“Io come Borsellino”, dice sfrontato il giudice Ingroia, che in vent’anni non ha trovato uno solo dei tanti attentatori allo stesso Borsellino e alla folta scorta. Giustificandosi col dire che il giudice l’ha assassinato lo Stato. Dopodiché se ne va in Guatemala. Lasciando il Capo dello Stato a professarsi innocente. Un Capo dello Stato. Uno rispettabile come Napolitano. Sull’autorità di un pentito debole, Spatuzza, e di uno falso, Ciancimino figlio.
Il giudice ridens si professa Borsellino col plauso dei fratelli Borsellino. Che, in significativa antitesi con la compostezza della vedova e dei propri figli del giudice assassinato, sulla morte del congiunto hanno impiantato senza altro merito una carriera politica. Contro Napolitano, e quindi contro il loro stesso partito. Per la ribalta, essendo stato a loro tutto facile grazie al sacrificio di Paolo.
Prima di partire Ingroia incrimina Dell’Utri, ancora una volta, il suo punching-ball, un siciliano remissivo. Seppellendolo sotto palate di fango dosate, a mezzo di cronisti fidati. Una al giorno: un giorno la notizia di reato, un giorno la villa, un giorno Santo Domingo, un giorno i conti correnti, poi ci sarà il riciclaggio, le tangenti, la droga - manca solo il pentito.
Tutto ciò è giustizia? Si dice che Palermo coi morti si diverte, ma questo non è nemmeno teatro, è solo squallore. Con un Procuratore Capo di Palermo, Messineo, che ogni giorno parla su “Repubblica”, con lettere, dichiarazioni, commenti, e interviste. Ha idea di chi ha ucciso Borsellino? Gli interessa? Ha letto “il” Messineo di cui porta il nome?
Per il resto, la mafia non c’è a Palermo? O c’è?
sabato 21 luglio 2012
Genovesi in Versilia
La Bentley non sgomma Anche se la guida un russo ricco – ma i russi ricchi non hanno lo chauffeur? Né l’autore giocava a palla in strada da bambino, se è nato nel 1974: nel 1980 c’erano più macchine di oggi a Forte dei Marmi. Si ricorda male. Per il resto il solito bozzettismo toscano. Se non che si ride, ogni tanto. Anche per il brio, Genovesi ha il ritmo dell’ora di svago – fino a metà libro, quando deve mettere su il cipiglio, e se la prende con Briatore, Buffon, e i russi.
Bizzarra collana questa “Contromano”, che rinverdisce le conversazioni dei vecchi villeggianti. Genovesi vuole la nostalgia il forte di Forte dei Marmi. Che invece è sempre viva – un giorno faranno nostalgia i deprecati russi, come già il deprecato Avvocato, le boutiques inaffrontabili, le villone. È nostalgia quella del palio dei Micci, del lago di Porta, che nessuno dei viventi ha mai visto (si prosciugò con la bonifica), e del famoso “salmastro”, che è invece l’umidità ascendente? Il più di questi luoghi resta non detto. La versiliesità è in chiave Forte dei Marmi, elitista: Genovesi la restringe a una piccola porzione del vicariato di Pietrasanta, che però dovrebbe escludere Forte dei Marmi, e del bacino del fiume. Tanto snobismo sulla Versilia a opera di un Genovesi, invece, che argomento sprecato - di uno che scrive “strinto” per “stretto”, che in Versilia non usa. O il professore di filosofia che portava il liceo a lezione sulla spiaggia. Un professore di nome Morabito.
Fabio Genovesi, Morte dei Marmi, Laterza, pp. 141 € 12
Bizzarra collana questa “Contromano”, che rinverdisce le conversazioni dei vecchi villeggianti. Genovesi vuole la nostalgia il forte di Forte dei Marmi. Che invece è sempre viva – un giorno faranno nostalgia i deprecati russi, come già il deprecato Avvocato, le boutiques inaffrontabili, le villone. È nostalgia quella del palio dei Micci, del lago di Porta, che nessuno dei viventi ha mai visto (si prosciugò con la bonifica), e del famoso “salmastro”, che è invece l’umidità ascendente? Il più di questi luoghi resta non detto. La versiliesità è in chiave Forte dei Marmi, elitista: Genovesi la restringe a una piccola porzione del vicariato di Pietrasanta, che però dovrebbe escludere Forte dei Marmi, e del bacino del fiume. Tanto snobismo sulla Versilia a opera di un Genovesi, invece, che argomento sprecato - di uno che scrive “strinto” per “stretto”, che in Versilia non usa. O il professore di filosofia che portava il liceo a lezione sulla spiaggia. Un professore di nome Morabito.
Fabio Genovesi, Morte dei Marmi, Laterza, pp. 141 € 12
venerdì 20 luglio 2012
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (136)
Giuseppe Leuzzi
Sicilia
Che il fallimento (default) dell’Italia cominci dalla Sicilia è da ridere. Ma i siciliani ne sono convinti. Che la Sicilia è in default. E che il default dell’isola coinvolgerà l’Italia.
L’isola è per gli isolani l’avanguardia o laboratorio dell’Italia: delle formule politiche, della corruttela (la “linea della palma” di Sciascia), della giustizia, della letteratura, e anche della lingua – perché no, ma nel Duecento. Non si può dire che la Sicilia non si diverta.
Ma questo accentua la grevità lombarda. Si prenda il default. Il “Corriere della sera” e il governo lombardo lo hanno subito dichiarato. Costringendosi poi a smentirsi, dopo la tirata d’orecchi di Napolitano al Quirinale, con l’altro lombardo Grilli, il plumbeo ministro dell’Economia. In un giochetto al massacro non senza irresponsabili conseguenze per l’Italia sui mercati.
Anche l’altro lombardo Formigoni ha irriso la Sicilia. Prestandosi ai facili sarcasmi su chi è più corrotto. Ma è vero che in questo “chiama-e-rispondi”, come si dice in toscano, è tutta la miseria dell’Italia, o quasi tutta..
Santo Meli Dumas lo ricorda ne “I garibaldini” sui venticinque anni, “biondo, con gli occhi azzurri, ben tagliato, di statura mediana”. Lo scrittore si era opposto alla sua fucilazione. Santo Meli era uno dei tanti insorti di Palermo che fecero poi la vittoria dei Mille, ma i borbonici lo accusavano di furto, e il garibaldino generale Stefano Turr voleva aveva deciso di fucilarlo per dare l’esempio. Su pressione di Dumas, decise poi di mandarlo alla Pilato dalle autorità siciliane, perché decidessero loro del “loro fratello”. E così Santo Meli fu fucilato.
Dumas trascrive una conversazione con “alcuni ufficiali” dei Mille. A proposito dell’incontro fra i popoli che la spedizione si proponeva. Gli ufficiali si vedevano parte di una razza “latina pura” Mentre i siciliani consideravano di razza latina ma mescolata coi “saraceni”. Non era un’osservazione innocua, prova ne sia che Dumas la riporta.
Dell’Utri non è simpatico. Ma “ogni volta che vengo qui”, dice, “penso di essere un’altra persona”. Qui a Palermo, la sua città.
Lo dice naturalmente da palermitano – come Epimenide cretese, quello secondo il quale tutti i cretesi erano bugiardi? Ma, purtroppo, dice la verità: nessun dramma a Palermo, solo commedie, con scambi di ruoli, per questo non c’è catarsi.
Dell’Utri indagato a Palermo per estorsione a Berlusconi non fa però ridere. Non “la Repubblica”. Francesco Merlo interminabile lo assoggetta alla dialettica “servi-padroni”. Da siciliano, benché di Parigi – e della famiglia ducale?
Palermo vuole, com’è noto, che sia lo Stato il mandante delle stragi del 1992 e del 1993. Ma lo Stato impersona in Dell’Utri.
Ma, poi, neppure lo Stato Palermo vuole reo. La città voleva sfruttare il ventennale delle stragi Falcone e Borsellino, come una qualsiasi soubrette, e c’è riuscita, sempre al proscenio. Ora ha un altro anno di celebrazioni, per le stragi del 1993 nel continente. Anche i morti servono a Palermo per divertirsi.
L’odio-di-sé
Marco Rovelli, ”Il contro in testa”, esordisce con un mea culpa: “Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conocevo, temevo che non sarei stato altro da lei”.
Tutto falso. Non c’è madre secca e muta. Le Apuane non sono sterili e infeconde - Rovelli narra di Massa e Carrara. E il vuoto non esiste. Sono proiezioni adolescenziali, il rifiuto di sé e del mondo - che tra l’atro qui non arricchiscono la memoria, benché Rovelli la improvvisi solerte e ora riconoscente. Ma sintetizza bene il rifiuto dell’emigrato, fisico e/o intellettuale. Dello sradicato. Che proietta sull’esterno le proprie insufficienze (rabbie) – “Non riuscivo a capire nemmeno me stesso, per la verità”, aggiunge lo stesso Rovelli.
Si deve a due storici recenziori e non italiani, Nelson Moe e Marta Petrusewicz, la segnalazione del ruolo dell’emigrazione politica del ’48, napoletana, palermitana, pugliese, nella reazione del “Sud”. Di luoghi e popolazioni immorali, inospitali, ingovernabili. Un rilievo in questo senso di De Sanctis, autore pure studiatissimo, già nel 1855 è stato recuperato solo da Moe - così come le lettere terribili di e a Cavour degli incaricati dell’unificazione a Napoli e Palermo. Lo stesso l’autoescluesone di De Sanctis nel 1860 dalla “Consorteria” che Cavour pose al governo di Napoli, guidata da Silvio Spaventa, capo della polizia durante la precedente luogotenenza Farini.
De Sanctis non era il solo, si comincia a sapere, a giudicare questi esuli prevenuti, con un pregiudizio più violento di quello dei cavourriani. Successivamente Benedetto Croce, di cui Spaventa era zio e tutore, denuncerà nel 1919, nel saggio “I Poerio”, un’opera riedita ora da Galasso, un moralismo ora “superiore, ma astrattamente superiore al paese in cui gli toccava di operare, ora estraneo e ignaro dei problemi reali di questo”.
Mafia & Antimafia
“Il gap di statualità che chiamiamo mafia”: Salvatore Lupo, storico della mafia ne fa questa illuminante sintesi in apertura a “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile”:.
Una “parola nuova”, prosegue, postunitaria cioè, che “nasce da un’esigenza di legalità nuova”. Questo è meno persuasivo. La legalità è unica - non ce n’è mai stata la possibilità ma è da dubitare che ci possa essere una “legalità mafiosa”. E non è in progress, da uno stato meno legale e uno più legale.
L’onorevole Granata, ex neofascista, che la Commissione parlamentare antimafia concentra su Carrara, in fondo è uno logico: se la mafia ha conquistato il Nord, perché non l’antimafia? Da Carrara la vista è bella. E poi un mondo si apre, il mondo.
Chissà se l’ex ministro Romano è un mafioso. Non lo sapremo mai. Perché è stato indagato dalla Procura di Palermo. La quale prima ha proposto l’archiviazione, nel 2005. Poi l’ha riproposta nel 2009. E ora, nel 2012, sempre per i “fatti” del 2001, invece ha chiesto una condanna a otto anni. Ma otto anni per mafia non sono pochi?
Il giudice Nino Di Matteo, che voleva Romano condannato, lo ha detto “intraneo” alla mafia. Non solo la mafia a Palermo, anche l’antimafia si diverte.
A margine del processo a Romano, Felice Cavallaro deve arrabattarsi l’altro ieri sul “Corriere della sera” per farci capire che i cattedratici palermitani ex Pci, Giovanni Fiandaca e Costantino Visconti, già “consiglieri eccellenti di tutti i magistrati antimafia”, hanno con gli stessi “negli ultimi tempi spesso qualche corto circuito”. Il coraggio a Cavallaro non manca, e allora perché non ci dice di che si tratta? Mafia, antimafia?
Il giorno dell’assoluzione di Romano Fiandaca laureava con altissimi voti ed elogi Ida Cuffaro, figlia dell’ex presidente della Sicilia condannato per concorso esterno in associazione. La quale vuole fare il giudice.
Lo dice Dell’Utri ma è vero. Rispondendo lusingato a una giornalista di “Repubblica” - che dopo l’adescamento si occuperà di renderlo reo di ogni turpitudine nelle domande: “Quest’indagine nasce solo dall’annuncio della discesa in campo di Berlusconi. Mica penserà che è un caso, la solita coincidenza? Questo è un processo politico e c’è poco altro da aggiungere”. L’indagine è di Ingroia contro lo stesso Dell’Utri per estorsione a Berlusconi.
Qualcosa da aggiungere però ci sarebbe: è un processo non contro Berlusconi, non possono mica condannarlo, ma per la carriera politica di Ingroia.
Sulla mafia bisogna ricredersi. Era rozza e stolida, è furba e sofisticata.
Sudismi/sadismi. Montanelli a colloquio con Mario Castiello il 25 ottobre 1966 dà lo spunto a Andrea Cangini, “La Nazione” del 19 luglio, di dire che “sociologicamente parlando, la mafia siciliana sta alla politica italiana come la bramosia di potere sta alla natura umana”. Ma Castiello non era un sociologo: era l’ex capo della segreteria politica del senatore democristiano Merzagora, noto affarista. Divenuto in proprio, come consigliere di Stato, brasseur d’affaires. Era Castiello che nel 1974 prospettava a Montanelli i soldi dell’Eni, di cui era diventato consulente, per finanziare “Il Giornale” - prima che s’intromettesse Berlusconi.
