresciana di Lerno. I due pare che non siano nemmeno amanti.

L’industria del caffè Mauro è sotto processo da otto anni per usura. Per aver preteso cioè il pagamento delle forniture. C’è una sola testimone d’accusa, che non si presenta, per la terza o quarta volta, in Tribunale, facendo slittare il processo. La Procura di Reggio Calabria non ha altro da fare? È l’odio-di-sé meridionale – Mauro è una delle poche industrie, benché piccola, di Reggio?

Antimafia
Enzo Scotti parla lunedì 18 sul “Corriere della sera” e se non altro dice quello che tutti sapevano: che la trattativa Stato-Riina è anzitutto una faida Dc. Scotti fu levato dall’Interno per metterci Mancino, quando il suo patron Andreotti perse con le presidenziali del 1992 anche il ruolo politico. Sono Dc, naturalmente ex, i giudici: Ingroia, Lari, Grasso.
Scotti dovrebbe dire, i tempi sono quelli, che la colpa è di Scalfaro e Ciampi. Ma Ciampi ancora vive, e quindi evita.
Tutto, così, anche le faide tra vecchi potentati Dc, senza più alcun potere, deve confluire alla magnificazione della mafia. Che sarà l’unico esito, orrendo, di questa antimafia politica.
Se si dovessero pesare, la mafia politica su un piatto e l’antimafia politica sull’altro, non ci sarebbe da esultare: sono entrambe sanguisughe.

CalabriaSono religiosi e rivoluzionari i pensatori in Calabria: Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Antonio Jerocades, l’abate Giuseppe Leuzzi. Gli ultimi due anche massoni professi. Sempre in campagna, per il rinnovamento, per la libertà.

Il calabrese è bandito anche nel “Manoscritto trovato a Saragozza” (1805), del conte polacco Jan Potocki. Il grande bandito Zoto opera in Calabria. È “calabrese” la storia di Giulio Romano (siciliano) e della principessa di Salerno.

Si discute se Aspromonte sia nome greco per Monte Bianco, in quanto sarebbe allora composto di due parole, di cui una greca, aspros, e una romana, mons. Ma è possibile, non sarebbe un’eccezione: accanto a Policoro, tutto greco, c’è Policastro, greco-romano. Rohlfs ha molti altri esempi: le parlate si mescolano, i nomi pure (omosessuale, per esempio, ha prefisso greco e aggettivo latino).
È però vero che la Calabria è piena di leucos, greco per bianco, più diffuso. E che il monte è aspro, in senso latino.

Fino al 1960, all’Autostrada del Sole, Terracina rappresentava un miraggio e una meta per i calabresi. La fettuccia di Terracina. Quaranta chilometri di rettifilo dopo quattrocento di curve, controcurve, tornanti e saliscendi, sessanta fino a Roma, la meta. Tanti erano entusiasti a quella vista che ci lasciavano la pelle.
A Reggio Spartaco passò un lungo inverno con i suoi traci e galli ribelli, dal novembre 73 alla primavera del 72. Senza tracce apparenti. Non nel senso della liberazione. Reggio è sempre una bella donna un po’ stupita di se stessa – un po’ scema?

Nell’“Elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870”, in appendice alla vecchia “Storia del brigantaggio dopo l’unità” di Franco Molfese, sulla scorta dei documenti residui della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio del 1863, le bande di briganti in Calabria, numerose come in tutte le altre regioni, un centinaio, sono tutte del catanzarese e del cosentino. La provincia di Reggio, attorno all’Aspromonte, dove si sarebbe condensata in questo ultimo mezzo secolo la più alta presenza mafiosa per abitante o metro quadrato al mondo, secondo alcuni Procuratori della Repubblica, era assente. Salvo per una sparuta “banda Mittica – Aspromonte” – nome peraltro onorato di Oppido Mamertina.

Il peggior bandito è per fama Musolino, uno contro il quale i governi dovettero schierare reggimenti, divisioni e corpi d’armata. Da solo, senza banda, Musolino fece una diecina di vittime. Per “il vittimismo della società calabrese”, chiosano Fruttero e Gramellini in “La Patria, bene o male”. Cioè per un errore giudiziario riconosciuto, dopo cinquanta o sessant’anni: una condanna per un omicidio non commesso, a ventun’anni.

Eravamo, in quanto bruzi, schiavi. Che uno poteva uccidere, incontrandoli, senza risponderne. È l’unica lezione che abbiamo appreso dalla storia, un imprinting immodificabile.

