sabato 28 luglio 2012
La pietas muore a Londra con l’esibizione
Ha avuto un curioso riflesso d’irrealtà la cerimonia per l’Olimpiade a Londra. Non d’immaginazione o d’impegno ma di morte della fantasia e della pietas. Che ha raggelato pure i tratti scherzosi, Lineker e Beckham, Mr. Bean, Kenneth Branagh, le musiche, la regina che scende dall’elicottero, scortata da James Bond. Di fronte all’esibizione del bisogno, la malattia, la disgrazia, il razzismo. Per la non spettacolarizzazione dello stesso, surrogata dalla pretesa del reale e del necessario. Un’esagerazione e quasi una denuncia, benché non voluta, del politicamente corretto, la facciata delle cose.
Un mondo rovesciato diventa non credibile – se è tutto in bisogno, ne sono eliminati la distanza e l’impegno personale. Diventa urgente solo per la forma o facciata. La sofferenza e l’emarginazione sono stati esposti a Londra fino al ludibrio di se stessi: malati, down, sordi, muti, immigrati poveri, e bambini indifesi. La speranza riposta in una ragazza caraibica e un ragazzo africano. Gli inglesi fermi alla guerra – con gli altri britannici rappresentati di malavoglia (giusto una cantante scozzese, mezza zambiana). Voleva essere un appello corale alla generosità ma l’ha schiacciata su un piano sordo.
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (137)
Giuseppe Leuzzi
L’Italia è usuraia, questo il “messaggio” del “Gattopardo”: l’unità è una cambiale, che il Sud ha firmato e deve pagare.
Salina-Lampedusa argomenta nel “Gattopardo” al piemontese Chevallais “l’impenetrabilità meridionale agli affari altrui”. Dove viveva Lampedusa?
Schengen (la libera circolazione nella Ue) consente di divorziare in pochi mesi. Basta prendere la residenza in un paese che ha una procedura rapida, e farci poche pratiche legali. Agenzie specializzate vi si dedicano. Le più efficienti sono di Concetta Riina, la figlia, specializzata su Londra, e l’avvocato Richichi di Reggio Calabria, specializzato su Bucarest. Concetta prende 7.500 euro, l’avvocato Richichi 3.500 “più Iva”.
Il Sud fu attivo, anche molto attivo, anche prima degli altri, nel 1848 per la libertà e, in varia misura, l’unità. Senza mai un tradimento o una defezione (come avvenne invece al Centro-Nord), noterà sorpreso lo stesso Garibaldi nelle “Memorie”. Se non quella, eccezionale, dei liberali napoletani del 1820, Carlo Filangieri, Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno, che ispirarono e diressero la reazione borbonica del 1848.
Calabria
Il repubblicano Albero Mario, uno dei primi garibaldini sbarcati sul continente nel 1860, così ricorda i patrioti locali (in “La camicia rossa”, recentemente riedito), “in brache corte a similitudine del nostro pastore”, armati di fucili da caccia, pistole a pietra e coltelli: “Parevami che la vetustissima stirpe della Magna Grecia si fosse in costoro mantenuta nella sua primitiva integrità”. Differentissima dalla siciliana: “Se nella calabrese si addita l’innesto greco sul tronco italico, nella siciliana vi si discerne l’innesto africano”. Due genti estraene, “due mondi”.
Ha una storia ininterrotta di ribellioni. Contro Napoli in epoca moderna. Per i motivi più diversi. Ma indomita. Ora è coartata dalla ‘ndrangheta. Da cinquant’anni ormai. Troppi. Ma nella Repubblica non può ribellarsi, deve andare dai carabinieri. E questo fa la differenza.
Mezza pagina finale nel lungo romanzo d’amore di William Blacker per gli zingari e la Romania, “Lungo la via incantata”, è dedicata all’emigrazione improvvisa dopo la libertà e la democrazia. E tutta centrata sulla Calabria, bersaglio comodo per dire insensata la rottura di una stabilità di millenni – non è vero ma questo è quello che Blacker riesce a farci credere nella sua bella storia. C’è chi ritornò vantandosi: “Una tornò da una cittadina vicino Reggio Calabria per raccontare come aveva preso il caffè ogni mattina con Leonardo Di Caprio”. Mentre “altri tornarono dal grande mondo vuoto e dissero la verità”. Il racconto è uno solo: “«Abbiamo lavorato un mese in Calabria a potare gli ulivi», uno mi disse, «e alla fine l’uomo disse che non avevamo fatto un buon lavoro e ci ha pagati dieci euro al giorno invece dei cinquanta promessi. Non ci fu niente da fare. Tutti hanno armi in Calabria. Mentre eravamo lì sapemmo di romeni scomparsi. Nessuno seppe cosa gli era successo. Sentimmo una volta di un Romeno che era stato ucciso perché un Calabrese si era invaghito di sua moglie. Il Romeno reagì e il Calabrese pronto lo uccise, e buttò il suo corpo al mare»”.
Tutto è possibile. Di Caprio in Calabria non risulta ci sia mai stato, ma a Taurianova vive una contessa Lo Schiavo, sorella di Francesca Lo Schiavo, costumista e scenografa a Hollywood, anche di Di Caprio. Dei fatti truci invece si sarebbe saputo nelle cronache - mentre i potatori sarebbero stati protetti da una qualsiasi camera del lavoro. Tutto è più plausibilmente inventato, di testa. Senza difficoltà, perché quella è la “Calabria”.
È sconosciuta a Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”, che pure dovette percorrerla più volte da cima a fondo nei suoi frequenti viaggi. Nel 1883 fa fare al Gattopardo in treno da Napoli a Reggio “nel suo ultimo tratto vicino a Reggio… una larga svolta per Metaponto”. Metaponto dista da Reggio come Napoli.
Una coincidenza ha voluto che si visitassero en touriste Santo Stefano di Sessanio sopra l’Aquila, Rocca Calascio, Castel del Monte. Un mondo morto – a Santo Stefano, con tutta la sua storia, si sono incontrate due donne, sole. In attesa dei gitanti del sabato, e del mese di agosto. E subito dopo, nell’Alto Jonio cosentino, una serie di paesi abitati, e anzi in forte crescita, demografica e economica, che presentavano la stessa struttura dei paesi abbandonati dell’aquilano: Rocca Imperiale, Oriolo, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Cerchiara. Costruiti su burroni e i crinali dei colli, per le vecchie ragioni di sicurezza, che li rendono oggi impervi all’irrinunciabile circolazione. Ma tutti vivi, oltre che di fascino, di attività sociali e culturali locali, delle popolazioni che li abitano. Senza però, a differenza dei borghi caratteristici dell’aquilano, alcuna fama o pubblicità.
Si dice la storia. Santo Stefano di Sessanio fu feudo dei Piccolomini e dei Medici, e vanta stemmi, se non palazzi. Ma Rocca Imperiale pure, ha un castello di Federico II e non ce ne sono molti in giro. Più tanti palazzi, borghesi ma solidi. Altri castelli adornano la costa. Capo Spulico vanta pure un’oasi marina. La storia si può dire che non c’è, in questi paesoni, perché c’è vita. Ma questa vita è poi la stessa che i calabresi stigmatizzano – non sempre emigrati. La buona coscienza di sé è museale?