Poi Cangini s’allarga. Cita un imprecisato “Dizionario di politica”, secondo il quale “più o meno tutta la classe politica liberale vanta legami con la mafia”. E sir Rennel O’Rodd, che sovrintendeva all’Amgot, l’amministrazione alleata nel 1943-45, cui fa dire che “le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un suo uomo-ombra” per fare il sindaco. Mentre O’Rodd ha scritto, nella prefazione al libro di G.R. Gayre, “Italy in transition”, 1946, un po’ confusionariamente: “La maggioranza dei comuni era lacerata da gelosie personali e faide e aveva enormi difficoltà a proporre dei nomi. Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali caddero nella trappola di scegliere in sostituzione i primi nomi che venivano proposti oppure seguire il consiglio d’interpreti che si erano accodati avendo imparato un po’ d’inglese negli Stati Uniti. I risultati non erano sempre felici, le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un uomo-ombra il quale in uno o due casi era cresciuto in ambienti di gangster americani”.
Ma non è finita, ci sono ancora Cossiga e Panebianco. Quest’ultimo per aver chiesto il commissariamento del Sud – ma l’avevano chiesto anche Bobbio e Galli della Loggia. L’ex presidente della Repubblica per aver detto che la mafia “è parte del tessuto sociale e culturale del popolo siciliano, come la ‘ndrangheta lo è di quello calabrese e la camorra di quello napoletano”.
leuzzi@antiit.eu
Sicilia
Che il fallimento (default) dell’Italia cominci dalla Sicilia è da ridere. Ma i siciliani ne sono convinti. Che la Sicilia è in default. E che il default dell’isola coinvolgerà l’Italia.
L’isola è per gli isolani l’avanguardia o laboratorio dell’Italia: delle formule politiche, della corruttela (la “linea della palma” di Sciascia), della giustizia, della letteratura, e anche della lingua – perché no, ma nel Duecento. Non si può dire che la Sicilia non si diverta.
Ma questo accentua la grevità lombarda. Si prenda il default. Il “Corriere della sera” e il governo lombardo lo hanno subito dichiarato. Costringendosi poi a smentirsi, dopo la tirata d’orecchi di Napolitano al Quirinale, con l’altro lombardo Grilli, il plumbeo ministro dell’Economia. In un giochetto al massacro non senza irresponsabili conseguenze per l’Italia sui mercati.
Anche l’altro lombardo Formigoni ha irriso la Sicilia. Prestandosi ai facili sarcasmi su chi è più corrotto. Ma è vero che in questo “chiama-e-rispondi”, come si dice in toscano, è tutta la miseria dell’Italia, o quasi tutta..
Santo Meli Dumas lo ricorda ne “I garibaldini” sui venticinque anni, “biondo, con gli occhi azzurri, ben tagliato, di statura mediana”. Lo scrittore si era opposto alla sua fucilazione. Santo Meli era uno dei tanti insorti di Palermo che fecero poi la vittoria dei Mille, ma i borbonici lo accusavano di furto, e il garibaldino generale Stefano Turr voleva aveva deciso di fucilarlo per dare l’esempio. Su pressione di Dumas, decise poi di mandarlo alla Pilato dalle autorità siciliane, perché decidessero loro del “loro fratello”. E così Santo Meli fu fucilato.
Dumas trascrive una conversazione con “alcuni ufficiali” dei Mille. A proposito dell’incontro fra i popoli che la spedizione si proponeva. Gli ufficiali si vedevano parte di una razza “latina pura” Mentre i siciliani consideravano di razza latina ma mescolata coi “saraceni”. Non era un’osservazione innocua, prova ne sia che Dumas la riporta.
Dell’Utri non è simpatico. Ma “ogni volta che vengo qui”, dice, “penso di essere un’altra persona”. Qui a Palermo, la sua città.
Lo dice naturalmente da palermitano – come Epimenide cretese, quello secondo il quale tutti i cretesi erano bugiardi? Ma, purtroppo, dice la verità: nessun dramma a Palermo, solo commedie, con scambi di ruoli, per questo non c’è catarsi.
Dell’Utri indagato a Palermo per estorsione a Berlusconi non fa però ridere. Non “la Repubblica”. Francesco Merlo interminabile lo assoggetta alla dialettica “servi-padroni”. Da siciliano, benché di Parigi – e della famiglia ducale?
Palermo vuole, com’è noto, che sia lo Stato il mandante delle stragi del 1992 e del 1993. Ma lo Stato impersona in Dell’Utri.
Ma, poi, neppure lo Stato Palermo vuole reo. La città voleva sfruttare il ventennale delle stragi Falcone e Borsellino, come una qualsiasi soubrette, e c’è riuscita, sempre al proscenio. Ora ha un altro anno di celebrazioni, per le stragi del 1993 nel continente. Anche i morti servono a Palermo per divertirsi.
L’odio-di-sé
Marco Rovelli, ”Il contro in testa”, esordisce con un mea culpa: “Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conocevo, temevo che non sarei stato altro da lei”.
Tutto falso. Non c’è madre secca e muta. Le Apuane non sono sterili e infeconde - Rovelli narra di Massa e Carrara. E il vuoto non esiste. Sono proiezioni adolescenziali, il rifiuto di sé e del mondo - che tra l’atro qui non arricchiscono la memoria, benché Rovelli la improvvisi solerte e ora riconoscente. Ma sintetizza bene il rifiuto dell’emigrato, fisico e/o intellettuale. Dello sradicato. Che proietta sull’esterno le proprie insufficienze (rabbie) – “Non riuscivo a capire nemmeno me stesso, per la verità”, aggiunge lo stesso Rovelli.
Si deve a due storici recenziori e non italiani, Nelson Moe e Marta Petrusewicz, la segnalazione del ruolo dell’emigrazione politica del ’48, napoletana, palermitana, pugliese, nella reazione del “Sud”. Di luoghi e popolazioni immorali, inospitali, ingovernabili. Un rilievo in questo senso di De Sanctis, autore pure studiatissimo, già nel 1855 è stato recuperato solo da Moe - così come le lettere terribili di e a Cavour degli incaricati dell’unificazione a Napoli e Palermo. Lo stesso l’autoescluesone di De Sanctis nel 1860 dalla “Consorteria” che Cavour pose al governo di Napoli, guidata da Silvio Spaventa, capo della polizia durante la precedente luogotenenza Farini.
De Sanctis non era il solo, si comincia a sapere, a giudicare questi esuli prevenuti, con un pregiudizio più violento di quello dei cavourriani. Successivamente Benedetto Croce, di cui Spaventa era zio e tutore, denuncerà nel 1919, nel saggio “I Poerio”, un’opera riedita ora da Galasso, un moralismo ora “superiore, ma astrattamente superiore al paese in cui gli toccava di operare, ora estraneo e ignaro dei problemi reali di questo”.
Mafia & Antimafia
“Il gap di statualità che chiamiamo mafia”: Salvatore Lupo, storico della mafia ne fa questa illuminante sintesi in apertura a “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile”:.
Una “parola nuova”, prosegue, postunitaria cioè, che “nasce da un’esigenza di legalità nuova”. Questo è meno persuasivo. La legalità è unica - non ce n’è mai stata la possibilità ma è da dubitare che ci possa essere una “legalità mafiosa”. E non è in progress, da uno stato meno legale e uno più legale.
L’onorevole Granata, ex neofascista, che la Commissione parlamentare antimafia concentra su Carrara, in fondo è uno logico: se la mafia ha conquistato il Nord, perché non l’antimafia? Da Carrara la vista è bella. E poi un mondo si apre, il mondo.
Chissà se l’ex ministro Romano è un mafioso. Non lo sapremo mai. Perché è stato indagato dalla Procura di Palermo. La quale prima ha proposto l’archiviazione, nel 2005. Poi l’ha riproposta nel 2009. E ora, nel 2012, sempre per i “fatti” del 2001, invece ha chiesto una condanna a otto anni. Ma otto anni per mafia non sono pochi?
Il giudice Nino Di Matteo, che voleva Romano condannato, lo ha detto “intraneo” alla mafia. Non solo la mafia a Palermo, anche l’antimafia si diverte.
A margine del processo a Romano, Felice Cavallaro deve arrabattarsi l’altro ieri sul “Corriere della sera” per farci capire che i cattedratici palermitani ex Pci, Giovanni Fiandaca e Costantino Visconti, già “consiglieri eccellenti di tutti i magistrati antimafia”, hanno con gli stessi “negli ultimi tempi spesso qualche corto circuito”. Il coraggio a Cavallaro non manca, e allora perché non ci dice di che si tratta? Mafia, antimafia?
Il giorno dell’assoluzione di Romano Fiandaca laureava con altissimi voti ed elogi Ida Cuffaro, figlia dell’ex presidente della Sicilia condannato per concorso esterno in associazione. La quale vuole fare il giudice.
Lo dice Dell’Utri ma è vero. Rispondendo lusingato a una giornalista di “Repubblica” - che dopo l’adescamento si occuperà di renderlo reo di ogni turpitudine nelle domande: “Quest’indagine nasce solo dall’annuncio della discesa in campo di Berlusconi. Mica penserà che è un caso, la solita coincidenza? Questo è un processo politico e c’è poco altro da aggiungere”. L’indagine è di Ingroia contro lo stesso Dell’Utri per estorsione a Berlusconi.
Qualcosa da aggiungere però ci sarebbe: è un processo non contro Berlusconi, non possono mica condannarlo, ma per la carriera politica di Ingroia.
Sulla mafia bisogna ricredersi. Era rozza e stolida, è furba e sofisticata.
Sudismi/sadismi. Montanelli a colloquio con Mario Castiello il 25 ottobre 1966 dà lo spunto a Andrea Cangini, “La Nazione” del 19 luglio, di dire che “sociologicamente parlando, la mafia siciliana sta alla politica italiana come la bramosia di potere sta alla natura umana”. Ma Castiello non era un sociologo: era l’ex capo della segreteria politica del senatore democristiano Merzagora, noto affarista. Divenuto in proprio, come consigliere di Stato, brasseur d’affaires. Era Castiello che nel 1974 prospettava a Montanelli i soldi dell’Eni, di cui era diventato consulente, per finanziare “Il Giornale” - prima che s’intromettesse Berlusconi.
Poi Cangini s’allarga. Cita un imprecisato “Dizionario di politica”, secondo il quale “più o meno tutta la classe politica liberale vanta legami con la mafia”. E sir Rennel O’Rodd, che sovrintendeva all’Amgot, l’amministrazione alleata nel 1943-45, cui fa dire che “le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un suo uomo-ombra” per fare il sindaco. Mentre O’Rodd ha scritto, nella prefazione al libro di G.R. Gayre, “Italy in transition”, 1946, un po’ confusionariamente: “La maggioranza dei comuni era lacerata da gelosie personali e faide e aveva enormi difficoltà a proporre dei nomi. Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali caddero nella trappola di scegliere in sostituzione i primi nomi che venivano proposti oppure seguire il consiglio d’interpreti che si erano accodati avendo imparato un po’ d’inglese negli Stati Uniti. I risultati non erano sempre felici, le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un uomo-ombra il quale in uno o due casi era cresciuto in ambienti di gangster americani”.
Ma non è finita, ci sono ancora Cossiga e Panebianco. Quest’ultimo per aver chiesto il commissariamento del Sud – ma l’avevano chiesto anche Bobbio e Galli della Loggia. L’ex presidente della Repubblica per aver detto che la mafia “è parte del tessuto sociale e culturale del popolo siciliano, come la ‘ndrangheta lo è di quello calabrese e la camorra di quello napoletano”.
leuzzi@antiit.eu
Vedere una donna
L’enunciato è ideologico. “Vedere un donna” è il titolo originale. Per un amour fou saffico più ragionato (di fronte lla famiglia, ai pettegolezzi, alle convenienze) che vissuto. Scritto nel 1929, a ventun’anni, non rifinito, rimontato ora dal pronipote Alexis. Il colpo d’occhio è però già quello dei racconti di viaggio, incisivo – il racconto è tutto nella prima riga: “Vedere una donna: solo per un secondo, solo nel breve spazio di uno sguardo”, l’immaginazione è già possessione, le notti insieme saranno superflue.
Annemarie Schwarzenbach, Ogni cosa è da lei illuminata, Il Saggiatore, pp.54 € 10
Annemarie Schwarzenbach, Ogni cosa è da lei illuminata, Il Saggiatore, pp.54 € 10
giovedì 19 luglio 2012
La simulazione è islamica
Avviene ora in Siria come già in Egitto, Tunisia e Libia: i rivoltosi non si dichiarano. Fanno appello alle organizzazioni internazionali e umanitarie in nome dei diritti politici e civili, ma senza alcun impegno e senza neanche dichiarare per conto di quali principi o organizzazioni si battono. Tutti peraltro, in ognuno dei paesi della “primavera” araba, ben dotati di soldi, armamenti e organizzazione. Si suppone, si sa in realtà, da parte dell’Arabia Saudita e quindi degli Usa, ma non si dice. Salvo poi manifestarsi, in Tunisia, Egitto e Libia, emanazioni di un islam sunnita, ovunque retrogrado e talvolta reazionario.