Squallore a Milano
Si vada a Milano in treno, alla Stazione Centrale ex monumentale: ora è un’accozzaglia di passerelle, per moltiplicare gli “spazi utili” da vendere, dove è difficile muoversi e orientarsi. Con due o tre bar che vendono panini ammuffiti – provare per credere. È la ‘ndrangheta?
Si esca dalla stazione. Un cantiere occupa il piazzale, abbandonato. Chissà da quanto tempo. Si giri l’angolo, se si riesce a saltare la siepe di rifiuti umani che ingombrano marciapiedi e aiuole, immigrati per lo più, che nessuno evidentemente assiste. In una via dal glorioso nome di Sammartini, mozartiano tra l’altro, hanno tagliato tutti gli alberi, lasciandoli a marcire per terra. Davano ombra? O ci vogliono costruire al centro un’altra sfilza di palazzoni muti di otto-nove piani, come quelli che incombono sul rivoluzionario sinfonista? Una parte li hanno tagliati, i platani, gli altri, ed erano magnolie, li hanno lasciati marcire al gelo, se non li hanno seccati. Ma sui giornali locali solo di ludibri si legge a Agrigento, sul Vesuvio, e a Roma naturalmente, città e aree ben più pulite e ridenti di tanto squallore, e meglio amministrate.

leuzzi@antiit.eu

martedì 19 giugno 2012

Sotto tiro le banche, per l’immobiliare

Sotto tiro non è più il debito ma le banche. Indebolite dal blocco dell’immobiliare: l’Italia è entrata nella sindrome spagnola. Non nella stessa misura ma in misura consistente: l’immobiliare non condiziona l’economia italiana ma le banche sì. Tutte le banche nel sistema italiano, le grandi, che hanno incamerato le casse di risparmio, e le piccole.
Il dato del primo trimestre che dà l’immobiliare in calo del 20 per cento è giudicato ottimistico, anche perché, dopo tre mesi da fine marzo, il mercato si dice ora “fermo”. In subordine, sono “ferme” molte attività legate ai terreni, dai “bagni” e gli agriturismi alle grandi produzioni agricole. È “fermo” per conseguenza da un terzo alla metà degli attivi delle banche: mediatori, costruttori, immobiliaristi, e tutto l’indotto collegato.
È il circolo vizioso avviato dal governo con l’ipertassazione di terreni e immobili. A bilancio pubblico risanato, ora soffrono le banche. Fatto di cui la cosiddetta speculazione ha piena conoscenza: le banche italiane, meno esposte delle altre nei derivati finanziari, lo diventano per la crisi dell’immobiliare. La nuova ondata di vendite di titoli italiani ne è l’effetto, dopo che il pacchetto Passera per il rilancio dell’economia ha trascurato questa falla.
L’immobiliare è fermo in realtà da quasi cinque anni, da quando è scoppiata la bolla bancaria. Si teneva su attraverso partite di giro fra i suoi soggetti, piccoli e grandi, banche comprese, poche le compravendite reali. Da un anno almeno i maggiori costruttori hanno bloccato ogniprogetto: non vendevano qualcosa in meno dei mesi o gli anni precedenti, non vendevano niente.

Italia sovietica - 6

Il culto del capo: Monti ubiquo, come Figaro, e giorno per giorno definitivo, come Stalin (Andropov?).
Il programma d’incentivi inesistenti, 80 miliardi, che la stampa devota mette in prima e commenta per buono – come le città Potiomkin (di cartapesta) del buon tempo antico.
Gli esodati come i kulaki, mai una riga per loro, o una storia di vita vissuta: non esistono.
L’avvocatessa ministro Severino che introduce il delitto di traffico d’influenza, facendolo passare per libertà di espressione.
La disoccupazione che “non esiste”.
L’impossibile Napolitano, che ogni giorno parla ma sembra Cernenko.
Il settennato: un presidente dura, al più, quattro anni, poi sbarroccia, perduto nei corridoi dell’immenso Quirinale, ma bisogna tenerselo imbalsamato.
Alcuni eccessi non sarebbero tollerati in un sovietismo vero:
Il “Corriere della sera-Roma” che tifa per i macchinisti della metro B, superpagati, i quali scioperano individualmente, quando gli viene comodo
Ichino che non fa autocritica e anzi insite: la riforma Dini delle pensioni nel 1995 fu la riforma. Mentre sa che non risolse nulla. Ed evita di citare le manifestazioni “di massa”, da lui patrocinate e organizzate dalla Cgil (diecine di treni speciali, migliaia di pullmann), contro lo “scalone” di Maroni dieci anni fa. Per non dire del golpe di Scalfaro nel 1994, che licenziò il governo e chiuse la legislatura pur di non fare la riforma delle pensioni che Fornero ha fatto a novembre.

Secondi pensieri - (104)

zeulig

Anima - Nella Cabala i devoti ricevono il venerdì un’anima nuova, vergine e angelica, per il nuovo inizio sabato. È una forma della continuità, l’antico rituale di dare sfogo ai repressi. È un caso di riutilizzo dei materiali, nel quale eccellono gli americani. Anche i romani praticavano i prestiti, alla morte dell’imperatore sostituivano le teste del defunto sulle statue con quelle del nuovo.

“Un’anima senza germi è un’anima sterile”, obietta Lou Andreas Salomé a Freud a protezione di Rilke – che la superba analista, inattingibile a Nietzsche, aveva iniziato all’amore, a letto.

Una delle chiavi è la teoria delle due anime, inaugurata da Gor’kij per la Russia alla vigilia della rivoluzione, poi divenuta spagnola (anima europea, anima oceanica), lusitana (idem), indiana, te-desca naturalmente, e italiana. Gor’kij poneva il Sud a Oriente, “sfera di predominio dei principi emotivi e sensibili su quelli della ragione”. L’orientale si compenetra alla natura e vi si adagia, come farà il negro di Senghor, mentre l’europeo s’ingegna di “studiare le forze della natura, farla operare per l’uomo, liberare l’individuo dalla prigione del dogma, le superstizioni, i pregiudizi, la morsa del lavoro coatto”, e di “trasformare l’energia fisica liberata in energia spirituale”.