A Rocca Imperiale un quartiere è detto dei padovani, sono stati i primi. Un altro dei bergamaschi. Non sono quartieri storici, ma gruppi di case acquistate di recente. A poco prezzo, quasi niente. Ristrutturate, poco, il necessario – bisogna rispettare l’ambiente. A costi limitati, il costo della vita in questi paesi è la metà che in Abruzzo. Per una vacanza comoda, tra le montagne e il mare, per qualche anno. Dopodiché un’altra occasione così propizia, di bella vita e buoni affari, emergerà e l’immobile si può rivendere a ottimo prezzo. Magari agli stessi calabresi ora occupati a grattarsi la rogna. Gli ultimi acquartierati sono di Abbiategrasso.
Mafia
La cosa e la parola nascono in Sicilia, anzi propriamente a Palermo, con l’unità.
L’omertà non nasce in caserma. I Carabinieri ne fanno un uso smodato, ma il conio si deve a Nicola Turrisi Colonna, barone palermitano, grande proprietario, grande liberale, ufficiale della Guardia Nazionale nel 1848, comandante della stessa nel 1860, uno dei promotori della sollevazione di Palermo nel maggio del 1860. Turrisi Colonna la chiama “umiltà” (voce trasposta nel dialettale omertà) in un opuscolo del 1864, “Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia”: “Umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati”.
Lo stesso i riti di iniziazione – ammesso che non siano una propalazione apocrifa di questa stagione dell’antimafia (la “rivelazione dei riti” avviene con oltre un secolo di ritardo, negli anni 1970, quando già la criminalità organizzata era internazionale e globale). Che ricalcano i rituali massoni e carbonari dell’indipendenza.
La parola mafia è menzionata per la prima volta nel 1861, in una commedia dialettale che ebbe molto successo a Palermo, “I mafiosi di la Vicaria”, di Giuseppe Rizzotti. Viene utilizzate come consorteria criminale per la prima volta quattro anni dopo, in un rapporto al ministro dell’Interno del prefetto di Palermo Filippo Gualtieri. Il prefetto ne parla come di “un’associazione malandrinesca”, con agganci nella politica. L’anno prima Turrisi Colonna ne aveva descritto il funzionamento, senza però usare ancora la parola (parla di “setta”, “camorra”, “infamia” e “umiltà”). Pochi anni dopo, nel 1876, Franchetti e Sonnino ne possono parlare come di “un’industria della violenza”, organizzata in “un vasto raggruppamento di persone d’ogni grado… unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico”.
Le origini della parola si vogliono incerte – mitiche. La filologia siciliana comunque se le ascrive: il vocabolario siciliano del Traina registra la parola già nel 1868, nel significato manzoniano di “braveria”, per Pitré significa “baldezza”. Le origini reali sono nell’unità: nel toscano “maffia” (grafia prevalente della parola per quasi un secolo), miseria, e nel piemontese “mafiun”, persona rustica, deforme, mutangola.
luzzi@antiit.eu
L’Italia è usuraia, questo il “messaggio” del “Gattopardo”: l’unità è una cambiale, che il Sud ha firmato e deve pagare.
Salina-Lampedusa argomenta nel “Gattopardo” al piemontese Chevallais “l’impenetrabilità meridionale agli affari altrui”. Dove viveva Lampedusa?
Schengen (la libera circolazione nella Ue) consente di divorziare in pochi mesi. Basta prendere la residenza in un paese che ha una procedura rapida, e farci poche pratiche legali. Agenzie specializzate vi si dedicano. Le più efficienti sono di Concetta Riina, la figlia, specializzata su Londra, e l’avvocato Richichi di Reggio Calabria, specializzato su Bucarest. Concetta prende 7.500 euro, l’avvocato Richichi 3.500 “più Iva”.
Il Sud fu attivo, anche molto attivo, anche prima degli altri, nel 1848 per la libertà e, in varia misura, l’unità. Senza mai un tradimento o una defezione (come avvenne invece al Centro-Nord), noterà sorpreso lo stesso Garibaldi nelle “Memorie”. Se non quella, eccezionale, dei liberali napoletani del 1820, Carlo Filangieri, Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno, che ispirarono e diressero la reazione borbonica del 1848.
Calabria
Il repubblicano Albero Mario, uno dei primi garibaldini sbarcati sul continente nel 1860, così ricorda i patrioti locali (in “La camicia rossa”, recentemente riedito), “in brache corte a similitudine del nostro pastore”, armati di fucili da caccia, pistole a pietra e coltelli: “Parevami che la vetustissima stirpe della Magna Grecia si fosse in costoro mantenuta nella sua primitiva integrità”. Differentissima dalla siciliana: “Se nella calabrese si addita l’innesto greco sul tronco italico, nella siciliana vi si discerne l’innesto africano”. Due genti estraene, “due mondi”.
Ha una storia ininterrotta di ribellioni. Contro Napoli in epoca moderna. Per i motivi più diversi. Ma indomita. Ora è coartata dalla ‘ndrangheta. Da cinquant’anni ormai. Troppi. Ma nella Repubblica non può ribellarsi, deve andare dai carabinieri. E questo fa la differenza.
Mezza pagina finale nel lungo romanzo d’amore di William Blacker per gli zingari e la Romania, “Lungo la via incantata”, è dedicata all’emigrazione improvvisa dopo la libertà e la democrazia. E tutta centrata sulla Calabria, bersaglio comodo per dire insensata la rottura di una stabilità di millenni – non è vero ma questo è quello che Blacker riesce a farci credere nella sua bella storia. C’è chi ritornò vantandosi: “Una tornò da una cittadina vicino Reggio Calabria per raccontare come aveva preso il caffè ogni mattina con Leonardo Di Caprio”. Mentre “altri tornarono dal grande mondo vuoto e dissero la verità”. Il racconto è uno solo: “«Abbiamo lavorato un mese in Calabria a potare gli ulivi», uno mi disse, «e alla fine l’uomo disse che non avevamo fatto un buon lavoro e ci ha pagati dieci euro al giorno invece dei cinquanta promessi. Non ci fu niente da fare. Tutti hanno armi in Calabria. Mentre eravamo lì sapemmo di romeni scomparsi. Nessuno seppe cosa gli era successo. Sentimmo una volta di un Romeno che era stato ucciso perché un Calabrese si era invaghito di sua moglie. Il Romeno reagì e il Calabrese pronto lo uccise, e buttò il suo corpo al mare»”.
Tutto è possibile. Di Caprio in Calabria non risulta ci sia mai stato, ma a Taurianova vive una contessa Lo Schiavo, sorella di Francesca Lo Schiavo, costumista e scenografa a Hollywood, anche di Di Caprio. Dei fatti truci invece si sarebbe saputo nelle cronache - mentre i potatori sarebbero stati protetti da una qualsiasi camera del lavoro. Tutto è più plausibilmente inventato, di testa. Senza difficoltà, perché quella è la “Calabria”.
È sconosciuta a Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”, che pure dovette percorrerla più volte da cima a fondo nei suoi frequenti viaggi. Nel 1883 fa fare al Gattopardo in treno da Napoli a Reggio “nel suo ultimo tratto vicino a Reggio… una larga svolta per Metaponto”. Metaponto dista da Reggio come Napoli.
Una coincidenza ha voluto che si visitassero en touriste Santo Stefano di Sessanio sopra l’Aquila, Rocca Calascio, Castel del Monte. Un mondo morto – a Santo Stefano, con tutta la sua storia, si sono incontrate due donne, sole. In attesa dei gitanti del sabato, e del mese di agosto. E subito dopo, nell’Alto Jonio cosentino, una serie di paesi abitati, e anzi in forte crescita, demografica e economica, che presentavano la stessa struttura dei paesi abbandonati dell’aquilano: Rocca Imperiale, Oriolo, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Cerchiara. Costruiti su burroni e i crinali dei colli, per le vecchie ragioni di sicurezza, che li rendono oggi impervi all’irrinunciabile circolazione. Ma tutti vivi, oltre che di fascino, di attività sociali e culturali locali, delle popolazioni che li abitano. Senza però, a differenza dei borghi caratteristici dell’aquilano, alcuna fama o pubblicità.