Questo islam si presenta moderato nelle questioni internazionali. E in questa chiave si sarebbe guadagnato la benevolenza Usa. Ma con eccezioni: dove gli Usa si sono illusi di poter imporre il rinnovamento sulla base dei diritti politici e civili, in Afghanistan e Iraq, questo stesso islam è stato violentemente americano. Ciò cera la maggiore incertezza oggi fra le diplomazie: che ne sarà di Israele in un mondo arabo dominato dalle forze islamiche.
La taqyiah, la dissimulazione, è centrale nell’arte politica araba e anche nella religione islamica: è possibile e anzi è consigliabile dissimulare per il bene della causa islamica. Mediata dal cosiddetto levantinismo, e di esso ora parte costituente e anzi preponderante – il levantinismo era legato alla presenza cristiano-ortodossa nel Medio Oriente, greca, libanese, copta, che ora si può dire cancellata.
La taqyiah è stata studiata in epoca recente negli Usa, in numerosi studi a partire dagli ultimi anni 1960. Pochi anni prima che si avviasse la controrivoluzione islamica, allora antisovietica, in Pakistan prima e poi in Iran (contro lo scià) e in Afghanistan.
Questo islam si presenta moderato nelle questioni internazionali. E in questa chiave si sarebbe guadagnato la benevolenza Usa. Ma con eccezioni: dove gli Usa si sono illusi di poter imporre il rinnovamento sulla base dei diritti politici e civili, in Afghanistan e Iraq, questo stesso islam è stato violentemente americano. Ciò cera la maggiore incertezza oggi fra le diplomazie: che ne sarà di Israele in un mondo arabo dominato dalle forze islamiche.
La taqyiah, la dissimulazione, è centrale nell’arte politica araba e anche nella religione islamica: è possibile e anzi è consigliabile dissimulare per il bene della causa islamica. Mediata dal cosiddetto levantinismo, e di esso ora parte costituente e anzi preponderante – il levantinismo era legato alla presenza cristiano-ortodossa nel Medio Oriente, greca, libanese, copta, che ora si può dire cancellata.
La taqyiah è stata studiata in epoca recente negli Usa, in numerosi studi a partire dagli ultimi anni 1960. Pochi anni prima che si avviasse la controrivoluzione islamica, allora antisovietica, in Pakistan prima e poi in Iran (contro lo scià) e in Afghanistan.
L’Europa barbarica
Non ci sono nuovi barbari alle porte, ma l’aria è quella. Dopo la Grecia la Spagna. Licenziamenti a metro cubo, dimezzamento delle retribuzioni, dall’oggi al domani, abolizione di festività e mensilità. Misure stupide oltre che ingiuste – più stupide è da dire che ingiuste. Per incapacità di capire e reagire: di pensare. O meglio, gli assedianti ci sono, a Wall Street e nella City, agguerriti, feroci, ma la vera insidia è dentro le mura.
I greci pagano le furberie e la mala gestione di decenni di governi socialisti e conservatori, dalle quali hanno avuto qualche beneficio, ma irrisorio rispetto all’eccesso di spesa. Per gli spagnoli è peggio: sono poco indebitati ma sono chiamati a pagare gli abusi delle banche e delle società immobiliari, perpetrati anche qui da destra e da sinistra, con la compiacenza di governi socialisti e popolari (democristiani). Uno Stato che dichiara oggi il fallimento per colpa della speculazone, roba da non credere.
L’Italia non è arrivata a tanto ma non sta meglio: un governo di economisti e lombardi, che dovrebbero essere la crema del paese, ha inanellato una catena incredibile di misure controproducenti. Ha messo tante tasse da prendersi i rimproveri di tutte le autorità internazionali. Con le tasse ha messo in crisi l’economia, con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e la compressione forzosa della capacità di spesa. Senza risolvere nemmeno per una frazione di punto percentuale il problema del debito che prometteva di risolvere. Per cui ora pensa a nuove tasse e tagli… Nel mentre che si assolve accusando questo e quello, ma nessuno in particolare, di evasione fiscale. Col solo effetto di indebolire l’immagine-Paese – l’immagine contro molto nell’economia moderna, ma questa Italia non lo sa.
Una crisi indotta, imposta quasi, da europei su europei. Nel presupposto che alcuni ne beneficeranno, i buoni, a danno dei cattivi.
Nella parte virtuosa del nostro mondo si trova un governo tedesco che, quando è al meglio, sta alla finestra. “Non è certo che il progetto europeo funzionerà e quindi dobbiamo continuare a lavorarci”., dice quando è ottimista la cancelliera Angela Merkel. Dunque siamo tornati al “progetto” europeo, dopo esserci legati nell’euro. Forse la cancelliera ha altro per la testa, ma non ce lo dice, e anche questo è segno d’imbarbarimento, l’afasia. Non saper dire, perché non si sa. La sola differenza è che i barbari sono dentro le mura.
I greci pagano le furberie e la mala gestione di decenni di governi socialisti e conservatori, dalle quali hanno avuto qualche beneficio, ma irrisorio rispetto all’eccesso di spesa. Per gli spagnoli è peggio: sono poco indebitati ma sono chiamati a pagare gli abusi delle banche e delle società immobiliari, perpetrati anche qui da destra e da sinistra, con la compiacenza di governi socialisti e popolari (democristiani). Uno Stato che dichiara oggi il fallimento per colpa della speculazone, roba da non credere.
L’Italia non è arrivata a tanto ma non sta meglio: un governo di economisti e lombardi, che dovrebbero essere la crema del paese, ha inanellato una catena incredibile di misure controproducenti. Ha messo tante tasse da prendersi i rimproveri di tutte le autorità internazionali. Con le tasse ha messo in crisi l’economia, con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e la compressione forzosa della capacità di spesa. Senza risolvere nemmeno per una frazione di punto percentuale il problema del debito che prometteva di risolvere. Per cui ora pensa a nuove tasse e tagli… Nel mentre che si assolve accusando questo e quello, ma nessuno in particolare, di evasione fiscale. Col solo effetto di indebolire l’immagine-Paese – l’immagine contro molto nell’economia moderna, ma questa Italia non lo sa.
Una crisi indotta, imposta quasi, da europei su europei. Nel presupposto che alcuni ne beneficeranno, i buoni, a danno dei cattivi.
Nella parte virtuosa del nostro mondo si trova un governo tedesco che, quando è al meglio, sta alla finestra. “Non è certo che il progetto europeo funzionerà e quindi dobbiamo continuare a lavorarci”., dice quando è ottimista la cancelliera Angela Merkel. Dunque siamo tornati al “progetto” europeo, dopo esserci legati nell’euro. Forse la cancelliera ha altro per la testa, ma non ce lo dice, e anche questo è segno d’imbarbarimento, l’afasia. Non saper dire, perché non si sa. La sola differenza è che i barbari sono dentro le mura.
Secondi pensieri - 108
zeulig
Capitalismo – “Una commistione di avidità e paura”, G.A.Cohen, “Socialismo, perché no?”. Si alimenta con l’insicurezza – il senso costante di mancanza, d’insufficienza. Che deriva dall’incertezza, di sé e del mondo (dell’essere). Che in altre epoche si copriva con la fede e l’obbedienza (l’unità).
Femminismo – Va insieme col leghismo, col ritorno al focolare? È la vecchia lettura di Bachofen, tra patriarcato e matriarcato, ma non astratta, l’osservazione di E. Jünger, “Maxima-Minima”, p. 27: “Con la muta di Gea, Anteo torna a guadagnate terreno su Eracle e affiorano nuovi segni. La terra si trasforma, da patria ridiviene luogo natio. I segni matriarcali acquistano potere”.
Opinione pubblica – “Le teste intelligenti tendono a sopravvalutare l’influenza delle opinioni, soprattutto il mezzo dell’ironia. Questo è un errore da cui non guariscono mai o troppo tardi – spesso solo quando, come Chamfort, cadono dall’albero che avevano segato”. Jünger si rallaccia a Nietzsche, per una volta senza citarlo, in “Maxima-Minima”, per spiegare gli effetti contrastanti dell’opinion pubblica, tra chi la forma, o le sue intenzioni, e chi la recepisce: “Tramite le opinioni non vengono costituite verità, bensì accertate realtà”.
Il concetto di public relations nasce e si conforma nella Grande Guerra, imponendo la nozione di “fare l’opinione”, sofisticando le tecniche e allargandone i capi di applicazione. Sul presupposto sempre della superiorità di chi ne gestisce l’elaborazione. Che Jünger riconduce all’ironia. I cui effetti sono noti da tempo – l’ironia dissecca: “Alla fine il processo ironico riporta sempre a un terreno nel quale le cose sono più forti della critica. Ne conseguono entusiasmo, annientamento, tabuizzazione dei luoghi comuni”.
Ozio – Non è una pausa dal lavoro. Non è una pausa, non ha a che fare con la scansione del tempo, feriale, festivo, diurno, notturno. È una disposizione, e in tempi di aggressività-depressione un anticorpo (difesa immunitaria).
È l’altra dimensione, l’n-ma, della realtà – dell’esistenza. Come l’arte, vivifica il tempo, nel lungo periodo e nelle commessure, alitandoci sopra.
Storia - Gewesen non è Vergangen, vuole Heidegger, essere stato non è essere passato. E invece sì. La storia si scrive. E scrivere è portare al presente il passato, anche l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. Oppure no, l’esistente può restare fuori della scrittura. Ma allora la storia crea i suoi materiali, dice Spengler che se ne intende.
Per Manzoni la storia è guerra illustre contro la morte. Di chi?
È la tirannia, di chi ha e sa. È la mano invisibile - o quella è il mercato? Questo vorrebbe Berni faceto: “Non ha proporzione annale o istoria\Che gli autentichi libri de’ mer-canti\Che so’ la vera idea della memoria”.
È azione, si dice - o erezione? O il cumulo dei fatti di Rensi. Ma va come l’acqua, dove trova la vena.
Poi c’è la storia occidentalista, degli orientalisti occidentali, che la vogliono inventata. A partire dal solito Schopenhauer, per il quale fanno la storia le risse europee. La storia e la cronologia sono scoperte occidentali, ribatte Borges, adepto di Schopenhauer e Budda. E come dargli torto: la storia è solo occidentale, intesa non come annali ma come democrazia, progresso, la costruzione del futuro. È cristiana, ma cominciò con l’essere ellenica, grazie ai barbari di Erodoto. La storia è dunque l’Occidente che viene dall’Oriente.
La storia è sconveniente, è stato detto. O viceversa, a sentire Croce: la storia non è giustiziera ma giustificatrice. Contro il parere di Ida Magli: “Nella facilità con cui vengono manipolati i dati storici è ben visibile il mondo mentale primitivo e sud-orientale in cui il tempo non è mai divenuto quella categoria «dura», inflessibile, legata allo spazio, non dominabile dall’uomo che contraddistingue il mondo moderno”. E dunque la storia non è moderna. A meno che il mondo moderno non sia occidentale.
La storia, ingiusta e cattiva, è stupida, e ci marcia. Ma perché sarebbe noiosa, se in gran parte è inventata?
La storia è una scemenza, disse Henry Ford. Negli Usa infatti non c’è.
La prima rivoluzione agricola è avvenuta nel Settecento. O la seconda, volendo considerare prima quella del neolitico, diecimila anni fa. Nel Settecento, quando si supponeva vagamente che un Medio Evo fosse esistito. Mentre del Rinascimento nessuno supponeva che ce ne fosse stato uno, si veniva educati alla filosofia delle vite nobili di Plutarco, e all’affettazione.
La storia è recente. Se è progresso è appena agli inizi, venendo da un incesto e un fratricidio.
zeulig@antiit.eu
Capitalismo – “Una commistione di avidità e paura”, G.A.Cohen, “Socialismo, perché no?”. Si alimenta con l’insicurezza – il senso costante di mancanza, d’insufficienza. Che deriva dall’incertezza, di sé e del mondo (dell’essere). Che in altre epoche si copriva con la fede e l’obbedienza (l’unità).
Femminismo – Va insieme col leghismo, col ritorno al focolare? È la vecchia lettura di Bachofen, tra patriarcato e matriarcato, ma non astratta, l’osservazione di E. Jünger, “Maxima-Minima”, p. 27: “Con la muta di Gea, Anteo torna a guadagnate terreno su Eracle e affiorano nuovi segni. La terra si trasforma, da patria ridiviene luogo natio. I segni matriarcali acquistano potere”.
Opinione pubblica – “Le teste intelligenti tendono a sopravvalutare l’influenza delle opinioni, soprattutto il mezzo dell’ironia. Questo è un errore da cui non guariscono mai o troppo tardi – spesso solo quando, come Chamfort, cadono dall’albero che avevano segato”. Jünger si rallaccia a Nietzsche, per una volta senza citarlo, in “Maxima-Minima”, per spiegare gli effetti contrastanti dell’opinion pubblica, tra chi la forma, o le sue intenzioni, e chi la recepisce: “Tramite le opinioni non vengono costituite verità, bensì accertate realtà”.
Il concetto di public relations nasce e si conforma nella Grande Guerra, imponendo la nozione di “fare l’opinione”, sofisticando le tecniche e allargandone i capi di applicazione. Sul presupposto sempre della superiorità di chi ne gestisce l’elaborazione. Che Jünger riconduce all’ironia. I cui effetti sono noti da tempo – l’ironia dissecca: “Alla fine il processo ironico riporta sempre a un terreno nel quale le cose sono più forti della critica. Ne conseguono entusiasmo, annientamento, tabuizzazione dei luoghi comuni”.