Capitalismo - Porre l’origine del capitalismo nelle religioni è un oltraggio – per questo Weber, che fu persona di tatto, oltre che scienziato, non la pone. Il capitale è sottrazione: un tanto si mette, un tanto si toglie, e se qualcosa resta si accumula. Il resto è demoralizzazione dell’Occidente a opera dell’Occidente, questo singolare morbo, poiché le religioni di cui si parla sono ebraismo e cristianesimo: cosa c’entra la religione col comprare e vendere che forma il capitale? Le eresie germinavano tra le professioni produttive, primi i tessitori, gli studiosi lo sanno, Febvre, Cantimori e Marc Bloch. La cosa presto si estese ai ciabattini, i mugnai, i vagabondi e i ladri, durante e dopo la Riforma. Senza contare che erano bravi pure i muratori e i falegnami: il capitale è come la rivoluzione, si vuole manuale.

La Riforma non è nata capitalista, anche se se ne fa vanto. La Riforma non è il Rinascimento e anzi lo interrompe, Nietzsche lo spiega più volte e Weber lo saprà: il servo arbitrio è abominevole. Può soddisfare l’istinto beghino, sacrificale. Non può fondare il capitalismo, se esso si vuole libertà e democrazia. Che la Riforma escluda la Rivoluzione, come vogliono Carlyle e Hegel, questo è un altro discorso: se la Riforma mancata implica una politica dimezzata, senza la libertà, la Riforma non la esclude del tutto, escludendo la politica?
Per Thomas Mann è invece opaca la politica in Francia e Spagna, in Belgio, Austria, Portogallo, opacissima nella libertina Italia, e con lui tutto si fa chiaro: all’opera non è Weber ma il pregiudizio anticattolico, antilatino - la storia della Riforma non è migliore di quella della Controriforma. Ciò che si imputa a Weber sono le “forme di vita borghese” di Lukáks. Che dice borghese “il primato dell’etica nella vita, della vita dominata da tutto ciò che ritorna secondo un sistema e una regola, da ciò che si ripete secondo un dovere, da ciò che dev’essere fatto senza riguardo a voglia o malavoglia. In altre parole: il dominio dell’ordine sull’emozione, del durevole sull’effimero, del lavoro sulla genialità, la quale si nutre di fatti sensazionali”. Forme che Mann compiaciuto sintetizza: “Tedesco e borghese sono una cosa sola”.

Intellettuale – Figura recente, è curiosa. Essendo concrezione della nostalgia del non democratico Platone, il dittatore del sapere, lui per primo dovrebbe sapere di non sapere – in quanto depositario di verità è, al meglio, Epimenide cretese.
L’irrilevanza non è dell’impegno, l’impegno lascia tracce, ma dell’impresa intellettuale. L’aneddoto celiniano è perfido ma è sintomatico: lo scrittore crede all’unicità della sua opera. Venga la guerra, la peste, l’olocausto, per l’autore essenziale è la sua opera. Questo è giusto, ognuno si fa valere per quello che sa fare, ma è sciocco. Se la scrittura è memoria. Di che? Della malinconia di Proust, ottima memoria. Della teologia di Dante, profonda. Dell’aneddoto raccontato dal conte di Foxa, l’ambasciatore spagnolo, a Malaparte, che ne ricavò il meglio di “Kaputt”, l’armata che svanisce nel ghiaccio (altra fonte sono i “Capriccios”, proprio così, mezzo italiani mezzo spagnoli, del generale Grüninger, come subito Jünger li rifece nei “Diari”). Vero, anche se probabilmente mai accaduto. Ma nulla a che fare col destino dell’uomo e le masse. A meno che esso non sia fantasia. Ma fantasia non sono le malattie, i debiti, la fame, la fine cruenta dei miliardi di uomini non memorizzati nelle scritture.

Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito-Chiesa. L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante.

Scienza – Sapere di non sapere sarà il su unico risultato? È il proprio della ricerca: restare in attesa (ricerca) di un evento cognitivo risolutivo, che però sa non ci sarà mai. Sapere di non sapere non è neanche una novità.

Storia - Il bello della storia è che se ne può fare a meno. La storia non c’è, o meglio si dissimula. La storia va e viene, le città nascono e muoiono, i popoli, le culture. Può concepirsi solo a n dimensioni, direbbe Braudel. È la scienza di Epimenide, che dormì per 57 anni. O il lungo sogno di Dio di Scoto Eriugena e il vescovo Berkeley. Che ogni tanto si prende una pausa e lascia fare.

Ogni conoscenza è memoria, e dunque lo è ogni novità? Memoria volontaria, quella di Proust, “che è sopratutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dà del passato che facce senza verità, ma un odore, un sapore ritrovato sì”. Il tempo è rovine, si dice in un racconto di Franco Lucentini. Ma c’è un tempo in cui il tempo non decade? Non un tempo storico – passato, presente, futuro. Ma questo tempo non tempo non può esserci stato, altrimenti non ci sarebbe il tempo. La modernità è assolutamente antica, direbbe Oscar Wilde. Di antico, cioè di stabile - reale - c’è solo quanto è moderno. Anche la tradizione che la modernità inventa, la quale altrimenti non esisterebbe.