Si dice la storia. Santo Stefano di Sessanio fu feudo dei Piccolomini e dei Medici, e vanta stemmi, se non palazzi. Ma Rocca Imperiale pure, ha un castello di Federico II e non ce ne sono molti in giro. Più tanti palazzi, borghesi ma solidi. Altri castelli adornano la costa. Capo Spulico vanta pure un’oasi marina. La storia si può dire che non c’è, in questi paesoni, perché c’è vita. Ma questa vita è poi la stessa che i calabresi stigmatizzano – non sempre emigrati. La buona coscienza di sé è museale?
A Rocca Imperiale un quartiere è detto dei padovani, sono stati i primi. Un altro dei bergamaschi. Non sono quartieri storici, ma gruppi di case acquistate di recente. A poco prezzo, quasi niente. Ristrutturate, poco, il necessario – bisogna rispettare l’ambiente. A costi limitati, il costo della vita in questi paesi è la metà che in Abruzzo. Per una vacanza comoda, tra le montagne e il mare, per qualche anno. Dopodiché un’altra occasione così propizia, di bella vita e buoni affari, emergerà e l’immobile si può rivendere a ottimo prezzo. Magari agli stessi calabresi ora occupati a grattarsi la rogna. Gli ultimi acquartierati sono di Abbiategrasso.
Mafia
La cosa e la parola nascono in Sicilia, anzi propriamente a Palermo, con l’unità.
L’omertà non nasce in caserma. I Carabinieri ne fanno un uso smodato, ma il conio si deve a Nicola Turrisi Colonna, barone palermitano, grande proprietario, grande liberale, ufficiale della Guardia Nazionale nel 1848, comandante della stessa nel 1860, uno dei promotori della sollevazione di Palermo nel maggio del 1860. Turrisi Colonna la chiama “umiltà” (voce trasposta nel dialettale omertà) in un opuscolo del 1864, “Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia”: “Umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati”.
Lo stesso i riti di iniziazione – ammesso che non siano una propalazione apocrifa di questa stagione dell’antimafia (la “rivelazione dei riti” avviene con oltre un secolo di ritardo, negli anni 1970, quando già la criminalità organizzata era internazionale e globale). Che ricalcano i rituali massoni e carbonari dell’indipendenza.
La parola mafia è menzionata per la prima volta nel 1861, in una commedia dialettale che ebbe molto successo a Palermo, “I mafiosi di la Vicaria”, di Giuseppe Rizzotti. Viene utilizzate come consorteria criminale per la prima volta quattro anni dopo, in un rapporto al ministro dell’Interno del prefetto di Palermo Filippo Gualtieri. Il prefetto ne parla come di “un’associazione malandrinesca”, con agganci nella politica. L’anno prima Turrisi Colonna ne aveva descritto il funzionamento, senza però usare ancora la parola (parla di “setta”, “camorra”, “infamia” e “umiltà”). Pochi anni dopo, nel 1876, Franchetti e Sonnino ne possono parlare come di “un’industria della violenza”, organizzata in “un vasto raggruppamento di persone d’ogni grado… unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico”.
Le origini della parola si vogliono incerte – mitiche. La filologia siciliana comunque se le ascrive: il vocabolario siciliano del Traina registra la parola già nel 1868, nel significato manzoniano di “braveria”, per Pitré significa “baldezza”. Le origini reali sono nell’unità: nel toscano “maffia” (grafia prevalente della parola per quasi un secolo), miseria, e nel piemontese “mafiun”, persona rustica, deforme, mutangola.
luzzi@antiit.eu
Il giallo della Baronessa
È storia ricorrente in Sicilia (una – “era andata a letto con padre e figlio e il genitore di lei, tornato apposta dalla Germania, li ha uccisi entrambi” – è narrata in “Fuori l’Italia dal Sud”). Solitamemte truculenta, però, e non “popolare” nel senso di poetico alla Salomone-Marino. La lingua anche, tra la varie versioni della storia, è molto italianizzata, da colportage del secondo Ottocento – un’ottima traccia, che il folklorista trascura, sarebbe fare raffronti con edizioni del ‘500, se ne esistono, o con scritture “popolari” siciliane del ‘500.
La ricostruzione del “caso”, tra cancellazioni genealogiche, invenzioni anagrafiche, trucchi notarili, è da giallo moderno. Intervallata con i “documenti” farebbe un ottimo gialletto alla Sciascia.
Salvatore Salomone-Marino, La baronessa di Carini
La ricostruzione del “caso”, tra cancellazioni genealogiche, invenzioni anagrafiche, trucchi notarili, è da giallo moderno. Intervallata con i “documenti” farebbe un ottimo gialletto alla Sciascia.
Salvatore Salomone-Marino, La baronessa di Carini
venerdì 27 luglio 2012
Col nome di Voltaire è tornata la “Pravda”
Trasposto sull’infamante (la “giustizia”), sembra di reimmergersi nel monolitismo sovietico, tanto povero di concetti quanto imperativo: la “Pravda” camuffata da Voltaire, la verità in forma di sospetto. Presa in contropiede da una verità più scottante, Dell’Utri e la mafia che ricattano Berlusconi, ma sempre greve.
La verità di questo numero è che Napolitano è un infame. Ci duettano Flores d’Arcais con Barbara Spinelli, eretti in “un nostro mondo” - una corte posta in cima ai “lettori di Il Fatto e\o Repubblica” (e “a livello di massa i telespettatori di Santoro e Gabbanelli”). Marco Travaglio con se stesso. Giuseppe Lo Bianco con Sandra Rizza, in una controinformazione stantia, loro stessi non si divertono. Mentre Bragantini e Mario Pianta fanno da sparring partner al pensiero di Emiliano Brancaccio sullo spread.
Il tutto in memoria di Tabucchi, per la quale si finisce per comprare il numero (raccoglie i suoi scritti sulla rivista). Che è morto ma, si scopre, l’aveva ben spiegato, su “Le Monde” e altrove, che Ciampi, prima di Napolitano, era un infame. Non ci aveva detto che aveva tramato con Riina e Provenzano, perché Massimo Ciancimino ancora non aveva parlato, ma “sapeva”, pure lui.
Un presidente al di sopra di ogni sospetto + Antonio Tabucchi, la scrittura e l’impegno, “Micromega” n.5\2012, pp. 110 + 176 € 14
La verità di questo numero è che Napolitano è un infame. Ci duettano Flores d’Arcais con Barbara Spinelli, eretti in “un nostro mondo” - una corte posta in cima ai “lettori di Il Fatto e\o Repubblica” (e “a livello di massa i telespettatori di Santoro e Gabbanelli”). Marco Travaglio con se stesso. Giuseppe Lo Bianco con Sandra Rizza, in una controinformazione stantia, loro stessi non si divertono. Mentre Bragantini e Mario Pianta fanno da sparring partner al pensiero di Emiliano Brancaccio sullo spread.
Il tutto in memoria di Tabucchi, per la quale si finisce per comprare il numero (raccoglie i suoi scritti sulla rivista). Che è morto ma, si scopre, l’aveva ben spiegato, su “Le Monde” e altrove, che Ciampi, prima di Napolitano, era un infame. Non ci aveva detto che aveva tramato con Riina e Provenzano, perché Massimo Ciancimino ancora non aveva parlato, ma “sapeva”, pure lui.