Ozio – Non è una pausa dal lavoro. Non è una pausa, non ha a che fare con la scansione del tempo, feriale, festivo, diurno, notturno. È una disposizione, e in tempi di aggressività-depressione un anticorpo (difesa immunitaria).
È l’altra dimensione, l’n-ma, della realtà – dell’esistenza. Come l’arte, vivifica il tempo, nel lungo periodo e nelle commessure, alitandoci sopra.
Storia - Gewesen non è Vergangen, vuole Heidegger, essere stato non è essere passato. E invece sì. La storia si scrive. E scrivere è portare al presente il passato, anche l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. Oppure no, l’esistente può restare fuori della scrittura. Ma allora la storia crea i suoi materiali, dice Spengler che se ne intende.
Per Manzoni la storia è guerra illustre contro la morte. Di chi?
È la tirannia, di chi ha e sa. È la mano invisibile - o quella è il mercato? Questo vorrebbe Berni faceto: “Non ha proporzione annale o istoria\Che gli autentichi libri de’ mer-canti\Che so’ la vera idea della memoria”.
È azione, si dice - o erezione? O il cumulo dei fatti di Rensi. Ma va come l’acqua, dove trova la vena.
Poi c’è la storia occidentalista, degli orientalisti occidentali, che la vogliono inventata. A partire dal solito Schopenhauer, per il quale fanno la storia le risse europee. La storia e la cronologia sono scoperte occidentali, ribatte Borges, adepto di Schopenhauer e Budda. E come dargli torto: la storia è solo occidentale, intesa non come annali ma come democrazia, progresso, la costruzione del futuro. È cristiana, ma cominciò con l’essere ellenica, grazie ai barbari di Erodoto. La storia è dunque l’Occidente che viene dall’Oriente.
La storia è sconveniente, è stato detto. O viceversa, a sentire Croce: la storia non è giustiziera ma giustificatrice. Contro il parere di Ida Magli: “Nella facilità con cui vengono manipolati i dati storici è ben visibile il mondo mentale primitivo e sud-orientale in cui il tempo non è mai divenuto quella categoria «dura», inflessibile, legata allo spazio, non dominabile dall’uomo che contraddistingue il mondo moderno”. E dunque la storia non è moderna. A meno che il mondo moderno non sia occidentale.
La storia, ingiusta e cattiva, è stupida, e ci marcia. Ma perché sarebbe noiosa, se in gran parte è inventata?
La storia è una scemenza, disse Henry Ford. Negli Usa infatti non c’è.
La prima rivoluzione agricola è avvenuta nel Settecento. O la seconda, volendo considerare prima quella del neolitico, diecimila anni fa. Nel Settecento, quando si supponeva vagamente che un Medio Evo fosse esistito. Mentre del Rinascimento nessuno supponeva che ce ne fosse stato uno, si veniva educati alla filosofia delle vite nobili di Plutarco, e all’affettazione.
La storia è recente. Se è progresso è appena agli inizi, venendo da un incesto e un fratricidio.
zeulig@antiit.eu
Il meglio del Novecento italiano è surreale
Un occhio letterario sul reale diverso – surrealista – del Novecento italiano. Fuori stagione nel primo Novecento, quando sbocciò negli anni Trenta, e nel secondo, quando maturò negli anni 1950-1960. In alcuni casi presto dimenticato: Bontempelli, Buzzati. In altri consolidato per ragioni diverse: Gadda e Calvino naturalmente, Malaparte, Savinio. In alcuni dimenticato. È il caso del narratore modenese, che con più costanza e proprietà (naturalezza) di linguaggio ne fu l’interprete. Questo quadernetto delle Edizioni Via del vento non può certo “riaprire il discorso”, ma è un tutile promemoria.
Antonio Delfini, Vagabondaggio primaverile, Via del Vento, pp. 32 € 4
Antonio Delfini, Vagabondaggio primaverile, Via del Vento, pp. 32 € 4
Com’è triste la corruzione a Firenze - 2
Nel declino di Firenze, estetico (sembra impossibile…), demografico ed economico, la cultura è quella che regredisce più rapidamente. Le case editrici e i caffè letterari sono d’anteguerra, il rinnovamento lapiriano degli anni 1950 si è esaurito, il Festival dei Popoli, il Maggio Musicale, lo stesso Comunale, che ha difficoltà a fare la stagione, l’università è in declino. I centri di eccellenza, Architettura, Lettere, Scienze Politiche, hanno perso smalto e autorevolezza. Le iscrizioni sono in calo: l’ateneo fiorentino puntava ai sessantamila iscritti a fine millennio, ne ha avuti 49.700 nel 2011-2012, un venti per cento in meno. Per effetto dell’impoverimento della città e della sua minore attrattiva: il calo degli iscritti è proporzionalmente analogo ogni anno per i toscani e i non toscani.
L’impoverimento culturale è un fenomeno che tocca tutta la Toscana - non ci sono altrove università che perdono iscritti. Anche Siena è in calo, in proporzione maggiore che a Firenze: da 23 mila iscritti è scesa a 18 mila. Mentre Pisa, che nell’ultimo anno accademico ha preso a Firenze il titolo di maggiore università toscana, mantenendosi poco sopra i 50 mila iscritti, non li incrementa e anzi ne perde ogni anno qualche decina. A Pisa va peraltro il record in questi anni Duemila, che prima era anch’esso di Firenze, degli iscritti da fuori regione, che sono una sicura risorsa economica: ora stabilmente sopra le 16 mila unità, mentre Firenze è scesa a 9.500.
Un dibattito aperto dall’eccellente “Corriere Fiorentino”, il supplemento locale del “Corriere della sera”, sul “Cesare Alfieri”, l’Istituto di Scienze Politiche, ha involontariamente confermato l’involuzione. Paolo Ermini, il direttore del supplemento, voleva una rievocazione nostalgica dei “vecchi tempi”, col celebre bidello Alfio che faceva da segretario organizzativo e didattico, e da tutor degli studenti. Limitandosi a segnalare che l’Istituto non formava più i diplomatici. Preside e professori hanno reagito con una povertà sconcertante di argomenti – i panni sporchi si lavano in casa, e simili. Che Giovanni Faleg, un ricercatore fiorentino esiliatosi a Londra, alla London School of Economics, poteva mettere ieri alla berlina. L’istituto era al tempo di Alfio sicuramente di eccellenza, fino appunto al bidello. “Al tempo di Alfio”, cioè cinquant’anni fa. Allora, si può pensare, era facile, non c’erano altre facoltà di Scienze Politiche, solo un corso di laurea a Roma. Ma l’Istituto fiorentino aveva, benché “monopolistico”, orientamenti e organizzazione di elevata innovazione e efficienza. Introduzioni propedeutiche agli insegnamenti, un’emeroteca internazionale vastissima e accessibilissima, una Scuola Parlamentare finanziata dall’Istituto e gestita dagli studenti per autonomi cicli di conferenze e seminari, un insegnamento scandito da esercitazioni e seminari con gli studenti, fra i tanti altri espedienti per indurre alla frequenza che allora non si poteva imporre, la disponibilità costante dei cattedratici, con la mediazione degli assistenti, un corpo insegnante onusto di eccellenze – l’epigono è Sartori. Una facoltà d’impianto liberalsocialista, che invitava il comunista Duverger a spiegare la costituzione gollista. O il paretiano Meynaud a spiegare i “gruppi d’interesse”.
Ora Scienze politiche è, come tutto l’ateneo, un esamificio. Relegato in periferia a un incrocio polveroso di autostrade, dove è spiacevole pure recarsi a lezione. Studenti di fuori città e docenti sono costretti ad abitare in questo incrocio polveroso, e chi può se ne scappa.
L’impoverimento culturale è un fenomeno che tocca tutta la Toscana - non ci sono altrove università che perdono iscritti. Anche Siena è in calo, in proporzione maggiore che a Firenze: da 23 mila iscritti è scesa a 18 mila. Mentre Pisa, che nell’ultimo anno accademico ha preso a Firenze il titolo di maggiore università toscana, mantenendosi poco sopra i 50 mila iscritti, non li incrementa e anzi ne perde ogni anno qualche decina. A Pisa va peraltro il record in questi anni Duemila, che prima era anch’esso di Firenze, degli iscritti da fuori regione, che sono una sicura risorsa economica: ora stabilmente sopra le 16 mila unità, mentre Firenze è scesa a 9.500.
Un dibattito aperto dall’eccellente “Corriere Fiorentino”, il supplemento locale del “Corriere della sera”, sul “Cesare Alfieri”, l’Istituto di Scienze Politiche, ha involontariamente confermato l’involuzione. Paolo Ermini, il direttore del supplemento, voleva una rievocazione nostalgica dei “vecchi tempi”, col celebre bidello Alfio che faceva da segretario organizzativo e didattico, e da tutor degli studenti. Limitandosi a segnalare che l’Istituto non formava più i diplomatici. Preside e professori hanno reagito con una povertà sconcertante di argomenti – i panni sporchi si lavano in casa, e simili. Che Giovanni Faleg, un ricercatore fiorentino esiliatosi a Londra, alla London School of Economics, poteva mettere ieri alla berlina. L’istituto era al tempo di Alfio sicuramente di eccellenza, fino appunto al bidello. “Al tempo di Alfio”, cioè cinquant’anni fa. Allora, si può pensare, era facile, non c’erano altre facoltà di Scienze Politiche, solo un corso di laurea a Roma. Ma l’Istituto fiorentino aveva, benché “monopolistico”, orientamenti e organizzazione di elevata innovazione e efficienza. Introduzioni propedeutiche agli insegnamenti, un’emeroteca internazionale vastissima e accessibilissima, una Scuola Parlamentare finanziata dall’Istituto e gestita dagli studenti per autonomi cicli di conferenze e seminari, un insegnamento scandito da esercitazioni e seminari con gli studenti, fra i tanti altri espedienti per indurre alla frequenza che allora non si poteva imporre, la disponibilità costante dei cattedratici, con la mediazione degli assistenti, un corpo insegnante onusto di eccellenze – l’epigono è Sartori. Una facoltà d’impianto liberalsocialista, che invitava il comunista Duverger a spiegare la costituzione gollista. O il paretiano Meynaud a spiegare i “gruppi d’interesse”.
Ora Scienze politiche è, come tutto l’ateneo, un esamificio. Relegato in periferia a un incrocio polveroso di autostrade, dove è spiacevole pure recarsi a lezione. Studenti di fuori città e docenti sono costretti ad abitare in questo incrocio polveroso, e chi può se ne scappa.
mercoledì 18 luglio 2012
Il giudice stregone
La questione è semplice: il presidente della Repubblica non può essere intercettato, se non in eccezionali circostanze, scritte nella Costituzione. Ma la Procura di Palermo non lo ha intercettato. Ha solo raccolto alcune sue parole durante una telefonata con Mancino, che invece è intercettato: ”L’addetto coglieva anche la voce del Presidente interlocutore…”. L’“addetto” non sa che telefona il Quirinale, e all’improvviso sente una voce nota. Così l’insigne giurista. Il quale poi assicura che nulla della telefonata è stato reso pubblico. Non gli viene in mente che dare la notizia dell’intercettazione è già un “avviso di reato”. E che questa notizia solo la Procura di Palermo può averla data.
Cupio dissolvi non raro in Italia, ma con questo avvocato-professore-scrittore di una speciale natura. Mancino è ex ministro dell’Interno, ex presidente del Senato, e ex vice-presidente del Csm. Cordero non si chiede con chi altro un presidente della Repubblica può parlare. D’altra parte, Cordero non è nessuno. È lui che ha ispirato “Il Caimano” a Nanni Moretti. E ha in genere due pagine su “Repubblica”, articoli di sedici-venti cartelle a botta. Prolisse e arzigogolate, ma si vede che piace – “Repubblica” ha licenziato gli altri ottantenni, pure di gran lustro, Citati, Arbasino, Turani.
Il nome incute terrore, per via di quel “Gli osservanti”, sul diritto nato dalla nevrosi e la morte, con cui irruppe sulla scena nel 1970, facendosi licenziare dalla Cattolica dove, da buon praticante, insegnava. E anche l’aspetto s’immagina come i suoi revenants. Mentre è un ottantaquattrenne ben conservato. Ma sempre arzigogolato. E minaccioso. Così dev’essere apparso a Maria Antonietta Calabrò, la quale, intervistandolo per il “Correre della sera” sulle intercettazioni di Napolitano, non può esimersi dal suo linguaggio. Oscuro, e quindi minaccioso: “Nefas”, “il conversante da Monte Cavallo”, “definire tabù le parole dell’altro è gesto esclamativo d’esiguo valore dialettico”. Dopo essersi esercitato nell’“ermeneutica” di “norme (che) dicono l’opposto a lettori informati ed equanimi”,di norme cioè chiarissime – e allora che bisogno c’è di ermeneutica? Puro bullismo, da bello-e-buono della Repubblica, ma Cordero in questo non è solo, e non vale parlarne. È puro Settecento: quest’uomo si vuole un esorcizzatore ma è chiaramente afflitto dalla sindrome stregonesca che l’autore del manuale di Procedura Penale delle nostre università si supporrebbe combattere.