Oggi la memoria va molto, ma non c’è memoria senza l’oggi. Anche se non si può dar torto a Nietzsche, ogni atto dell’andare avanti è tornare indietro. E a Spengler, per cui i fatti storici essendo fatti psichici, la storia non può fare a meno del concetto di causa. E quando diventerà più complessa della natura? I suoi tempi senz’altro sono più veloci della natura, catastrofi comprese. Gentile vede a tratti un’attività vuota: un cielo lampeggiante d’infinite luci, che splendono un momento e subito si spengono, “restando immota e immutabile solo l’enorme volta appena soffusa del tenue chiarore prodotto dalla sfuggente luminosità di tutte quelle stelle cadenti, spettacolo da fermare ogni cuore più animoso”.

Tempo – “Il tempo passa, il Tempo temporeggia” sarebbe proverbio rumeno. Il Tempo del moto circolare, senza deperimento.

zeulig@antiit.eu

lunedì 18 giugno 2012

Montalbano dostoevskjano tra le donne

Camilleri voleva “ucciderlo”, ma Montalbano è più forte di lui. Non sprezzante del genere umano e anzi politicamente corretto, a favore delle donne, degli immigrati, dell’ambiente, del comunismo, ma nei propositi, nei fatti scorretto – qui ci sono uno stupro inventato, un adulterio felice, e una guerra di mafia indotta con soddisfazione. La donna gli appare stinta, traggediatrice, remota, a meno che non sia procace, l’uomo facile conquistatore, mentre la mafia, che c’è, non fa danni. E lupo solitario. Senza un amico o un confidente. Fidanzato da tempo immemorabile, almeno una ventina d’anni, con una donna cui rifiuta un figlio, anche adottato, e che comunque gli piace lontana. Con la quale sa solo litigare. Solo a casa e fuori, senza la socialità d’obbligo del single odierno, è anzi uno che mangia solo, e se in compagnia non parla. Egoista in ogni occorrenza.
Qui precisa molto, nel misoneismo, misantropico più che maschilista, il suo ideale di donna. È quella che “se lo fa”. Dapprima Ingrid, “la svedese”. Qui una tigre milanese, immaginarsi, seppure di radici isolane, una donna d’affari, decisa quanto svelta. Che – finché – fortissimamente lo vuole. Montalbano non resiste: non ha passioni, se la donna che va a cavallo, bionda e anche bruna, lo soggioga. Mentre la fidanzata-moglie è una litigiosa – la famosa Santippe – e un pìtima. Genialmente (perfidamente) non convivente: nell’epoca delle convivenze, la coppia Montalbano esiste per scoppiare. Altre donne Montalbano non conosce. La madre, che si suppone lo abbia cresciuto, nella colpevole latitanza del padre, semplicemente invece non esiste.
Questo Montalbano non è quello del film. Ha anche tratti dostoevskjani. Il perfido Camilleri che voleva liquidarlo si lascia andare a costruirgli uno spessore di cose indecenti, pulsioni inconfessate o maledettamente impossibili, come la paternità. Ma poi è sempre il fascistone di vecchia memoria, coi superiori, coi dipendenti, un po’ il fratello minore delle vecchie famiglie, senza passioni, senza una vita propria, seppure con un’attività professionale. Con poche differenze, anzi una sola: il fratello minore scapolo fumava, mentre Montalbano, ecologico, passeggia in riva al mare e nella buona stagione si fa una nuotata. Qui c’è una novità: che Montalbano riesce finalmente da andare a letto con un’amante. Sempre interrotto di solito al momento culminante, una vera sindrome da coitus interruptus, l’amorazzo qui si realizza, in una sorta di passione invincibile – senile?.
Andrea Camilleri, Una lama di luce, Sellerio, pp. 265 € 14

Letture - 99

letterautore

Corretto – Il politicamente corretto attacca il politicamente scorretto come troppo facile, opportunista, conformista. È esercizio facile, di speciale ha solo che emerge vent’anni dopo “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes. Ma la tenzone è aperta, su “La Lettura”, da Sandro Modeo, che non è un opportunista, e forse nemmeno politicamente corretto (Modeo ce l’ha col “Foglio”: sarà una querelle tra giornalisti?). Ma il conformismo è corretto o scorretto?

Dante – È giudice definitivo e senza appello – giudice morale. Montherlant lo apprezzava per questo. Maestro di disprezzo per chi che merita disprezzo, e di rispetto e ammirazione per chi merita rispetto. A prescindere dalla fondatezza storica dei suoi giudizi: li motiva incontestabilmente.

È scienziato e cosmologo, oltre che teologo e filosofo, uomo politico, poeta. Molti studiosi recenti convergono su questo aspetto. Mary Ackworth Orr, Mark Peterson (“Dante and the 3-sphere” è consultabile online). Robert Osserman, “La poesia dell’universo”, Horia-Roman Patapievici, “Gli occhi di Beatrice”.