Un presidente al di sopra di ogni sospetto + Antonio Tabucchi, la scrittura e l’impegno, “Micromega” n.5\2012, pp. 110 + 176 € 14
Secondi pensieri - (109)
zeulig
Dio – È morto solo in Occidente, in Europa. Che attraverso la Riforma e le opere della Controriforma si era avvezzata a un Dio personale, la cui immagine era definita e anche familiare. Con la perdita dell’immaginazione e della personalità diventa impossibile ogni fede, e inutile o svanita ogni immagine di Dio. Che ritorna, è comunque possibile, come un Dio impersonale, astratto. Cui far riferimento con assiomi filosofico-teologici o con radici linguistiche (letterarie).
Dio è morto sancisce un ritorno all’antico, all’imperscrutabilità di Dio, della Bibbia come di Budda.
Sarà onnisciente, ma è uno che non intercetta. L’intercettazione è una trappola: si osserva e (perché) si è osservati. Una attività a somma zero, cui Dio si sottrae per essere, per definizione e non solo nella Bibbia, nascosto, segreto. È la sua sfera di libertà e anche la sua natura. Se deve muovere un rimprovero o comminare una sanzione non ha del resto bisogno di giustificarsi.
Questo non vuol dire che l’intercettatore non è un dio: ci sono tanti dei, c’è un mercato anche della divinità. Ma non quello che si pensava.
Ermeneutica – Non può prendersi sul serio.
Se non con la chiave del dubbio (dell’ironia, del gioco).
Indiscrezione – Sotto la forma dell’intercettazione, legale o letteraria, della videosorveglianza, o di google, è la forma di comunicazione prevalente, in questa epoca che pure si vuole della privacy. Friedrich Dürrenmatt prospetta in “L’incarico” un mondo ipersorvegliato, dove tutti controllano tutti, con un miriade di satelliti geostazionari. Ne fa la filosofia come una superfetazione di “1984”, che non cita, ma di un universo concentrazionario non politico, senza poteri individuabili. Dürrenmatt ne scrive nell’ottica salvifica antibellicista, che vede nel male un esito della malvagità dei promotori di guerre. Mentre invece questa “visibilità totale” è una sorta di guerra hobbesiana, di tutti contro tutti. Senza alcun esito apprezzabile, né progettuale né casuale, se non una distruzione sempre più ubuesca - “L’incarico” si svolge e si conclude in maniera insoddisfacente, malgrado il linguaggio astruso, iperletterario, come una storia da B-film, del genere splatter, di lacerti sanguinolenti in vista.
Ironia - Il contrasto anima l’ironia, il ridicolo, lo scherzo. Ma è (resta) verità. Dà spessore all’ipertesto, ne vivifica gli echi, lo alleggerisce: una trivella che consente una rilettura a più livelli – la chiave della Cabala, della rilettura costante, dell’ermeneutica.
Un grimoire senza oscurità - intessuto di eventi noti.
Oppure no, l’ironia (Swift, Voltaire, anche Sterne) è un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: per questo dissecca.
Male – È mancanza. È quindi in funzione del bene. Mentre il bene è possibile e immaginabile, reale, senza il male, il contrario non è possibile – non c’è il mondo se non c’è il bene. Un mondo di solo male è immaginabile ma defunto, da sempre.
Storia - Non è mai ricostruzione di un dato passato. La storia non è, o lo è soltanto in misura limitata, un prodotto della scuola. È erudita, vuol’esserlo, deve esserlo. Ma dev’essere considerata “scienza” inesatta per eccellenza, impensabile senza la teoria: il pensiero storico è sempre finalistico. La storia è condannata a divenire sociologia.
La storia è certo di una parte, lo spiega Huizinga. È un Gestalt. Una forma spirituale, come la letteratura, la filosofia, il diritto, la scienza, per comprendere in essa il mondo. È la forma dello spirito in cui una civiltà si rende conto del suo passato. Ogni civiltà produce la sua propria forma di storia. Che è sempre storia universale. Ma la storia non fornisce mai altro che una certa figurazione di un certo passato, un quadro comprensibile di un frammento - “frammento di frammenti” la dice Goethe, come la letteratura.
Febvre invece la vuole arte – anche questo è Occidente - e scienza, del passato e del presente. Un ramo della scienza delle comunicazioni, aggiunge Lévi-Strauss, per il quale “in ogni società la comunicazione ha luogo a tre livelli: scambio di beni e servizi, scambio di messaggi, scambio delle donne”. Non male. È sempre una signora molto esigente, trovava Giorgio Spini in polemica col professor Spadolini, che non s’è mai sposato: richiede cultura internazionale, scaltrezza di metodo, pesante fatica, anche fisica, di ricerca delle fonti. Ed è bene in carne, si spera, poiché va fatta propria.
Gentile è di altro avviso: “La storia non è l’essenza di Parmenide ma l’idea di Platone”, un’idea che, attraverso il concetto socratico, è “trasposizione della natura”. L’idea platonica fonda la logica aristotelica, governata dal principio d’identità, che si riflette e articola nella non contraddizione e nel terzo escluso, “per cui il pensiero vero, che è, più che il pensiero, la verità oggetto del pensiero vero, sé in sé rigira”. La storia è dunque masturbatoria: “Il concetto di circolo giova a definire con esattezza la natura del fatto storico”. Ma niente si pensa se non partendo dalla storia, “in cui l’oggetto si pone come quello che esiste”. E “la speculazione deve abbracciarsi alla storia, come il concetto all’intuizione”. Morto il positivismo resta il positivo, cioè la storia. Nella quale “il pensare è un continuo divorare, e richiede pertanto sempre materia da maciullare”, spiega il filosofo di Mussolini: “La storia costruita con formule o concet-ti, storia che può dirsi chiacchierata, è storia vescica”. E dunque fa pipì?
La storia dopo sant’Agostino è certo cristiana. Anche se non lo è. È la cifra decisiva dell’Occidente, ha scoperto Croce, che, anche se non ha o non pratica la fede, continua a pensare in modo cristiano. Per sant’Agostino la storia è una guerra che dura fino alla fine del mondo, tra la civitas Dei e la civitas diaboli. E questo è reazionario e poco cristiano. Porta infatti a De Bonald: “La storia? Un branco di ciechi, guidati da un cieco che procede a tentoni, aiutandosi con un bastone”. E a Donoso Cortès che gli rispondeva: “La storia universale è soltanto il beccheggiare di una nave alla deriva con un equipaggio di marinai ubriachi che ballano e cantano a squarciagola, finché Dio non affonda la nave perché torni a regnare il silenzio”. A meno che il cristianesimo, con tutto l’Occidente, non sia reazionario. La storia è cristiana per il senso della durata che è inerente alla religione. Quella cristiana sacralizza la storia, la trasforma in teofania. A partire dall’anno Mille, assicura Duby. Dunque, la storia comincia nell’anno Mille. Del calendario cristiano. Quando la chiesa gli amplessi disse vergogna, si rivestì di viola, e il Cristo mise in croce, che prima era giovane e vispo per la gioia della Resurrezione.