Cupio dissolvi non raro in Italia, ma con questo avvocato-professore-scrittore di una speciale natura. Mancino è ex ministro dell’Interno, ex presidente del Senato, e ex vice-presidente del Csm. Cordero non si chiede con chi altro un presidente della Repubblica può parlare. D’altra parte, Cordero non è nessuno. È lui che ha ispirato “Il Caimano” a Nanni Moretti. E ha in genere due pagine su “Repubblica”, articoli di sedici-venti cartelle a botta. Prolisse e arzigogolate, ma si vede che piace – “Repubblica” ha licenziato gli altri ottantenni, pure di gran lustro, Citati, Arbasino, Turani.
Il nome incute terrore, per via di quel “Gli osservanti”, sul diritto nato dalla nevrosi e la morte, con cui irruppe sulla scena nel 1970, facendosi licenziare dalla Cattolica dove, da buon praticante, insegnava. E anche l’aspetto s’immagina come i suoi revenants. Mentre è un ottantaquattrenne ben conservato. Ma sempre arzigogolato. E minaccioso. Così dev’essere apparso a Maria Antonietta Calabrò, la quale, intervistandolo per il “Correre della sera” sulle intercettazioni di Napolitano, non può esimersi dal suo linguaggio. Oscuro, e quindi minaccioso: “Nefas”, “il conversante da Monte Cavallo”, “definire tabù le parole dell’altro è gesto esclamativo d’esiguo valore dialettico”. Dopo essersi esercitato nell’“ermeneutica” di “norme (che) dicono l’opposto a lettori informati ed equanimi”,di norme cioè chiarissime – e allora che bisogno c’è di ermeneutica? Puro bullismo, da bello-e-buono della Repubblica, ma Cordero in questo non è solo, e non vale parlarne. È puro Settecento: quest’uomo si vuole un esorcizzatore ma è chiaramente afflitto dalla sindrome stregonesca che l’autore del manuale di Procedura Penale delle nostre università si supporrebbe combattere.
L’unità fu opera del Sud
Garibaldi non sbarca in Sicilia per conquistarla. Non lo può, con un migliaio di volontari, che combattono frontalmente alla baionetta e si fanno uccidere, contro un esercito di decine di migliaia di uomini, “come vuole tutt’oggi una rappresentazione inverosimile”. I Mille “sono venuti per appoggiare un’insurrezione popolare, trionferanno appoggiandosi su un’insurrezione popolare”. Endemica da quarantacinque anni contro i “napoletani”. Rei di avere cancellato la costituzione che essi stessi avevano dato – dovuto dare su pressione inglese – nel 1812. Con un rinfocolamento nei mesi precedenti lo sbarco, organizzata da Rosolino Pilo, Corrao, La Porta, Riso. Con molti preti e frati, annoteranno i massonissimi Bandi e La Farina. Che si aspettano dall’Italia molto di più dell’unità, aggiungerà Abba: la giustizia, anche sociale. “Palermo è l’unica città italiana a insorgere nel ’60 nello stile del ‘48”: Garibaldi nelle sue memorie ne ammirerà la compattezza e la determinazione, senza mai una defezione o un tradimento, specifica, a differenza delle altre province italiane nel ’48-’49. Quando Garibaldi risbarcò in Sicilia, nel 1862, l’entusiasmo popolare a Palermo fu immutato, malgrado le delusioni. Ma fu bloccato, il 20 agosto, dallo stato d’assedio in tutto il Sud. C’è un senso, conclude Lupo, se “la grande letteratura… che esprime la delusione per una rivoluzione ridotta a trasformismo” è siciliana, di De Roberto e Pirandello – non “Il Gattopardo” giustamente, che è tutt’altra cosa: non è che la Sicilia riduce tutto a trasformismo (come vorrebbero i “gattopardi”, aggiungeremmo, Sciascia compreso), è che la Sicilia voleva una rivoluzione e ha avuto la mafia e il trasformismo.
Un rovesciamento radicale, e tuttavia una verità. Su questa verità, semplice quanto trascurata, ricostruita su pubblicazioni in commercio ma evidentemente fuori corso, lo storico della mafia fonda la ricostruzione dell’unità d’Italia nel momento topico della “discesa al Sud”. Fuori da leghismi e borbonismi, le solite polemiche facili. Sarà questo probabilmente il contributo più nuovo e utile delle celebrazioni del centocinquantenario. Con molte novità, oltre al conflitto tra Napoli e la Sicilia, le radici dell’autonomismo. Anzitutto il ripescaggio, con l’autorevole avallo da primo storico della mafia, del fil rouge di Lucy Riall, “La Sicilia e l’unificazione italiana”, uscito nella disattenzione e dimenticato: la creazione e l’uso della mafia a opera del nuovo Stato italiano, contro ogni politico di opposizione. Un’altra novità è il carattere politico, non sociale né etnico, del brigantaggio.
Una novità non da poco è contenuta nell’“Introduzione”: si può dire il Mezzogiorno vittima di se stesso. Per la reazione seguita nel Regno delle due Sicilie alla prima costituzione “italiana” promulgata nello stesso Regno dopo i moti del 1848. Una reazione radicale, opera dei vecchi liberali del 1820: Carlo Filangieri, figlio dell’illuminista, il giudice Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno. Mentre l’Italia si modernizzava nel decisivo dodicennio successivo. Non tanto con le ferrovie o le industrie quanto con le leggi. I patrioti e gli innovatori, anche moderati, finirono in esilio, reale o figurato, “abbandonarono” il Sud. Che non ha mai colmato il gap di classe dirigente – ha avuto personalità di spicco, ma su un magma politico informe.
Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, pp. 184 € 16,50
Un rovesciamento radicale, e tuttavia una verità. Su questa verità, semplice quanto trascurata, ricostruita su pubblicazioni in commercio ma evidentemente fuori corso, lo storico della mafia fonda la ricostruzione dell’unità d’Italia nel momento topico della “discesa al Sud”. Fuori da leghismi e borbonismi, le solite polemiche facili. Sarà questo probabilmente il contributo più nuovo e utile delle celebrazioni del centocinquantenario. Con molte novità, oltre al conflitto tra Napoli e la Sicilia, le radici dell’autonomismo. Anzitutto il ripescaggio, con l’autorevole avallo da primo storico della mafia, del fil rouge di Lucy Riall, “La Sicilia e l’unificazione italiana”, uscito nella disattenzione e dimenticato: la creazione e l’uso della mafia a opera del nuovo Stato italiano, contro ogni politico di opposizione. Un’altra novità è il carattere politico, non sociale né etnico, del brigantaggio.
Una novità non da poco è contenuta nell’“Introduzione”: si può dire il Mezzogiorno vittima di se stesso. Per la reazione seguita nel Regno delle due Sicilie alla prima costituzione “italiana” promulgata nello stesso Regno dopo i moti del 1848. Una reazione radicale, opera dei vecchi liberali del 1820: Carlo Filangieri, figlio dell’illuminista, il giudice Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno. Mentre l’Italia si modernizzava nel decisivo dodicennio successivo. Non tanto con le ferrovie o le industrie quanto con le leggi. I patrioti e gli innovatori, anche moderati, finirono in esilio, reale o figurato, “abbandonarono” il Sud. Che non ha mai colmato il gap di classe dirigente – ha avuto personalità di spicco, ma su un magma politico informe.
Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, pp. 184 € 16,50
martedì 17 luglio 2012
Berlusconi è un’opinione - 9
Berlusconi ritorna in campo sul patetico. Per onore di firma, si può dire burocraticamente. Per cadere sul campo della politica invece che di Ruby, si può anche concedergli, e della protettrice di Ruby la giudice Boccassini. Di fatto come quei massimi di una volta, che tornavano sul ring con gli acciacchi, tante avendone date ma anche prese, per una borsa consistente, per una copertina, per allontanare il vuoto, convinti di giganteggiare in una successone mediocre.
Ma la cosa cade nel momento in cui si traducono i “Maxima-Minima” di Ernst Jünger, una serie di annotazioni al suo “Der Arbeiter” del 1932, l’uomo-lavoratore, nel quale largo spazio dedicava all’opinione pubblica nell’epoca del lavoro di massa. Nelle annotazioni, aggiornate alla nuova era democratica, seppure nella guerra fredda, non c’è molto in argomento, ma quel poco sembra scritto, nel 1962-63, su misura per Berlusconi. Per il modo come ha fatto irruzione nella politica, ha avuto fortuna, è stato avversato. Su questo Jünger è netto, confermando quello che nei “Berlusconi” precedenti di questo sito è stato ripetuto: l’intellighencija, ritenendosi migliore, fa largo uso dell’ironia, ma l’ironia è un boomerang. Tra “entusiasmo, annientamento, tabuizzazione dei luoghi comuni”, finisce su “un terreno nel quale le cose sono più forti della critica”.
Come nasce un Berlusconi? L’opinione “non costituisce verità” ma evidenzia realtà: “Ecco perché certi personaggi autoritari emergono da epoche di sfrenata libertà di opinione. Procedono attraverso critiche mutevoli come attraverso il bello e il cattivo tempo, fino al traguardo”. Le opinioni non lasciano il tempo che trovano, come si suole dire, ma favoriscono l’emergere delle cose.
Berlusconi ha avuto fortuna perché la regola del gioco non è stata “la ricerca della verità”: “Uno «smascheramento» non potrà ma far cadere chi ha un volto sotto la maschera. E, sotto il panciotto, un cuore da offrire. Chi ha la struttura di Clemenceau può permettersi perfino il panama”. Berlusconi non è Clemenceau ma la bandana è il panama.
Ma la cosa cade nel momento in cui si traducono i “Maxima-Minima” di Ernst Jünger, una serie di annotazioni al suo “Der Arbeiter” del 1932, l’uomo-lavoratore, nel quale largo spazio dedicava all’opinione pubblica nell’epoca del lavoro di massa. Nelle annotazioni, aggiornate alla nuova era democratica, seppure nella guerra fredda, non c’è molto in argomento, ma quel poco sembra scritto, nel 1962-63, su misura per Berlusconi. Per il modo come ha fatto irruzione nella politica, ha avuto fortuna, è stato avversato. Su questo Jünger è netto, confermando quello che nei “Berlusconi” precedenti di questo sito è stato ripetuto: l’intellighencija, ritenendosi migliore, fa largo uso dell’ironia, ma l’ironia è un boomerang. Tra “entusiasmo, annientamento, tabuizzazione dei luoghi comuni”, finisce su “un terreno nel quale le cose sono più forti della critica”.
Come nasce un Berlusconi? L’opinione “non costituisce verità” ma evidenzia realtà: “Ecco perché certi personaggi autoritari emergono da epoche di sfrenata libertà di opinione. Procedono attraverso critiche mutevoli come attraverso il bello e il cattivo tempo, fino al traguardo”. Le opinioni non lasciano il tempo che trovano, come si suole dire, ma favoriscono l’emergere delle cose.
Berlusconi ha avuto fortuna perché la regola del gioco non è stata “la ricerca della verità”: “Uno «smascheramento» non potrà ma far cadere chi ha un volto sotto la maschera. E, sotto il panciotto, un cuore da offrire. Chi ha la struttura di Clemenceau può permettersi perfino il panama”. Berlusconi non è Clemenceau ma la bandana è il panama.
Il mondo com'è - 102
astolfo
Capitale - Il suo meccanismo è forse impensabile per essere semplice: accumulare spendendo. Creare ricchezza dissipandola. Già dal tempo di Crasso e i pubblicani. I quali erano capaci, dalla Spagna alla Licia, quando arrivava l’imperatore, di erigergli un tempio, un teatro, una biblioteca, un ginnasio, un arco di trionfo. Veri, di pietra e marmo e non di cartapesta. Ben più cari di una Carnegie Hall, che poi è un investimento e non un monumento. Facendo tutti contenti, l’imperatore, i cavatori, i sacerdoti nei templi e le vestali, nonché i costruttori edili. E questo per le virtù moltiplicative del denaro, che non è il nummus e non è l’oro o l’argento del conio, né il biglietto di banca, il certificato del governatore dell’istituto d’emissione, ma un principio attivo. Che la penuria rende produttiva, di reddito e ingegno applicato, di tecniche, salute, piaceri.
Per il resto si scimmiotta la religione del capitale: Lafargue, il genero ozioso di Marx, il Tirteo francese Rouget de Lisle, il conte Saint-Simon. Che Büchner trovò all’osteria a Strasburgo, accanto al Duomo, in testa un berretto rosso, al collo una sciarpa di cashemere, in giubba corta tedesca e pantaloni aderenti, sul panciotto un Rousseau ricamato. Non il conte, un suo seguace: i sansimonisti, avendo avuto nel conte il père, spiega Büchner ai suoi, erano alla ricerca della mère, nella forma più generica di femme, e per essa s’addobbavano. Anche nella femme, luogo laico, c’è una forte origine del capitale.
Federico il Grande 3 - Fece della Prussia il centro della Germania, il cuore del Volkstum, una terra che è per un quarto polacca, un quarto calvinista francese, un quarto calvinista di Salisburgo, e per il resto anche un po’ russa. Federico II fu a lungo indeciso se fare della Prussia, e quindi della sua Germania, un paese di lingua francese. Berlino è città solo per metà tedesca. Anche Berlino per metà è francese: Federico Guglielmo rimpolpò con cinquemila ugonotti di Francia, dono dell’improvvido Luigi XIV, i diecimila berlinesi. La Slesia divenne tedesca solo nel 1741, alla prima di una serie di fortunate battaglie, vinte quando credeva di averle perse, che fece Grande Federico di Prussia.