Si può dire giallista, perché no, del genere noir. La maggiore dantista inglese di metà Novecento è stata Dorothy Sayers, dopo T.S.Eliot (con Pound naturalmente) e C.S.Lewis, la scrittrice di gialli. Buona cattolica e traduttrice della “Commedia”, che considerava il suo miglior lavoro. La bibliografia dantesca di D. Sayers è impressionante: la traduzione delle tre cantiche e tre raccolte di saggi, ”Il poeta vivente nei suoi scritti”, 1954, “Gli eredi e i predecessori”, 1957, l’anno della morte, “La poesia della ricerca e la poesia dell’affermazione”, postumo nel 1964.
Questi studi contano molto nelle università britanniche. Nessuno degli studi danteschi di D.Sayers è stato tradotto.

Kerouac – Esemplare si ritiene di scrittura da strada, un graffitaro precoce. L’equivoco vale per lui più che per Allen Ginsberg e altri beatnik, perché impersona il bello giovane maledetto della pubblicità. La scrittura di strada è infatti ammiccamento puramente pubblicitario. Lo spirito dell’epoca si voleva peraltro nomadico e trasgressivo: l’aneddotica beat è quindi sul consumo di benzedrina, peyote e alcol, e sulla promiscuità, ma “eravamo governati”, dirà Carolyn Cassady, moglie di Neal, madre di tre dei suoi figli, e amante occasionale del suo miglior amico e ospite Kerouac, “da ideali vittoriani”.

Tutta la scrittura beat è colta e anzi iperletterata, anche dei minori – Corso, Ferlinghetti, lo stesso Cassady, e Edie Parker, la prima moglie a vent’anni di Kerouac. Di autori vivi solo in letteratura, lettori onnivori, dall’enorme capacità di assorbimento. Kerouac non ha fatto altro che scrivere. Ha scritto sempre. Dapprima in francese: un paio di romanzi e alcuni racconti rimasti inediti. Scrisse il primo libro poi pubblicato, postumo, “Gli ippopotami”, nel 1941, a diciannove anni, con Burroughs, il più sofisticato, cerebrale (benché decerebrato) scrittore americano di metà Novecento. Ma ne aveva scritto già un altro, ancora inedito, da solo, “The Sea is my Brother”. Dopo essere emigrato a New York col fine esclusivo di scrivere. Dove frequentava solo letterati (Gore Vidal si vanta nel sue memorie di essersi “fatto” il bel giovane, “davanti e didietro” - il che sarebbe irrilevante, se non dicesse che negli Usa, con tutte le vite romanzate, la strada, i fumi e le revolverate, i letterati se la fanno coi letterati perfino in quelle cose).

A lungo, e più per i beatnik, ha imperato in letterartura il vitalismo americano (Whitman, Twain), dei poeti che dai quindici ai vent’anni sono stati braccianti, taglialegna, lavapiatti, in vari stati dell’unione, ebanisti, macchinisti, delle ferrovie, di teatro, di cinema, e cacciatori, di donne e di uomini, e sempre duri, anche nella deiezione: chierichetti e ladri d’elemosine, bevitori, sniffatori, assassini di vecchi indifesi. L’eroe dumeziliano in autostrada, meglio sulla Cadillac, col pisello per spada e un pieno di avventure. Di cui non s’avverte la vertigine, perché sono iperletteratura.
La miniera inesauribile di foto di cui si facevano oggetto li documenta tutti belli, anche Ginsberg, ben nutriti, Kerouac frequentava la Columbia University gratis in quanto giocatore emerito di football, ben vestiti, blasés. Per nulla maledetti, ma determinati concorrenti al titolo.

Ci sono varie “maniere”, la più proficua è quella negata, superata, sbriciolata. Inventata: “Il primo pensiero è il migliore” di Kerouac pare una scemata ed è business, prosa spontanea senza Freud. Partendo dalla professata “new-old Zen-Lunacy poetry”, coi mezzi haikù che infiorettano “Sulla strada” e i derivati, “dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo”, “e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro”, “è il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio”, “tutto va bene, Dio esiste, noi abbiamo la nozione del Tempo”. Con esiti diversi dalle intenzioni – se si legge ancora con piacere “Sulla strada” o, come a Cannes ultimamente, se ne apprezza il film “a prescindere” (mentre Parigi ne espone autografi e cimeli). Kerouac ha creato ritmi e linguaggi nuovi, che hanno nutrito la seconda metà del secolo, avanguardia tra le avanguardie, discreta e all’apparenza incolta, non accademica cioè, ma efficace. Né è minor esito che, con Budda e l’haikù, abbia dato materia alle avanguardie europee dieci anni dopo.

Lettura – “Ogni 7 secondi, 24 ore su 24, qualcuno nel mondo sceglie un romanzo di John Locke”, dice la pubblicità Rizzoli. Non sapendone niente, John Locke non sarà uno scherzo?, uno si sente a disagio. Ma la grafica fa di più, ne intima la lettura con la canna della rivoltella che una procace figura punta verso il lettore. È così, e si capisce che la lettura sia in confusione. Molti di più magari leggono, ma molti di meno apprezzano.