Virtù – È il muro della realtà, il punto d’inciampo e la colonna dell’edificio: non c’è reale senza. Un mondo inquinato, corrotto, violento, traditore, semplicemente non esisterebbe. C’è il ladro in quanto ci sono case oneste in cui rubare. Lo spergiuro dà per scontata la buonafede dei più. Il prevaricatore esiste (può esercitarsi) in quanto l’affidabilità è la norma. Perché questo è: il male si prevale del bene.
zeulig@antiit.eu
Dio – È morto solo in Occidente, in Europa. Che attraverso la Riforma e le opere della Controriforma si era avvezzata a un Dio personale, la cui immagine era definita e anche familiare. Con la perdita dell’immaginazione e della personalità diventa impossibile ogni fede, e inutile o svanita ogni immagine di Dio. Che ritorna, è comunque possibile, come un Dio impersonale, astratto. Cui far riferimento con assiomi filosofico-teologici o con radici linguistiche (letterarie).
Dio è morto sancisce un ritorno all’antico, all’imperscrutabilità di Dio, della Bibbia come di Budda.
Sarà onnisciente, ma è uno che non intercetta. L’intercettazione è una trappola: si osserva e (perché) si è osservati. Una attività a somma zero, cui Dio si sottrae per essere, per definizione e non solo nella Bibbia, nascosto, segreto. È la sua sfera di libertà e anche la sua natura. Se deve muovere un rimprovero o comminare una sanzione non ha del resto bisogno di giustificarsi.
Questo non vuol dire che l’intercettatore non è un dio: ci sono tanti dei, c’è un mercato anche della divinità. Ma non quello che si pensava.
Ermeneutica – Non può prendersi sul serio.
Se non con la chiave del dubbio (dell’ironia, del gioco).
Indiscrezione – Sotto la forma dell’intercettazione, legale o letteraria, della videosorveglianza, o di google, è la forma di comunicazione prevalente, in questa epoca che pure si vuole della privacy. Friedrich Dürrenmatt prospetta in “L’incarico” un mondo ipersorvegliato, dove tutti controllano tutti, con un miriade di satelliti geostazionari. Ne fa la filosofia come una superfetazione di “1984”, che non cita, ma di un universo concentrazionario non politico, senza poteri individuabili. Dürrenmatt ne scrive nell’ottica salvifica antibellicista, che vede nel male un esito della malvagità dei promotori di guerre. Mentre invece questa “visibilità totale” è una sorta di guerra hobbesiana, di tutti contro tutti. Senza alcun esito apprezzabile, né progettuale né casuale, se non una distruzione sempre più ubuesca - “L’incarico” si svolge e si conclude in maniera insoddisfacente, malgrado il linguaggio astruso, iperletterario, come una storia da B-film, del genere splatter, di lacerti sanguinolenti in vista.
Ironia - Il contrasto anima l’ironia, il ridicolo, lo scherzo. Ma è (resta) verità. Dà spessore all’ipertesto, ne vivifica gli echi, lo alleggerisce: una trivella che consente una rilettura a più livelli – la chiave della Cabala, della rilettura costante, dell’ermeneutica.
Un grimoire senza oscurità - intessuto di eventi noti.
Oppure no, l’ironia (Swift, Voltaire, anche Sterne) è un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: per questo dissecca.
Male – È mancanza. È quindi in funzione del bene. Mentre il bene è possibile e immaginabile, reale, senza il male, il contrario non è possibile – non c’è il mondo se non c’è il bene. Un mondo di solo male è immaginabile ma defunto, da sempre.
Storia - Non è mai ricostruzione di un dato passato. La storia non è, o lo è soltanto in misura limitata, un prodotto della scuola. È erudita, vuol’esserlo, deve esserlo. Ma dev’essere considerata “scienza” inesatta per eccellenza, impensabile senza la teoria: il pensiero storico è sempre finalistico. La storia è condannata a divenire sociologia.
La storia è certo di una parte, lo spiega Huizinga. È un Gestalt. Una forma spirituale, come la letteratura, la filosofia, il diritto, la scienza, per comprendere in essa il mondo. È la forma dello spirito in cui una civiltà si rende conto del suo passato. Ogni civiltà produce la sua propria forma di storia. Che è sempre storia universale. Ma la storia non fornisce mai altro che una certa figurazione di un certo passato, un quadro comprensibile di un frammento - “frammento di frammenti” la dice Goethe, come la letteratura.
Febvre invece la vuole arte – anche questo è Occidente - e scienza, del passato e del presente. Un ramo della scienza delle comunicazioni, aggiunge Lévi-Strauss, per il quale “in ogni società la comunicazione ha luogo a tre livelli: scambio di beni e servizi, scambio di messaggi, scambio delle donne”. Non male. È sempre una signora molto esigente, trovava Giorgio Spini in polemica col professor Spadolini, che non s’è mai sposato: richiede cultura internazionale, scaltrezza di metodo, pesante fatica, anche fisica, di ricerca delle fonti. Ed è bene in carne, si spera, poiché va fatta propria.
Gentile è di altro avviso: “La storia non è l’essenza di Parmenide ma l’idea di Platone”, un’idea che, attraverso il concetto socratico, è “trasposizione della natura”. L’idea platonica fonda la logica aristotelica, governata dal principio d’identità, che si riflette e articola nella non contraddizione e nel terzo escluso, “per cui il pensiero vero, che è, più che il pensiero, la verità oggetto del pensiero vero, sé in sé rigira”. La storia è dunque masturbatoria: “Il concetto di circolo giova a definire con esattezza la natura del fatto storico”. Ma niente si pensa se non partendo dalla storia, “in cui l’oggetto si pone come quello che esiste”. E “la speculazione deve abbracciarsi alla storia, come il concetto all’intuizione”. Morto il positivismo resta il positivo, cioè la storia. Nella quale “il pensare è un continuo divorare, e richiede pertanto sempre materia da maciullare”, spiega il filosofo di Mussolini: “La storia costruita con formule o concet-ti, storia che può dirsi chiacchierata, è storia vescica”. E dunque fa pipì?
La storia dopo sant’Agostino è certo cristiana. Anche se non lo è. È la cifra decisiva dell’Occidente, ha scoperto Croce, che, anche se non ha o non pratica la fede, continua a pensare in modo cristiano. Per sant’Agostino la storia è una guerra che dura fino alla fine del mondo, tra la civitas Dei e la civitas diaboli. E questo è reazionario e poco cristiano. Porta infatti a De Bonald: “La storia? Un branco di ciechi, guidati da un cieco che procede a tentoni, aiutandosi con un bastone”. E a Donoso Cortès che gli rispondeva: “La storia universale è soltanto il beccheggiare di una nave alla deriva con un equipaggio di marinai ubriachi che ballano e cantano a squarciagola, finché Dio non affonda la nave perché torni a regnare il silenzio”. A meno che il cristianesimo, con tutto l’Occidente, non sia reazionario. La storia è cristiana per il senso della durata che è inerente alla religione. Quella cristiana sacralizza la storia, la trasforma in teofania. A partire dall’anno Mille, assicura Duby. Dunque, la storia comincia nell’anno Mille. Del calendario cristiano. Quando la chiesa gli amplessi disse vergogna, si rivestì di viola, e il Cristo mise in croce, che prima era giovane e vispo per la gioia della Resurrezione.
Virtù – È il muro della realtà, il punto d’inciampo e la colonna dell’edificio: non c’è reale senza. Un mondo inquinato, corrotto, violento, traditore, semplicemente non esisterebbe. C’è il ladro in quanto ci sono case oneste in cui rubare. Lo spergiuro dà per scontata la buonafede dei più. Il prevaricatore esiste (può esercitarsi) in quanto l’affidabilità è la norma. Perché questo è: il male si prevale del bene.
zeulig@antiit.eu
giovedì 26 luglio 2012
Rousseau maestro di Casanova
Con “Le confessioni” Rousseau inaugura, come con ogni sua opera, un genere. Qui è il genere libertino, che rinverdisce e sostanzia, levandolo fuori dal pruriginoso e facendone modo d’essere. A tratti, dimenticando l’autore, sembra di essere nelle “Memorie” di Casanova. Meno prolisse (ma non di molto), e altrettanto disinibite.