L’erede del Re Sergente, quello che educava i figli a calci e frustate, raddoppiò l’eredità del padre, che pure era stato avidissimo, nella prima delle sue tante guerre contro Maria Teresa, odiata per essere donna oltre che padrona di vasti territori. Maria Teresa aspettava il terzo dei suoi sedici figli, che sarà Giuseppe II – alla “Resel” piaceva farlo, in armonia col detto della casa,“Tu, Felix Austria, nube”, che invita al coniugio, e pure al marito evidentemente, Francesco di Lorena duca di Toscana, non altrimenti noto. Come tutto, anche la Germania è nelle origini, là dove un codice genetico o mentale si forma. Benché Federico sia stato a un passo dal francesizzare la Prussia, e quindi la Germania, pur in battaglia perpetua con la Francia, tanto disprezzava i tedeschi.
Il Re Sergente Federico Guglielmo, che gli storici illude con la teoria della sovranità al servizio dei sudditi, era un mangione con un girovita d’un paio di metri, un violento e un avaro. Acquistava a prezzo vile le terre dei suoi nobili, e il poco che a loro magnanimo lasciava se lo riprendeva a rate con le imposte di consumo. I suoi esattori erano anche giudici. Fece pagare tasse sulla selvaggina e il taglio della legna. A ogni nascita pretendeva un regalo. Ma non lasciò molto al figlio Federico, che non riuscirà a pagare la collezione di pittura dal padre ordinata per mettersi alla pari con le corti europee, 225 quadri. Glieli rilevò, al momento di saldare il conto, Caterina di Anhalt-Zerbst, una principessa vecchia Germania, intelligente, spiritosa, divenuta nel frattempo, per migliorare la razza, zarina a San Pietroburgo, dove già aveva creato una Biblioteca Russa, ricca dei manoscritti ben pagati di Diderot e Voltaire.
L’eredità del creatore della Germania era insomma avvelenata anche dove appariva vantaggiosa. Solo i reggimenti contavano, anche di statura normale, e l’addestramento formale, l’andare su e giù in caserma all’unisono, l’obbedienza per l’obbedienza. Una volta la regina, rimasta incinta senza che nessuno per mesi la guardasse, figliò sola, assistita da una cameriera. Il re si fece convincere dai cortigiani che essa, a quarant’anni, e dopo sei o sette parti, l’avesse tradito. Di Federico, primogenito maschio, che la sorella maggiore Guglielmina, poi margravia di Bayreuth, ricorda ragazzo lieto e intraprendente, completò l’addestramento decretando l’impiccagione del suo migliore amico e imponendogliene lo spettacolo. A Wust una cripta lo ricorda, nei pressi di Stendal.
Ricorda Hans Hermann Katte, figlio di un bravo generale, stirpe di militari, compagno di Federico in una fuga sfortunata dalla casa-caserma paterna. Terzo nella fuga era un giovane di nome Keith, già sposato, genero della baronessa Kniphausen. La baronessa, la vedova più ricca di Berlino, sarà ricattata da Federico Guglielmo con l’accusa d’avere avuto un figlio al primo anno di vedovanza: per evitare lo scandalo dovrà pagargli trentamila sterline, un debito che la rovinerà. Ritrovati i fuggitivi, il re tentò di strangolare il figlio, sull’esempio di Ivan il Terribile, ma un generale glielo impedì. Non si privò però di prendere a calci Gugliemina, che la madre protesse, ma un’abrasione le restò indelebile sotto la mammella sinistra - Voltaire ebbe l’onore di vederla. Federico fu rinchiuso nel castello di Küstrin, tra le paludi, per sei mesi, dopodiché dovette assistere alla decapitazione di Katte. La corte militare aveva deciso l’ergastolo, ma il re lo volle morto. Federico aveva diciott’anni, Katte ventisei.
“The Kings”, dirà Stendhal, “loro se ne fottono”. Ma la Germania è nata da un corpo sterile, si può capire l’urgenza di migliorare la razza. Oltre che imbolsita alla vanga sui campi, o in città gonfia di birra, col triplo mento, carica di ori tintinnanti come le vedove ebree, la razza imperiale è nata tarata dai calci.
Federico II fu anche il primo purtroppo, prima di Hölderlin. A inventarsi per la Prussia una genealogia greca. Ma quando Maupertuis volle selezionare una razza nella quale intelligenza e rettitudine fossero ereditarie, Federico glielo impedì, non finanziando il progetto del presidente della sua Accademia delle scienze.
Federico di Prussia sarà stato grande pure in questo, che, invitato ad ascoltare una cantante tedesca, rispose che preferiva il nitrito del cavallo – il gran re ebbe orecchio assoluto e ideò apprezzati strumenti, il dottor Burney ne vide uno a Venezia, donato al conte Torre e Taxi, “simile a un grande clavicembalo”, che suonava come clavicembalo, arpa, liuto e fortepiano.
Feudalesimo – Condannava l’avidità e garantiva dalla paura, che saranno la molla del mercato. In questo senso è antimoderno (antiproduttivo), ma non antisociale. Se non in quanto, nel ristagno, non riduceva la povertà. Il misto di povertà, ingiustizia e rapina con cui si caratterizza la parola è invece da connettere al più recente fedecommesso, per cui larghe estensioni e comunità passavano di mano tra proprietari , usualmente banchieri, remoti e assenti – come “collaterali”.
Intellettuali - La rivoluzione di De Maistre è, nei disegni della Provvidenza, un vaccino contro gli eccessi. Manzoni, ottimo storico, non indulge alle antifrasi, ma condivide col conte il richiamo al peccato originale. È un fatto: l’uomo è in peccato.
Gli intellettuali italiani riflettono questa dicotomia. Hanno il culto di Stendhal, della curiosità cioè, e della libertà, del randagismo perfino. Ma Manzoni li ossessiona, il micragnoso gioco al massacro di tutti contro tutti dell’uomo lasciato a se stesso – non c’è il sacro nei “Promessi Sposi”, come in Italia, con tante giaculatorie. E anche la società è combattuta, non sa liberarsi dalla trappola innescata dal Grande Pessimista. Governa a volta a volta chi seduce gli istinti peggiori. Con effetto cumulativo che si avvita a spirale: la borghesia virtuosa s’incarognisce sempre più. L’esito non può essere, a lume di logica, una rivoluzione antiborghese. Una rivoluzione è l’irruzione di uomini e leggi diverse e contrarie a quelle al potere. Ma questa borghesia si nega. Né la rivoluzione è immaginabile quale sostituzione dei furbi, se questi sono la totalità della popolazione.
Ci sarà quindi sempre un’Italia intraprendente e illiberale.
Scienza - È l’attività nella si perpetrano le peggiori infamie, l’assassinio escluso: trucchi, menzogne, rivalità, sopraffazioni, gerarchismo. Nelle università, nei centri di ricerca, nei gruppi d specializzazione, nelle pubblicazioni specializzate. Minime (a fini minimi: una promozione, una citazione, un grant) ma perciò più turpi: lo scienziato si danna per niente.
I retroscena delle candidature ai Nobel sono infinitamente più tortuosi per i fisici e i medici che per i letterati. Ma anche in passato la scienza era squallidamente competitiva, ai tempi di Newton, di Copernico, e chissà di Talete.
astolfo@antiit.eu
Capitale - Il suo meccanismo è forse impensabile per essere semplice: accumulare spendendo. Creare ricchezza dissipandola. Già dal tempo di Crasso e i pubblicani. I quali erano capaci, dalla Spagna alla Licia, quando arrivava l’imperatore, di erigergli un tempio, un teatro, una biblioteca, un ginnasio, un arco di trionfo. Veri, di pietra e marmo e non di cartapesta. Ben più cari di una Carnegie Hall, che poi è un investimento e non un monumento. Facendo tutti contenti, l’imperatore, i cavatori, i sacerdoti nei templi e le vestali, nonché i costruttori edili. E questo per le virtù moltiplicative del denaro, che non è il nummus e non è l’oro o l’argento del conio, né il biglietto di banca, il certificato del governatore dell’istituto d’emissione, ma un principio attivo. Che la penuria rende produttiva, di reddito e ingegno applicato, di tecniche, salute, piaceri.
Per il resto si scimmiotta la religione del capitale: Lafargue, il genero ozioso di Marx, il Tirteo francese Rouget de Lisle, il conte Saint-Simon. Che Büchner trovò all’osteria a Strasburgo, accanto al Duomo, in testa un berretto rosso, al collo una sciarpa di cashemere, in giubba corta tedesca e pantaloni aderenti, sul panciotto un Rousseau ricamato. Non il conte, un suo seguace: i sansimonisti, avendo avuto nel conte il père, spiega Büchner ai suoi, erano alla ricerca della mère, nella forma più generica di femme, e per essa s’addobbavano. Anche nella femme, luogo laico, c’è una forte origine del capitale.
Federico il Grande 3 - Fece della Prussia il centro della Germania, il cuore del Volkstum, una terra che è per un quarto polacca, un quarto calvinista francese, un quarto calvinista di Salisburgo, e per il resto anche un po’ russa. Federico II fu a lungo indeciso se fare della Prussia, e quindi della sua Germania, un paese di lingua francese. Berlino è città solo per metà tedesca. Anche Berlino per metà è francese: Federico Guglielmo rimpolpò con cinquemila ugonotti di Francia, dono dell’improvvido Luigi XIV, i diecimila berlinesi. La Slesia divenne tedesca solo nel 1741, alla prima di una serie di fortunate battaglie, vinte quando credeva di averle perse, che fece Grande Federico di Prussia.
L’erede del Re Sergente, quello che educava i figli a calci e frustate, raddoppiò l’eredità del padre, che pure era stato avidissimo, nella prima delle sue tante guerre contro Maria Teresa, odiata per essere donna oltre che padrona di vasti territori. Maria Teresa aspettava il terzo dei suoi sedici figli, che sarà Giuseppe II – alla “Resel” piaceva farlo, in armonia col detto della casa,“Tu, Felix Austria, nube”, che invita al coniugio, e pure al marito evidentemente, Francesco di Lorena duca di Toscana, non altrimenti noto. Come tutto, anche la Germania è nelle origini, là dove un codice genetico o mentale si forma. Benché Federico sia stato a un passo dal francesizzare la Prussia, e quindi la Germania, pur in battaglia perpetua con la Francia, tanto disprezzava i tedeschi.
Il Re Sergente Federico Guglielmo, che gli storici illude con la teoria della sovranità al servizio dei sudditi, era un mangione con un girovita d’un paio di metri, un violento e un avaro. Acquistava a prezzo vile le terre dei suoi nobili, e il poco che a loro magnanimo lasciava se lo riprendeva a rate con le imposte di consumo. I suoi esattori erano anche giudici. Fece pagare tasse sulla selvaggina e il taglio della legna. A ogni nascita pretendeva un regalo. Ma non lasciò molto al figlio Federico, che non riuscirà a pagare la collezione di pittura dal padre ordinata per mettersi alla pari con le corti europee, 225 quadri. Glieli rilevò, al momento di saldare il conto, Caterina di Anhalt-Zerbst, una principessa vecchia Germania, intelligente, spiritosa, divenuta nel frattempo, per migliorare la razza, zarina a San Pietroburgo, dove già aveva creato una Biblioteca Russa, ricca dei manoscritti ben pagati di Diderot e Voltaire.
L’eredità del creatore della Germania era insomma avvelenata anche dove appariva vantaggiosa. Solo i reggimenti contavano, anche di statura normale, e l’addestramento formale, l’andare su e giù in caserma all’unisono, l’obbedienza per l’obbedienza. Una volta la regina, rimasta incinta senza che nessuno per mesi la guardasse, figliò sola, assistita da una cameriera. Il re si fece convincere dai cortigiani che essa, a quarant’anni, e dopo sei o sette parti, l’avesse tradito. Di Federico, primogenito maschio, che la sorella maggiore Guglielmina, poi margravia di Bayreuth, ricorda ragazzo lieto e intraprendente, completò l’addestramento decretando l’impiccagione del suo migliore amico e imponendogliene lo spettacolo. A Wust una cripta lo ricorda, nei pressi di Stendal.
Ricorda Hans Hermann Katte, figlio di un bravo generale, stirpe di militari, compagno di Federico in una fuga sfortunata dalla casa-caserma paterna. Terzo nella fuga era un giovane di nome Keith, già sposato, genero della baronessa Kniphausen. La baronessa, la vedova più ricca di Berlino, sarà ricattata da Federico Guglielmo con l’accusa d’avere avuto un figlio al primo anno di vedovanza: per evitare lo scandalo dovrà pagargli trentamila sterline, un debito che la rovinerà. Ritrovati i fuggitivi, il re tentò di strangolare il figlio, sull’esempio di Ivan il Terribile, ma un generale glielo impedì. Non si privò però di prendere a calci Gugliemina, che la madre protesse, ma un’abrasione le restò indelebile sotto la mammella sinistra - Voltaire ebbe l’onore di vederla. Federico fu rinchiuso nel castello di Küstrin, tra le paludi, per sei mesi, dopodiché dovette assistere alla decapitazione di Katte. La corte militare aveva deciso l’ergastolo, ma il re lo volle morto. Federico aveva diciott’anni, Katte ventisei.