Ora si vuole rapida – il genere giallo (Camilleri, re del genere, si legge in due ore). Prima è stata politica – il neo realismo. Precedentemente si voleva calligrafica – rondismo, etc. O di avanguardia – di ricerca, innovativa.
È da molto tempo che non va più: non ha lettori – acquirenti – quella saporosa, al limite di una sola riga. Quella che sollecita l’immaginazione lasciando un’impronta – il classico. Ora non si vuole un’impronta ma un passatempo: si legge come si fa un puzzle, o una partita a scopa. Dal tempo dell’editoria come industria: il lettore è un consumatore, che va catturato subito e comunque, anche con prodotti di scarto, purché rientrino nel trend.
Il giallo è la scrittura rapida per eccellenza, anche dove non c’è sorpresa, né un mistero da risolvere, giudiziario, criminale, magica. Borges disse il giallo l’erede del grande romanzo dell’Ottocento. Qualcuno sì, molto sono irrileggibili. Ma tutti sono rapidi, non vogliono molta attenzione, non incidono nella memoria.

letterautore@antiit.eu

domenica 17 giugno 2012

Draghi con Obama contro Merkel

Una Francia tutta socialista, dalla presidenza alle due Camere, ai cantoni e alle città, e all’altro estremo una Grecia a governo europeista ma con un forte condizionamento anti-europeista. La situazione sembra accrescere la confusione, ma si muove nella direzione di lasciare Angela Merkel sola. È in questo quadro, già delineato nei giorni scorsi, che Mario Draghi, presidente sempre più solitario della Banca centrale europea, avrebbe armato il missile forse decisivo contro lo sbarramento tedesco nella crisi: un’azione concertata con la Federal Reserve per ridurre lo spread sui titoli europei che da troppo tempo favorisce il debito tedesco.
Draghi avrebbe deciso capitalizzando sul suo stesso isolamento a Francoforte. E sull’impazienza della presidenza americana. Sfidato pubblicamente da Weidmann (Bundesbank) con l’intervista non contestabile ai grandi giornali europei, risponde con un’alleanza, non contestabile benché inedita, con la banca centrale Usa. Obama ha già visto cadere nel vuoto troppi suoi appelli alla ripresa in Europa. E ora, in piena campagna per la rielezione, ne vede influenzati negativamente i sondaggi. Draghi e Bernanke, il presidente della Federal Reserve, la banca centrale Usa, non possono agire di concerto, ma di conserva sì.

Quella brutta Grecia che è tutti noi

Vincerà la Germania – “non c’è partita”, come suole dirsi. Vincerà con merito, perché è una delle squadre che gioca meglio – veloce, non supponente. Ma le simpatie in questo Germania-Grecia, una sorta di Europeo del destino, vanno sicuramente alla Grecia, un po’ ovunque in mezza Europa, compresa qualche scheggia del blocco tedesco-scandinavo, nel calcio come nella partita politica, giacché la Grecia vuole restare anche nell’euro: Atene sarà ancora strapazzata da Berlino, ma sarà un altro Europeo, un’altra Europa. Sono troppi quelli che non ne possono più di “questa Germania”, che ha messo in ginocchio l’Europa con la sua solita pretesa di virtù – la storia delle catastrofi europee per mano della Germania è una storia di virtù (meriti, purezze, rivincite).
La Grecia – la squadra – è sgraziata, non ha classe, corre male, e tuttavia alimenterà fino a venerdì la segreta speranza che riesca in un altro miracolo, come contro la Russia. Non è solo la sindrome Davide contro Golia, la simpatia che suscita il debole contro il forte. È che il mondo non ne può più, di nuovo, di una certa Germania – forse, a questo punto, la sola Germania. “Bisogna tenere conto che in Germania l’economia è ancora un ramo della filosofia morale”, filosofeggia Monti. Non è vero, non è mai stato vero: in centocinquant’anni, poco meno, di storia tedesca, la Germania s’è mangiati quasi tutti i trattati sottoscritti, e ha il record, nella Storia Diplomatica o dei Trattati, di furbizie e tradimenti. La visione internazionale di questa Germania – della Germania, a questo punto? – è circoscritta ai confini. L’ignobile arbitro Eriksson, uno svedese, che nega alla Grecia un rigore evidente, per ammonire Karagunis, la punta ellenica, che si faceva il segno della croce, giusto per impedirgli di giocare contro la Germania, la dice tutta su questo mondo: non vuole primeggiare, vuole annientare.

Il mondo com'è - 98

astolfo

Fratello Hitler – Walter Benjamin, “Senso unico”, così vedeva arrivare la barbarie nel 1928: “L’attaccamento alla stabilità d’anteguerra, perduta da tempo e definitivamente, è così rigido che annienta, anche davanti a un pericolo estremo, l’uso propriamente umano dell’intelligenza, cioè la previsione. Si forma un circolo delle incapacità: incertezza e anche perversione dell’istinto vitale, impotenza e declino dell’intelligenza”.