Il fondo è diverso, essenzialmente per il penchant fantastico, della vita e della letteratura: il gusto della natura, il tormento dell’isolamento, la narrazione come terapia contro la depressione e l’abiezione. Ma l’esito è altrettanto volage, non solo per la licenza sessuale.
Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni
Il fondo è diverso, essenzialmente per il penchant fantastico, della vita e della letteratura: il gusto della natura, il tormento dell’isolamento, la narrazione come terapia contro la depressione e l’abiezione. Ma l’esito è altrettanto volage, non solo per la licenza sessuale.
Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni
Informazione allucinazione
Avviene di leggere un libro recente, il “Papago” di Andrea Cappai, di cui tutti hanno scritto, e di scoprirvi che Mario Moretti, il capo delle Br, NON voleva sparare ai delfini, come invece tutti hanno scritto, con ovvio orrore. Perché non avevano letto il libro? Costa poco e si legge in un’ora, meno. Forse per non dire quello che Gidoni dice – lo psichiatra ex Br che racconta il fatto a Cappai: 1) che le Br erano parte di un circuito internazionale (progetto, preparazione, logistica), 2) di estrema professionalità: abbordaggio in alto mare, all’ora e alle coordinate fissate, trasbordo di tonnellate di armi in pochi minuti (“dieci”), solidità dello stivaggio (il carico non si muove col mare “in burrasca”, onde di sette metri), 3) con un’organizzazione palestinese, 4) filosovietica: i brigatisti salutano con “¡Hasta la victoria!”, i muti palestinesi rispondono “¡Siempre!”. Roba comunque da prima pagina: “Il più grande trasporto clandestino di armi mai avvenuto in Italia, al di fuori delle grandi guerre mondiali”.
Avviene invece di NON leggere, nel tormentone successivo, che la Procura di Palermo non ha fatto niente, in venti anni, per trovare gli assassini di Borsellino e degli agenti di scorta. E che, anche a credere all’atto di accusa per favoreggiamento con cui conclude le indagini, contro dodici uomini politici, generali dei carabinieri e dirigenti di Stato, lo stesso atto: 1) dà largo credito a Massimo Ciancimino, mafioso in attività e imbroglione riconosciuto, e 2) afferma di non sapere chi e come nei servizi segreti partecipò all’agguato.
Avviene invece di NON leggere, nel tormentone successivo, che la Procura di Palermo non ha fatto niente, in venti anni, per trovare gli assassini di Borsellino e degli agenti di scorta. E che, anche a credere all’atto di accusa per favoreggiamento con cui conclude le indagini, contro dodici uomini politici, generali dei carabinieri e dirigenti di Stato, lo stesso atto: 1) dà largo credito a Massimo Ciancimino, mafioso in attività e imbroglione riconosciuto, e 2) afferma di non sapere chi e come nei servizi segreti partecipò all’agguato.
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mercoledì 25 luglio 2012
ll mondo com'è - 103
astolfo
Capitalismo - Il solo frutto duraturo della Rivoluzione francese è Ouvrard, il capitalista. Che non aveva vent’anni nell’‘89, capì che ci volevano carta e manifesti, e l’anno dopo era ricco. A ventuno capì che ci sarebbe stata la guerra, a venticinque apriva una banca. Marx che ne avrebbe detto, o un altro del’‘48, la primavera dei popoli, se ne avesse conosciuto l’utopia? Settimana di quaranta ore, un mese di ferie, riposo pagato per malattia e maternità, scuola gratuita, notizie per tutti a domicilio, e serate di canzoni e cosce nude per tirare su il morale – Bentham, che pure l’aveva pensata, a questo non arrivava, e comunque la sua utopia non l’ha realizzata.
Il fatto è assodato, e bisogna rifletterci. È la riprova o una smentita della dottrina liberista della società, che la democrazia e la ricchezza vede incrementarsi nello scambio? Ci sono dei residui: se il capitalista è il rivoluzionario, il rivoluzionario sarebbe un mafioso, e ciò non è possibile, crollano un paio di secoli e molta storia. Per quanto, la scomparsa di Napoli è anch’essa una forma di clandestinità, compatta, costante, decisa, e quindi di resistenza. La stessa organizzazione del crimine, la riservatezza, la struttura cellulare, i linguaggi criptici, le parole d’ordine, ricalca lo impianto della guerra partigiana. Analoga e fino alla morte è la reciproca lealtà tra gli affiliati. Analogo è il bisogno ricorrente di eventi eroicizzanti, la sfida, l’imboscata, l’amore delle guaglione, il silenzio sotto tortura. Un semiologo avrebbe problemi a non finire in una cosca piuttosto che in un fronte di liberazione. La differenza è nella legge, ma è tenue: qualsiasi giudice lo sa, ministro della legge. È un capitalismo che nega, anch’esso. E anzi si ammanta del bisogno. Di disoccupazione e soprusi. Un capitalismo anticapitalista, che capitalizza cioè pure sulle ragioni dell’anticapita-lismo. Da qui il nimbo di resistenza che corona la latitanza.
Gattopardo – “Per il Re, certo, ma per quale Re? E: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. L’ideologia della nuova Sicilia, e della nuova Italia, che “Il Gattopardo” sintetizza non è del Principe filosofo e inetto don Fabrizio ma del giovane scaltro nipote Tancredi, che per prima cosa nella sua strategia gli ha rubato il cuore.
Il principe zio don Fabrizio, il Principone protagonista, naturalmente è d’accordo, ma perché per prima cosa Tancredi nella sua strategia gli ha rubato il cuore. I due concordano che il cambiamento è “dialetto piemontese invece che napoletano”, di re comunque buzzurri e incapaci. Ma nel fondo del Principe zio il sentimento è costante che, se i “piemontesi” sono sciocchi, Tancredi è furbo.
La pagina vera della politica di Salina-Lampedusa è quella sul plebiscito monolitico, a metà della Parte Terza del romanzo, prima della degradante domanda di matrimonio della nipote di Peppe ‘Mmerda. Una pagina semplice e durissima. Don Fabrizio è inquieto. Non sa perché, ma “sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno, era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare”. Finché il suo compagno di caccia che ha votato “no” e ha visto il suo voto cassato non gl scioglie “l’enigma: adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede”. La conseguenza è la “storpiatura delle anime”: “Centomila «no» in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime”. Prima c’era la reazione. L’Italia si presenta con “le parole molli dell’usuraio: «Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda, la cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra!»”.
La storia nel “Gattopardo”, le date, gli avvenimenti, non sono casuali, l’ideologia della nuova Italia è nuova: è italiana, la vecchia Sicilia non c’entra. Ma è anche vero che l’interprete e l’emblema dell’Italia unita, il suo eponimo-eroe e il suo giudice, è un principe saccente, che si pone fuori dalla storia. Spregiatore del mondo, con un nipote furbo e corrotto nel quale si specchia.
Imperialismo – È sempre stato più facile fare affari negli Usa e con gli americani che in Francia o con i francesi, per non dire in Germania o con i tedeschi. L’impero è più generoso e apre più prospettive che il nazionalismo. Anche se ne è (in parte) una proiezione. Il nazionalismo è invece sempre asfittico.