“The Kings”, dirà Stendhal, “loro se ne fottono”. Ma la Germania è nata da un corpo sterile, si può capire l’urgenza di migliorare la razza. Oltre che imbolsita alla vanga sui campi, o in città gonfia di birra, col triplo mento, carica di ori tintinnanti come le vedove ebree, la razza imperiale è nata tarata dai calci.
Federico II fu anche il primo purtroppo, prima di Hölderlin. A inventarsi per la Prussia una genealogia greca. Ma quando Maupertuis volle selezionare una razza nella quale intelligenza e rettitudine fossero ereditarie, Federico glielo impedì, non finanziando il progetto del presidente della sua Accademia delle scienze.
Federico di Prussia sarà stato grande pure in questo, che, invitato ad ascoltare una cantante tedesca, rispose che preferiva il nitrito del cavallo – il gran re ebbe orecchio assoluto e ideò apprezzati strumenti, il dottor Burney ne vide uno a Venezia, donato al conte Torre e Taxi, “simile a un grande clavicembalo”, che suonava come clavicembalo, arpa, liuto e fortepiano.
Feudalesimo – Condannava l’avidità e garantiva dalla paura, che saranno la molla del mercato. In questo senso è antimoderno (antiproduttivo), ma non antisociale. Se non in quanto, nel ristagno, non riduceva la povertà. Il misto di povertà, ingiustizia e rapina con cui si caratterizza la parola è invece da connettere al più recente fedecommesso, per cui larghe estensioni e comunità passavano di mano tra proprietari , usualmente banchieri, remoti e assenti – come “collaterali”.
Intellettuali - La rivoluzione di De Maistre è, nei disegni della Provvidenza, un vaccino contro gli eccessi. Manzoni, ottimo storico, non indulge alle antifrasi, ma condivide col conte il richiamo al peccato originale. È un fatto: l’uomo è in peccato.
Gli intellettuali italiani riflettono questa dicotomia. Hanno il culto di Stendhal, della curiosità cioè, e della libertà, del randagismo perfino. Ma Manzoni li ossessiona, il micragnoso gioco al massacro di tutti contro tutti dell’uomo lasciato a se stesso – non c’è il sacro nei “Promessi Sposi”, come in Italia, con tante giaculatorie. E anche la società è combattuta, non sa liberarsi dalla trappola innescata dal Grande Pessimista. Governa a volta a volta chi seduce gli istinti peggiori. Con effetto cumulativo che si avvita a spirale: la borghesia virtuosa s’incarognisce sempre più. L’esito non può essere, a lume di logica, una rivoluzione antiborghese. Una rivoluzione è l’irruzione di uomini e leggi diverse e contrarie a quelle al potere. Ma questa borghesia si nega. Né la rivoluzione è immaginabile quale sostituzione dei furbi, se questi sono la totalità della popolazione.
Ci sarà quindi sempre un’Italia intraprendente e illiberale.
Scienza - È l’attività nella si perpetrano le peggiori infamie, l’assassinio escluso: trucchi, menzogne, rivalità, sopraffazioni, gerarchismo. Nelle università, nei centri di ricerca, nei gruppi d specializzazione, nelle pubblicazioni specializzate. Minime (a fini minimi: una promozione, una citazione, un grant) ma perciò più turpi: lo scienziato si danna per niente.
I retroscena delle candidature ai Nobel sono infinitamente più tortuosi per i fisici e i medici che per i letterati. Ma anche in passato la scienza era squallidamente competitiva, ai tempi di Newton, di Copernico, e chissà di Talete.
astolfo@antiit.eu
L’anarchico politicamente corretto
Stucchevole bozzettismo, di anarchici all’osteria. Con escursioni alla Tambura e alla Brugiana, le montagne delle Apuane. Di uno che pure ha scritto cose solide. Già avvinto, a quarant’anni, al reducismo – qui sono tutti del Partito, da intendere il Pci: anarchici, socialisti, Sofri. Un lungo articolo del “Manifesto”, da “contr’allineato”.
Il “contro in testa” è il carrarino. In confronto al massese, e al mondo. Il cavatore di marmi. Di una sostanza dura: il marmo uccideva, i cavatori erano anarchici. Un mondo vivo, si sa, si sente, che la correttezza qui spegne: l’uniformità è totale, formale e politica. Fino al buon ricordo di Ovidio Bompressi, ma senza l’orribile processo di cui fu vittima - a opera del Partito.
L’unico frizzo è all’esordio: “Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conoscevo, temevo che non sarei stato altro da lei”. Se non che tutto è falso: non c’è madre secca e muta, le Apuane non sono sterili e infeconde, il vuoto non esiste. L’incipit si rivela un (ottimo?) compito in classe, il rifiuto di sé e del mondo, che non arricchisce la memoria, anche quando si improvvisi solerte e riconoscente. Il ricordo della zia difficilmente vive in prosa.
Marco Rovelli, Il contro in testa, Laterza, pp. 144 € 12
Il “contro in testa” è il carrarino. In confronto al massese, e al mondo. Il cavatore di marmi. Di una sostanza dura: il marmo uccideva, i cavatori erano anarchici. Un mondo vivo, si sa, si sente, che la correttezza qui spegne: l’uniformità è totale, formale e politica. Fino al buon ricordo di Ovidio Bompressi, ma senza l’orribile processo di cui fu vittima - a opera del Partito.
L’unico frizzo è all’esordio: “Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conoscevo, temevo che non sarei stato altro da lei”. Se non che tutto è falso: non c’è madre secca e muta, le Apuane non sono sterili e infeconde, il vuoto non esiste. L’incipit si rivela un (ottimo?) compito in classe, il rifiuto di sé e del mondo, che non arricchisce la memoria, anche quando si improvvisi solerte e riconoscente. Il ricordo della zia difficilmente vive in prosa.
Marco Rovelli, Il contro in testa, Laterza, pp. 144 € 12
lunedì 16 luglio 2012
Problemi di base - 108
spock
Non bastano i Moody’s, le Merkel vogliono cantare: è un concerto?
È Moody’s il basso continuo e Merkel la prima voce, o viceversa?
La Francia invece è afona? Parla solo Madame Twitter
Secondo von Clausewitz la guerra di difesa è la più efficace: alla sconfitta?
Si chiama Monti, ma non sarà von Clausewitz?
Il mondo è più morto o più vivo?
Ne nascono di più di quanti moriamo, e dunque?
Se a ogni morte finisce il mondo, non si sarà stancato il mondo di finire?
O di aumentare, se è un mondo di sette miliardi di mondi, in continua crescita?
Gli zombie appassionano gli studiosi della mente: non sarà che i morti restano viventi?
Perché non si parla della (dis)occupazione? Meno mezzo milione, meno un milione?
spock@antiit.eu
Non bastano i Moody’s, le Merkel vogliono cantare: è un concerto?
È Moody’s il basso continuo e Merkel la prima voce, o viceversa?
La Francia invece è afona? Parla solo Madame Twitter
Secondo von Clausewitz la guerra di difesa è la più efficace: alla sconfitta?
Si chiama Monti, ma non sarà von Clausewitz?
Il mondo è più morto o più vivo?
Ne nascono di più di quanti moriamo, e dunque?
Se a ogni morte finisce il mondo, non si sarà stancato il mondo di finire?
O di aumentare, se è un mondo di sette miliardi di mondi, in continua crescita?
Gli zombie appassionano gli studiosi della mente: non sarà che i morti restano viventi?
Perché non si parla della (dis)occupazione? Meno mezzo milione, meno un milione?
spock@antiit.eu
Il conservatore è rivoluzionario
“Camminare a piedi diventa un problema tecnico” (p.23): l’autopsia del nostro reale non ha bisogno di strumentazione sofisticata, basta guardarsi attorno – sapendo, e volendo, guardare. Anche se “la metafisica deve diventare un lusso, laddove il pensiero è diventato un lavoro” (p.44). L’avvio folgorante è stato anch’esso semplice (p.11): “Il destino si nasconde in ciò che non si può sapere. Ecco perché le prognosi migliori sono quelle di cui l’autore stesso, a posteriori, si stupisce”.
Jünger si stupisce qui, con noi, della rilettura del suo “L’Operaio” trent’anni dopo, nel 1962, di cui questa raccolta reca le note a margine. Cristallinamente rese da Alessandra Iadicicco - anche se con la (inevitabile?) ambigua traduzione di Gestalt con forma – si apprezzano centellinate. La scrittura frammentaria di Jünger non è neppure qui aforistica (suggestiva) ma densa – ripensata: precisazioni che crescono su se stesse. Alla luce dell’aforisma heideggeriano che la curatrice evoca: “L’essenza della tecnica non è nulla di tecnico” – “L’operaio” è il mondo tecnicizzato. In un mondo costantemente mitico, dei Titani vs. Eracle in primo luogo, delle Moire, della Pizia, e ovunque di Gea, la grande madre Terra.
È il taccuino di un pervicace conservatore, ancora nel 1964, anno di pubblicazione della raccolta – l’anno dopo “Tipi, nomi, forme”. Negandosi nel mentre che si riafferma (p.101): “Il conservatore, ammesso che esistano ancora forze degne di questo nome, assomiglia a qualcuno che, su un veicolo che sfreccia via sempre più velocemente, vuole fare ordine, mantenere le cose al solito posto”. Ciò non va bene: “Gli oggetti tenuti fermi artificiosamente rappresentano un pericolo crescente”. Ma sono “museali”, con gli Stati nazionali, “le idee generali” della rivoluzione francese. Con residui di razzismo anche dopo le indipendenze. Mediante l’espansione di un cenno avventato di Spengler nel “Tramonto dell’Occidente”, dove profetizza la fine del colonialismo negli anni 1950-60 come l’africanizzazione dell’Europa – dei bianchi. Ma con l’occhio di falco vigile. Sulle dittature: “Tra il clown e il dittatore vi è un parentela, un sistema di prestiti reciproci”, questi “liquida uomini e classi”, quello, “in alcune circostanze, liquida un’epoca intera”. Sull’ “operaio” (p.21): “L’operaio combatte e muore dentro apparecchiature, non solo senza avere «idee elevate», ma avendole consapevolmente rifiutate. Il suo ethos sta tutto nell’onesto servizio dell’apparato”. Sul filisteismo, come “mancanza di senso metafisico, quantificabilità, formazione di gruppi e ricezione di compiti”. Di cui è culmine la Bomba: “La bomba atomica come non plus ultra della mentalità del filisteo”. Una serie di temi che sarebbero confluiti nel “rifiuto del lavoro” del Sessantotto. Sempre antiborghese. E sempre – non controvoglia – pieno di speranza. Sia pure per mera curiosità, da entomologo.
Con le stesse antenne sensibili avverte (soffre) le sopraffazioni della scienza e della tecnica, uno spreco mai visto: “Un lusso supremo, più dispendioso dei castelli di un’intera dinastia e più pericolose delle guerre tra i regnanti” (p.42). E avverte i limiti sempre più cogenti del reale (materiale): “A che cosa servono i punti di osservazione quando sta venendo giù una slavina?” (p.50) Cosciente del suo limite sempre: “L’autentico conservatore non vuole mantenere questo o quell’ordine, bensì ripristinare l’immagine dell’uomo che è misura di tutte le cose. Ecco perché oggi ogni approccio conservatore diventa ambiguo” (p.56). Non reazionario, cioè: “L’uguaglianza fa parte dell’evoluzione: finché questa non viene esclusa non potranno presentarsi in modo credibile nuove selezioni” (p.14). E anzi orgoglioso, non senza ragione: “Andando più in profondità, conservatori e rivoluzionari diventano assai simili tra di loro perché si avvicinano necessariamente allo steso fondamento. Perciò nei grandissimi trasformatori, coloro che non solo capovolgono gli ordini, ma li fondano anche, si ravvisano sempre entrambe le qualità” (p.57). Nella consapevolezza che “come preistoria bisogna considerare la conquista del numero in quanto tale, un’avventura dello spirito umano di cui si perde ogni traccia nell’oscurità”.
Ernst Jünger, Maxima-Minima, Guanda, pp. 123 € 12
domenica 15 luglio 2012
Consolidare è meglio che tassare
Quando i tassi a breve superano quelli a lungo termine, è chiaro che si ritiene l’Italia prossima al fallimento – il neo ministro Grilli lo dice con la singolare freddezza del burocrate, ma è quanto è successo fino all’altro ieri e succederà domani. Questo non è possibile e non è vero. Ma è quello che le agenzie di rating e i loro clienti, le banche e i fondi (pensione, sovrani, d’investimento, hedge), che operano in automatico coi giudizi della agenzie, sono impostate a ritenere. Il costo del servizio del debito sale così da circa 50 a 80 miliardi di euro l’anno, e oltre. Da qui l’insulsaggine delle manovre di rientro, che soffocano l’economia e ogni pochi mesi vanno ripetute. Bisogna invece procedere con un abbattimento del debito e una riduzione del suo costo.
Il circolo vizioso si rompe ristabilendo la fiducia internazionale, si dice. È vero ma in parte. E la fiducia non si ristabilisce riunendosi con Hollande o Merkel, governanti di nessuno spessore. Né accusando le agenzie di rating di conflitto d’interessi. Che c’è, le agenzie lavorano per le banche e i fondi, ma è ininfluenzabile. La fiducia va ristabilita principalmente in proprio.