“Fratello Hitler”, l’antifrasi di Thomas Mann, non è ironica, e non è diminutiva. Lo è politicamente, ma non nella storia. Non ne fa un imbizzarrimento – il cavallo imbizzarrisce per paura, sia pure di un’ombra.
La colpa del resto la Germania ha sempre voluto addossata allo Stato, sia pure la mite Repubblica Federale renana. Fino all’ultima reviviscenza della questione, quando nell’estate del 1995 riemerse la questione della schiavitù nelle aziende tedesche grandi e piccole a partire dal 1942. Le grandi aziende, Mercedes, Siemens, Deutsche Bank, Karstadt, Volkswagen, con la famigerata Farben, che “rinacque” dopo l’unificazione per rivendicare i suoli ex Germania Est di cui era la più grande proprietaria durante la guerra, misero al lavoro alcuni storici, che produssero un volume di 558 pagine, per dimostrare che la colpa era del regime totalitario. Di cui la Repubblica Federale doveva considerarsi l’erede, se non moralmente e politicamente, sul piano della legittimità. Tesi non contestata dalla nuova Germania unita, che pagò ulteriori risarcimenti ai sopravvissuti e agli aventi causa, al posto dei gruppi coinvolti.

Intellettuale - I conservatori vogliono gli intellettuali élites mascherate. E lo sono.

Il popolo, non a Marx, è all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”.

“Una vittoria soprattutto intellettuale” disse il Blitzkrieg di Hitler Marc Bloch, storico francese volontario di entrambe le guerre, prima ovviamente della vergogna della Soluzione Finale, e della spartizione.

Gli intellettuali fatalmente sono borghesi, accumulano. E quando diventano comunisti, come devono, si odiano – non si sa se più per essere comunisti o per essere borghesi, ma si odiano. Diventano quindi feroci. Dev’essere come l’odio di sé ebraico, o il Sud dell’antimafia, di chi odia la rappresentazione che di se stesso se ne fa – lui stesso fa.

Italia – L’identità è un fatto e un concetto. Quello di cui si discute, personale o nazionale che sia, è un concetto. L’Italia è una nazione con una lingua, e un sistema politico e produttivo. Che bene o male lavora e vende, ed è uno dei paesi più ricchi del mondo. Con rischi, ma non tali, nell’immediato, da gettarlo nella disperazione-inerzia. L’identità è in crisi perché è in crisi chi la rappresenta, la agisce: lo scrittore supponente che si scandalizza dei consimili superbi e superficiali, il giornalista bizzoso oppure opportunista che negli altri vede pregiudizi e compromessi, essendo un denunciatore. Gli intellettuali sono stanchi. In primo luogo di se stessi.
Il Paese che bene o male lavora e vende, e va alle Maldive, è quello che era prima. Ma gli intellettuali, che vengono da brutte avventure e brutte abitudini, e non le hanno rinnegate, nemmeno sotto le forme autoassolutorie della confessione, vedono nero. Tutto è vizio in Italia, anche le virtù. Ma c’è un vizio di origine.
Quale? Proviamo: è l’ipocrisia. Il vizio del linguaggio doppio - quello per cui si chiama democrazia il suo opposto, qualsiasi cosa sia, e il resto viene di conseguenza. Questo vizio non c’è nei “Caratteri Originari” dell’Enciclopedia Einaudi, e quindi dev’essere recente, forse proprio togliattiano, come molti vogliono. Il vizio per cui si rivede la storia recente ma con limiti. A lun go si è potuto parlare in Italia Papon e del suo amico Mitterrand, che era socialista, ma non delle foibe titoiste (“fanno il gioco della destra”, Rossana Rossanda), o dell’eccidio di Porzûs. Non si parla delle stragi, per le quali nessun prefetto, nessun questore, nessun ministro o sottosegretario all’Interno ha pagato, anche perché la magistratura ha inquisito di malavoglia. Non si parla naturalmente della giustizia politica, il fatto più turpe. Si può parlarne, ma solo della Turchia, che peraltro la nega, non di quella italiana che invece è dichiarata (procuratore Borrelli, presidente Scalfaro, e i tanti giudici loro creature, De Magistris, Woodcock, Ingroia, etc.). Nemmeno della Grande Guerra si può parlare, nella quale 800 mila giovani Italiani sono morti per liberare 3 o 400 mila Italiani, che forse ne avrebbero fatto in cuor loro a meno - per non dire di Caporetto, che dopo tante battaglie è slovena. Il cammino dell’Italia, la banca, l'industria, la grande politica e l’immagine del Paese (l’identità è l’immagine), non si è più ripresa da quella grande idiozia, e il giolittismo che non aveva saputo contrastarla, cioè la democrazia, “imbelle, ipocrita e corrotta” a parere del cavalier Mussolini, ne fu la prima vittima.

Occidente – Il suo radicamento nella “tradizione giudeo-cristiana” lascia perplesso Harold Bloom, “Gesù e Yahvé”. Che lo situa nel quadro dell’alleanza tra gli Usa e Israele. Le due tradizioni non hanno, dice, punto d’incontro: i vangeli sono greci, scritti da ebrei dell’ellenismo.
A meno di una sorta di saprofitismo endorganico del cristianesimo sull’ebraismo.
Nell’antisemitismo questo radicamento è doppiamente aborrito. Come una debolezza del cristianesimo, che meglio farebbe a tenersi stretto appunto alla grecità, e come una forma di saprofitismo della chiesa, del sacerdozio, del clericalismo. Invertendo però H.Bloom, sostenendo che l’alleanza con Israele indebolisce l’Occidente.