Sarà stato, come ora in Iraq e Afghanistan, l’impresa meno redditizia e più disastrosa della storia. Quello inaugurato dalla gran Bretagna in concorrenza con l’Olanda, imitato dalla Francia, e sancito a Berlino nel 1885. La Conquista era stata redditizia. Così come poi la tratta degli schiavi: si può anche dire che sia stata l’avidità la molla del delitto. Ma la sottomissione di paesi e popoli remoti fu un’impresa perdente, anche quando non fu contestata. L’economista eterodosso della London School of Economics, P.T.Bauer, aveva compilato tavole, negli anni 1960, da cui risultava che le partite correnti con gli ex territori erano sempre state in perdita per la madrepatria (spese militari, stipendi, sedi, viaggi, un minimo di infrastrutture).
Intellettuali - L’intellighencija Riccardo Picchio aveva delineato già nel 1952, prima che diventasse materia della propaganda occidentale nella guerra fredda, come un fenomeno slavo, e come una classe distinta – una forma di notabilato: “Nei paesi slavi gli intellettuali hanno raggiunto un’individualità notevolmente più spiccata che non in Occidente. Nel caso del secolo XIX essi hanno teso a superare la funzione di ceto per assumere quella di una vera e propria classe dirigente”. Il termine intellighencija “non vuole indicare semplicemente un insieme di persone dedite ad attività intellettuali , bensì una categoria speciale esprimente, attraverso le attività intellettuali, concezioni ad essa, e ad essa solo, proprie” (“Rassegna italiana”, XXIX, p. 329).
Mani Pulite – Se ne è parlato poco nel ventennale. Per non farne un’analisi critica? È stata ed è la politicizzazione della giustizia, e questo nessuno più lo nega, ma non se fa ancora una gnoseologia positiva – mentre l’ermeneutica è debole, del tipo televisivo. Si può anche dire che i corpi, o gli anticorpi, della “rivoluzione italiana”, come Mani Pulite si voleva, di questa come di tante altre, non sono promettenti: l’evidenza è nella qualità dei protagonisti, negli argomenti, nelle proposte, roba da Masaniello.
Non si sa ancora se è stata ed è evento accidentale, o prodroma di reale decadenza. Lo storico Furet, che pur avendo indagato l’idea comunista nel XX secolo riferendone come “Il passato di un’illusione”, ha scoperto tardi l’Italia, era indignato dall’ipocrisia della “rivoluzione” stessa, che per questo metteva tra virgolette, che la battaglia contro la corruzione fosse condotta dai più corrotti, e contro la mediocrità politica dai più mediocri. Al meglio, notava Arbasino, il social scientistdegli anni 1980-90, in “Paesaggi italiani” (“Stagioni morte”), “l’ex comunista che riscuote i dividendi delle attività non di Stalin o Togliatti o Berlinguer ma dei governi più faticosamente anticomunisti” di un passato “compromesso e rimosso”. La rimozione è totale per la giustizia politica, catastrofe delle moderne democrazie. Abbiamo reagito alla superfetazione della politica con una politica peggiore e più invasiva.
Manomorta – Nel “Gattopardo” è “il patrimonio dei poveri”. Anche nelle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, del 1862, a ridosso dell’unificazione e dell’applicazione delle leggi eversive. Se ne appropria la borghesia, sotto il pretesto dell’anticlericalismo, a vile prezzo, e senza limiti per il demanio e gli usi civici, per quell’avidità che ne resterà il segno distintivo. La borghesia non è una: in Francia è diversa, in Gran Bretagna è diversa che in Francia e in Italia, lo faceva notare Tocqueville e ognuno lo vede. In Italia nasce, si rafforza, e ne ha il complesso di colpa, con l’appropriazione della manomorta.
astolfo@antiit.eu
Capitalismo - Il solo frutto duraturo della Rivoluzione francese è Ouvrard, il capitalista. Che non aveva vent’anni nell’‘89, capì che ci volevano carta e manifesti, e l’anno dopo era ricco. A ventuno capì che ci sarebbe stata la guerra, a venticinque apriva una banca. Marx che ne avrebbe detto, o un altro del’‘48, la primavera dei popoli, se ne avesse conosciuto l’utopia? Settimana di quaranta ore, un mese di ferie, riposo pagato per malattia e maternità, scuola gratuita, notizie per tutti a domicilio, e serate di canzoni e cosce nude per tirare su il morale – Bentham, che pure l’aveva pensata, a questo non arrivava, e comunque la sua utopia non l’ha realizzata.
Il fatto è assodato, e bisogna rifletterci. È la riprova o una smentita della dottrina liberista della società, che la democrazia e la ricchezza vede incrementarsi nello scambio? Ci sono dei residui: se il capitalista è il rivoluzionario, il rivoluzionario sarebbe un mafioso, e ciò non è possibile, crollano un paio di secoli e molta storia. Per quanto, la scomparsa di Napoli è anch’essa una forma di clandestinità, compatta, costante, decisa, e quindi di resistenza. La stessa organizzazione del crimine, la riservatezza, la struttura cellulare, i linguaggi criptici, le parole d’ordine, ricalca lo impianto della guerra partigiana. Analoga e fino alla morte è la reciproca lealtà tra gli affiliati. Analogo è il bisogno ricorrente di eventi eroicizzanti, la sfida, l’imboscata, l’amore delle guaglione, il silenzio sotto tortura. Un semiologo avrebbe problemi a non finire in una cosca piuttosto che in un fronte di liberazione. La differenza è nella legge, ma è tenue: qualsiasi giudice lo sa, ministro della legge. È un capitalismo che nega, anch’esso. E anzi si ammanta del bisogno. Di disoccupazione e soprusi. Un capitalismo anticapitalista, che capitalizza cioè pure sulle ragioni dell’anticapita-lismo. Da qui il nimbo di resistenza che corona la latitanza.
Gattopardo – “Per il Re, certo, ma per quale Re? E: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. L’ideologia della nuova Sicilia, e della nuova Italia, che “Il Gattopardo” sintetizza non è del Principe filosofo e inetto don Fabrizio ma del giovane scaltro nipote Tancredi, che per prima cosa nella sua strategia gli ha rubato il cuore.
Il principe zio don Fabrizio, il Principone protagonista, naturalmente è d’accordo, ma perché per prima cosa Tancredi nella sua strategia gli ha rubato il cuore. I due concordano che il cambiamento è “dialetto piemontese invece che napoletano”, di re comunque buzzurri e incapaci. Ma nel fondo del Principe zio il sentimento è costante che, se i “piemontesi” sono sciocchi, Tancredi è furbo.
La pagina vera della politica di Salina-Lampedusa è quella sul plebiscito monolitico, a metà della Parte Terza del romanzo, prima della degradante domanda di matrimonio della nipote di Peppe ‘Mmerda. Una pagina semplice e durissima. Don Fabrizio è inquieto. Non sa perché, ma “sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno, era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare”. Finché il suo compagno di caccia che ha votato “no” e ha visto il suo voto cassato non gl scioglie “l’enigma: adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede”. La conseguenza è la “storpiatura delle anime”: “Centomila «no» in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime”. Prima c’era la reazione. L’Italia si presenta con “le parole molli dell’usuraio: «Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda, la cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra!»”.