L’abbattimento del debito andava fatto prima dell’adesione all’euro. Adesso è più complicato, ma ha tre ottime vie per riuscire: la riduzione della spesa, con una buona legge anti-corruzione (gli appalti pubblici che raddoppiano e triplicano di costo in corso d’opera), la valorizzazione del patrimonio pubblico, e una forma di consolidamento con nuove emissioni, più o meno forzose, a carico dei detentori italiani del debito. Che pagheranno caro, ma pagheranno una volta per tutte e non ogni sei mesi, ogni volta più caro.
Il circolo vizioso si rompe ristabilendo la fiducia internazionale, si dice. È vero ma in parte. E la fiducia non si ristabilisce riunendosi con Hollande o Merkel, governanti di nessuno spessore. Né accusando le agenzie di rating di conflitto d’interessi. Che c’è, le agenzie lavorano per le banche e i fondi, ma è ininfluenzabile. La fiducia va ristabilita principalmente in proprio.
L’abbattimento del debito andava fatto prima dell’adesione all’euro. Adesso è più complicato, ma ha tre ottime vie per riuscire: la riduzione della spesa, con una buona legge anti-corruzione (gli appalti pubblici che raddoppiano e triplicano di costo in corso d’opera), la valorizzazione del patrimonio pubblico, e una forma di consolidamento con nuove emissioni, più o meno forzose, a carico dei detentori italiani del debito. Che pagheranno caro, ma pagheranno una volta per tutte e non ogni sei mesi, ogni volta più caro.
Siamo generosi quanto egoisti
“Dopotutto, la propensione all’egoismo è rintracciabile in (quasi?) ciascuno di noi quanto la tendenza alla generosità. Il nostro problema è che, mentre conosciamo il modo di far funzionare un sistema economico sulla base dello sviluppo e, invero, dell’ipertrofia dell’egoismo, non conosciamo il modo di farlo funzionare sviluppando e sfruttando la generosità umana”. Dopotutto il problema è semplice, seppure con un pizzico di umorismo. Come esempio di progettazione virtuosa Cohen porta il campeggio, di svago o di lavoro, dove tutti fanno tutto senza un conto del dare e l’avere. L’esempio è poco congruente, dice poi lui stesso, giacché coinvolge un gruppo omogeneo, che ha fatto una scelta precisa – temporanea anche e finalizzata. La prospettiva “comunitaria” sulla quale allarga il fuoco è più convincente – anche se rimanda in definitiva, come già il comunitarismo di Adriano Olivetti, all’“economia sociale di mercato” renana, e insomma alla dottrina sociale della Chiesa.
“Jerry” Cohen, filosofo canadese di Oxford, è stato teorico socialista di matrice analitica. Tardo autore di due libri controcorrente, “If you’re an Egalitarian, How Come sou’re so Rich?”, del 2000, e nel 2008, un anno prima della morte, “Rescuing Justice and Equality”. Se ne tenta qui un primo assaggio in italiano con un saggio divulgativo del 2001. Non molto ponderato, ma di proposito promettente: “La parità di opportunità liberale di sinistra rimedia allo svantaggio sociale ma non a quello connaturato, con il quale si è nati”, per ubicazione, condizione, professione, cui invece un vero socialismo si deve proporre di rimediare. Ciò richiede un bilanciamento delle opportunità – una redistribuzione – ma senza intenti punitivi, l’uguaglianza non è pauperizzante. Fermo restando che si lavora meglio nel mercato, resta però l’interrogativo: “Può il mercato produrre con efficienza senza incentivi mercantili e, quindi, senza un distribuzione mercantile delle ricompense?”
Gerald Allan “Jerry” Cohen, Socialismo perché no?, Ponte alle Grazie, pp.63 € 9
“Jerry” Cohen, filosofo canadese di Oxford, è stato teorico socialista di matrice analitica. Tardo autore di due libri controcorrente, “If you’re an Egalitarian, How Come sou’re so Rich?”, del 2000, e nel 2008, un anno prima della morte, “Rescuing Justice and Equality”. Se ne tenta qui un primo assaggio in italiano con un saggio divulgativo del 2001. Non molto ponderato, ma di proposito promettente: “La parità di opportunità liberale di sinistra rimedia allo svantaggio sociale ma non a quello connaturato, con il quale si è nati”, per ubicazione, condizione, professione, cui invece un vero socialismo si deve proporre di rimediare. Ciò richiede un bilanciamento delle opportunità – una redistribuzione – ma senza intenti punitivi, l’uguaglianza non è pauperizzante. Fermo restando che si lavora meglio nel mercato, resta però l’interrogativo: “Può il mercato produrre con efficienza senza incentivi mercantili e, quindi, senza un distribuzione mercantile delle ricompense?”
Gerald Allan “Jerry” Cohen, Socialismo perché no?, Ponte alle Grazie, pp.63 € 9
Italia sovietica - 7
Grillo e l’indignazione - dopo Di Pietro.
La dissimulazione onesta.
Il settarismo.
Le lettere di esecrazione puntuali sui giornali di partito, “la Repubblica”, “l’Unità”, “Il Tirreno” e gli altri giornali di De Benedetti. Dopo che Berlusconi ridiscende in campo (ne era uscito?) e Bersani trova la cosa “agghiacciante”.
Sugli stessi giornali ancora si vilipendono i socialisti, che nessun altro sa chi erano.
Il monolitismo, anche in assenza di parole d’ordine, per un riflesso condizionato.
E viceversa il caciquismo: il potere del partito si scioglie come nell’Urss, tra potentati settoriali e locali. In Toscana soprattutto e in Umbria. Anche in Emilia. A Genova. A Milano. A Reggio Calabria i resti del Pci nel Pd sono contesi fra tre incumbent.
La case editrici che nascono ancora, con i remi letterari e i festival della mente, a quasi un quarto di secolo dalla caduta del Muro, e muoiono (ma pagando i debiti: ben finanziate), con la liquidazione del contro Rodetta in Svizzera. Al conto confluivano le tangenti sull’ex-import con l’Urss. Conto di cui il fiduciario è rimasto sconosciuto: nessuna Procura italiana ha voluto saperlo.
Il fiduciario si disse che fosse Primo Greganti. Succeduto da Valerio Occhetto, con Vittorio Veltroni.
Le Procure che non hanno mai voluto sapere del conto Rodetta.
La Rai che chiama Zichichi e Hack a commentare il bosone di Higgs. Vecchi, senza titoli, e senza charme. Non sanno nemmeno spiegare cosa è stato scoperto. Sono politicamente corretti?
La dissimulazione onesta.
Il settarismo.
Le lettere di esecrazione puntuali sui giornali di partito, “la Repubblica”, “l’Unità”, “Il Tirreno” e gli altri giornali di De Benedetti. Dopo che Berlusconi ridiscende in campo (ne era uscito?) e Bersani trova la cosa “agghiacciante”.
Sugli stessi giornali ancora si vilipendono i socialisti, che nessun altro sa chi erano.
Il monolitismo, anche in assenza di parole d’ordine, per un riflesso condizionato.
E viceversa il caciquismo: il potere del partito si scioglie come nell’Urss, tra potentati settoriali e locali. In Toscana soprattutto e in Umbria. Anche in Emilia. A Genova. A Milano. A Reggio Calabria i resti del Pci nel Pd sono contesi fra tre incumbent.
La case editrici che nascono ancora, con i remi letterari e i festival della mente, a quasi un quarto di secolo dalla caduta del Muro, e muoiono (ma pagando i debiti: ben finanziate), con la liquidazione del contro Rodetta in Svizzera. Al conto confluivano le tangenti sull’ex-import con l’Urss. Conto di cui il fiduciario è rimasto sconosciuto: nessuna Procura italiana ha voluto saperlo.
Il fiduciario si disse che fosse Primo Greganti. Succeduto da Valerio Occhetto, con Vittorio Veltroni.
Le Procure che non hanno mai voluto sapere del conto Rodetta.
La Rai che chiama Zichichi e Hack a commentare il bosone di Higgs. Vecchi, senza titoli, e senza charme. Non sanno nemmeno spiegare cosa è stato scoperto. Sono politicamente corretti?
Ombre - 138
L’assemblea del partito Democratico è una rissa, vista di presenza. Ma se ne legge come di un evento, quasi straordinario.
E dire che Bersani non è nemmeno uno impositivo.
Grandi attese a sinistra per Hollande, all’assemblea nazionale del Pd e nei giornali, un presidente che ha una compagna con ufficio personale all’Eliseo e sei camerieri, e s’intromette nelle foto ufficiali e nelle elezioni politiche. Col vecchio Pci si accetta tutto, le guerre, le tasse, e anche le amanti servite.
L’emiro del Qatar si compra Valentino. È un segno di fiducia, l’emiro spende bene i suoi soldi, ma Milano è delusa. Avrebbe voluto un acquirente biondo?
È un mese ormai di caldo eccezionale, non si soffriva tanto da secoli. Ma non ci sono incendi. Il troppo caldo ha messo in crisi l’autocombustione? O la crisi economica – c’è altro a cui pensare?
Gian Mario Rossignolo per decenni ha fatto, da Mosca e da Torino, la morale alle imprese pubbliche, che sprecavano denari, a suo dire, e non facevano investimenti. Mentre tentava il colpo ai finanziamenti pubblici? Per questo ora, a 82 anni, è stato scoperto a Livorno, dove si era avventurato, e arrestato.
Nicola Lombardozzi accomuna su “Repubblica” Putin a Stalin. Per aumentare l’uno, per diminuire l’altro? E i lettori di “Repubblica” se la bevono?
Firenze si celebra seconda città più accogliente al mondo – dopo Bangkok. Secondo una pubblicazione Usa che privilegia gli alberghi a sette stelle. Più caro più accogliente?
Piazza Santa Maria Novella a Firenze, uno dei luoghi più storici, e più belli, d’Italia, è stata popolata da senzatetto e spacciatori per una dozzina d’anni. Poi il sindaco rottamatore Renzi ha deciso di bonificarla, creandoci un prato. Ora è una piazza d’erba secca, e detriti animali. Bisogna dare Firenze al Fai?
“Il problema non è vendere, il problema è incassare i denari”, dice all’ottimo “Corriere della sera-Firenze” il presidente del consorzio Brunello, il vino d’eccellenza di Montalcino. In Italia nessuno paga nessuno: bastava una piccola, piccolissima, riforma della giustizia, un solo giorno d’attesa, due, per farsi pagare una fattura invece di un processo dei dodici-quindici anni, per risollevare il paese.
Vale contro la Grecia, in rapporto alla Germania, il pensiero sottile di Bismarck: “I Balcani non valgono le ossa di un solo granatiere di Pomerania”. La storia è magistra vitae, diceva Cicerone. Ma i tedeschi sono nati “imparati”.
E dire che Bersani non è nemmeno uno impositivo.
Grandi attese a sinistra per Hollande, all’assemblea nazionale del Pd e nei giornali, un presidente che ha una compagna con ufficio personale all’Eliseo e sei camerieri, e s’intromette nelle foto ufficiali e nelle elezioni politiche. Col vecchio Pci si accetta tutto, le guerre, le tasse, e anche le amanti servite.
L’emiro del Qatar si compra Valentino. È un segno di fiducia, l’emiro spende bene i suoi soldi, ma Milano è delusa. Avrebbe voluto un acquirente biondo?
È un mese ormai di caldo eccezionale, non si soffriva tanto da secoli. Ma non ci sono incendi. Il troppo caldo ha messo in crisi l’autocombustione? O la crisi economica – c’è altro a cui pensare?
Gian Mario Rossignolo per decenni ha fatto, da Mosca e da Torino, la morale alle imprese pubbliche, che sprecavano denari, a suo dire, e non facevano investimenti. Mentre tentava il colpo ai finanziamenti pubblici? Per questo ora, a 82 anni, è stato scoperto a Livorno, dove si era avventurato, e arrestato.
Nicola Lombardozzi accomuna su “Repubblica” Putin a Stalin. Per aumentare l’uno, per diminuire l’altro? E i lettori di “Repubblica” se la bevono?
Firenze si celebra seconda città più accogliente al mondo – dopo Bangkok. Secondo una pubblicazione Usa che privilegia gli alberghi a sette stelle. Più caro più accogliente?
Piazza Santa Maria Novella a Firenze, uno dei luoghi più storici, e più belli, d’Italia, è stata popolata da senzatetto e spacciatori per una dozzina d’anni. Poi il sindaco rottamatore Renzi ha deciso di bonificarla, creandoci un prato. Ora è una piazza d’erba secca, e detriti animali. Bisogna dare Firenze al Fai?
“Il problema non è vendere, il problema è incassare i denari”, dice all’ottimo “Corriere della sera-Firenze” il presidente del consorzio Brunello, il vino d’eccellenza di Montalcino. In Italia nessuno paga nessuno: bastava una piccola, piccolissima, riforma della giustizia, un solo giorno d’attesa, due, per farsi pagare una fattura invece di un processo dei dodici-quindici anni, per risollevare il paese.
Vale contro la Grecia, in rapporto alla Germania, il pensiero sottile di Bismarck: “I Balcani non valgono le ossa di un solo granatiere di Pomerania”. La storia è magistra vitae, diceva Cicerone. Ma i tedeschi sono nati “imparati”.