Religione - Che le religioni siano uguali è un sofisma, trova il laico Quinet. Sbaglia Montesquieu, cui risale l’errore: la religione non si uniforma alla politica. Ha ragione Quinet, con Constant e Tocquevile: “Ovunque, sotto tutti i regimi politici, la religione è la legge delle leggi, sulla quale le altre si ordinano”.
È stata l’unica libertà fino alla Magna Charta, l’antica libertà romana di culto, ed è su di essa che i diritti si sono innestati, di coscienza, espressione, associazione, congregazione, stampa. Montesquieu ritiene la religione accessoria: più la religione è severa più le leggi sono lassiste, dice, e il fatalismo trae dal dogma, il libero arbitrio dal codice. Ma la sostanza è la stessa, della religione e la vita civile. L’Inghilterra si ordina nel Seicento sulla chiesa episcopale, aristocratica, nota Quinet, gli Usa su quella presbiteriana, ugualitaria. L’Italia si ordina sulla democrazia plebiscitaria e anarcoide dell’ecclesìa.
Può essere un’altra forma del tribalismo. Bologna si governava bene col papa, o Siena, e Ancona, che rivaleggiava con Amsterdam, pure in libertà. Mentre gli americani sono democratici come gli inglesi, gelosamente uguali fra loro spietati fuori, ai giapponesi hanno spianato pure il cervello.

Sinistra destra – “Cyberliberisti di destra, come Zuckerberg, e di sinistra, come Assange”, Carlo Formenti dice sul “Corriere della sera” uniti nella “fede cieca nella bontà dell’informazione come dispensatrice di verità e libertà”. E perché non Zuckerberg di sinistra e Assange di destra? Una controinformazione che è, senza alcun quadro di riferimento, disinformazione. Mentre Zuckerberg dà voce al popolo basso e all’indistinto, o al signor chiunque.
L’equivoco è nell’appartenenza quando non c’è un quadro di riferimento – culturale, sociale (Di Pietro è certamente di destra, che si pone invece a sinistra perché Berlusconi non l’ha fatto nel 1994 ministro della Giustizia). Ma di più lo è nell’ambiguità dell’informazione, che da valore universale è scaduta nella manipolazione. Via, perversamente, un “di più” d’informazione: fonti riservate, indiscrezioni, e manipolazioni d’ogni sorta, comprese le pause e i sospiri delle intercettazioni.

astolfo@antiit.eu

L’Italietta è folle ma impenitente

Formidabile scemenzario. Dossi sceglie 39 progetti, sui 296 che concorsero al primo bando per il Vittoriano a Roma, e ne fa un prontuario di follia. Che dedica a Lombroso. Casi di “cretinismo o di pazzia”, dice nella dedica. Ma all’insegna della “romanità”, il monumentale, con cui si volle chiudere il Risorgimento. Federico Zeri, nella nota all’unica edizione dei “Mattoidi”, nel 1985, come strenna del banchiere Gianfranco Imperatori, notando le professioni dei progettisti, impiegati, insegnanti, cavalieri, e architetti di nessun nome, ci vede uno spaccato di una piccola borghesia tanto vuota quanto impenitente che avrebbe “fatto l’Italia”.
Carlo Dossi, I Mattoidi

L’ipersfera di Dante

Il direttore dell’Istituto rumeno di Cultura, già docente di Fisica, fa un viaggio corroborante nei primi commentari di Dante, e più in quelli scientifici. A partire da Antonio Manetti nel Quattrocento, con Vellutello nel Cinquecento e il primissimo Galileo nel Seicento, per finire con i matematici contemporanei Mark Peterson, “Dante and the 3-sphere” e Robert Ossermann, “La poesia dell’universo”. Con alcune primizie per lo stanco dantismo italiano: le illustrazioni di Phoebe Anna Traquair, o gli studi danteschi della cosmologa Mary Ackworth Evershed Orr.
L’universo di Dante è quello che oggi si chiama una ipersfera. Dante non poteva saperlo, argomenta Patapievici, ma “lo sapeva”, e per questo fu subito studiato dagli scienziati: “Era un sapiente, e in quanto tale possedeva l’intera cultura scientifica, filosofica e teologica del suo tempo”. Con qualcosa in più, giacché il modello della cultura di Dante differisce da quello della cultura del suo tempo: “Dante non era probabilmente consapevole di questa differenza”, ma essa emerge, “metaforicamente e tecnicamente”, dai canti XXVII e XXVIII del “Paradiso”, in cui descrive la sua ascesa oltre il Nono Cielo.
Straordinario? Ma non casuale: l’immagine del mondo dell’uomo medievale gli era familiare, arguisce Patapievici, perché ci credeva, mentre l’immagine del mondo del nostro mondo, benché tanto più perfezionata e precisa, non è nostra: “È come se il nostro mondo, da quando noi ci siamo dimenticati di Dio, avesse cessato di avere un volto”.
Horia-Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice, Bruno Mondadori, pp. 100 ill., € 10