La storia nel “Gattopardo”, le date, gli avvenimenti, non sono casuali, l’ideologia della nuova Italia è nuova: è italiana, la vecchia Sicilia non c’entra. Ma è anche vero che l’interprete e l’emblema dell’Italia unita, il suo eponimo-eroe e il suo giudice, è un principe saccente, che si pone fuori dalla storia. Spregiatore del mondo, con un nipote furbo e corrotto nel quale si specchia.
Imperialismo – È sempre stato più facile fare affari negli Usa e con gli americani che in Francia o con i francesi, per non dire in Germania o con i tedeschi. L’impero è più generoso e apre più prospettive che il nazionalismo. Anche se ne è (in parte) una proiezione. Il nazionalismo è invece sempre asfittico.
Sarà stato, come ora in Iraq e Afghanistan, l’impresa meno redditizia e più disastrosa della storia. Quello inaugurato dalla gran Bretagna in concorrenza con l’Olanda, imitato dalla Francia, e sancito a Berlino nel 1885. La Conquista era stata redditizia. Così come poi la tratta degli schiavi: si può anche dire che sia stata l’avidità la molla del delitto. Ma la sottomissione di paesi e popoli remoti fu un’impresa perdente, anche quando non fu contestata. L’economista eterodosso della London School of Economics, P.T.Bauer, aveva compilato tavole, negli anni 1960, da cui risultava che le partite correnti con gli ex territori erano sempre state in perdita per la madrepatria (spese militari, stipendi, sedi, viaggi, un minimo di infrastrutture).
Intellettuali - L’intellighencija Riccardo Picchio aveva delineato già nel 1952, prima che diventasse materia della propaganda occidentale nella guerra fredda, come un fenomeno slavo, e come una classe distinta – una forma di notabilato: “Nei paesi slavi gli intellettuali hanno raggiunto un’individualità notevolmente più spiccata che non in Occidente. Nel caso del secolo XIX essi hanno teso a superare la funzione di ceto per assumere quella di una vera e propria classe dirigente”. Il termine intellighencija “non vuole indicare semplicemente un insieme di persone dedite ad attività intellettuali , bensì una categoria speciale esprimente, attraverso le attività intellettuali, concezioni ad essa, e ad essa solo, proprie” (“Rassegna italiana”, XXIX, p. 329).
Mani Pulite – Se ne è parlato poco nel ventennale. Per non farne un’analisi critica? È stata ed è la politicizzazione della giustizia, e questo nessuno più lo nega, ma non se fa ancora una gnoseologia positiva – mentre l’ermeneutica è debole, del tipo televisivo. Si può anche dire che i corpi, o gli anticorpi, della “rivoluzione italiana”, come Mani Pulite si voleva, di questa come di tante altre, non sono promettenti: l’evidenza è nella qualità dei protagonisti, negli argomenti, nelle proposte, roba da Masaniello.
Non si sa ancora se è stata ed è evento accidentale, o prodroma di reale decadenza. Lo storico Furet, che pur avendo indagato l’idea comunista nel XX secolo riferendone come “Il passato di un’illusione”, ha scoperto tardi l’Italia, era indignato dall’ipocrisia della “rivoluzione” stessa, che per questo metteva tra virgolette, che la battaglia contro la corruzione fosse condotta dai più corrotti, e contro la mediocrità politica dai più mediocri. Al meglio, notava Arbasino, il social scientistdegli anni 1980-90, in “Paesaggi italiani” (“Stagioni morte”), “l’ex comunista che riscuote i dividendi delle attività non di Stalin o Togliatti o Berlinguer ma dei governi più faticosamente anticomunisti” di un passato “compromesso e rimosso”. La rimozione è totale per la giustizia politica, catastrofe delle moderne democrazie. Abbiamo reagito alla superfetazione della politica con una politica peggiore e più invasiva.
Manomorta – Nel “Gattopardo” è “il patrimonio dei poveri”. Anche nelle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, del 1862, a ridosso dell’unificazione e dell’applicazione delle leggi eversive. Se ne appropria la borghesia, sotto il pretesto dell’anticlericalismo, a vile prezzo, e senza limiti per il demanio e gli usi civici, per quell’avidità che ne resterà il segno distintivo. La borghesia non è una: in Francia è diversa, in Gran Bretagna è diversa che in Francia e in Italia, lo faceva notare Tocqueville e ognuno lo vede. In Italia nasce, si rafforza, e ne ha il complesso di colpa, con l’appropriazione della manomorta.
astolfo@antiit.eu
Fuori della “linea”, nel “cono d’ombra”
Con un’ampia nota biografica, in una collana che vuole riportare alla memoria i letterati toscani di metà Novecento (Bigongiari, Parronchi, etc.), due racconti del volume “Gli anni e gli inganni” (1965). Una delle poche opere riedite di un autore prolifico e già molto amato. Autore ferace di racconti - anche della Resistenza che non aveva praticato - dà qui forte la malinconia del fascismo: la gioventù littoria, le parate, il vuoto.
Venturi “nacque” alla letteratura con Vittorini, fu giornalista con Calvino all’“Unità”, e con lui premiato a Genova nel 1947 e poi candidato al Viareggio, grande amore di Anna Maria Ortese, che lo ricorderà in “Poveri e semplici” e “Il cappello piumato”, editore apprezzato con Feltrinelli nei primi anni di attività, per il quale diresse la Universale Economica, dopo Bianciardi. Con l’abiura del comunismo dopo l’Ungheria, era però già caduto nel “cono d’ombra”, il limbo del politicamente non corretto, allora si diceva “non in linea”. Che sembra funzionare peggio ora che non c’è il Partito, nonché il sovietismo. Malgrado le cure postume della moglie, anch’essa letterata, Camilla Salvago Raggi.
Marcello Venturi, Mio nonno e Mussolini, Via del Vento, pp. 35 € 4
Venturi “nacque” alla letteratura con Vittorini, fu giornalista con Calvino all’“Unità”, e con lui premiato a Genova nel 1947 e poi candidato al Viareggio, grande amore di Anna Maria Ortese, che lo ricorderà in “Poveri e semplici” e “Il cappello piumato”, editore apprezzato con Feltrinelli nei primi anni di attività, per il quale diresse la Universale Economica, dopo Bianciardi. Con l’abiura del comunismo dopo l’Ungheria, era però già caduto nel “cono d’ombra”, il limbo del politicamente non corretto, allora si diceva “non in linea”. Che sembra funzionare peggio ora che non c’è il Partito, nonché il sovietismo. Malgrado le cure postume della moglie, anch’essa letterata, Camilla Salvago Raggi.
Marcello Venturi, Mio nonno e Mussolini, Via del Vento, pp. 35 € 4
martedì 24 luglio 2012
Prepararsi al peggio
È fantascienza, ma bisogna prepararvisi. Era fantascienza la “stupidità” della Germania, e invece è qui. E non della massa imbelle o dei giornali scandalistici, ma della Bundesbank, degli economisti, del Bundestag, della Corte Costituzionale. Che razionalizzando si vorrebbe furbizia, ma è proprio stupidità: insieme con l’Europa svanisce la Germania. La metà europea e quella “cinese” o globalizzata.
Bisogna pensare e fare “come se” l’Europa non esistesse. Se non come mercato residuo: non marginale ma non esclusivo e alla fine, inevitabilmente, non prevalente. Bisogna cercare sponde nella globalizzazione, che finora non ha tradito, benché sospetta a molti. Con gli Usa, la stessa Cina e il resto dell’Asia, con l’America Latina, coi fondi arabi, con Putin – gli accordi con Putin, per quanto limitati, saranno stati l’unica cosa “sensata” (effettuabile, conveniente, di futuro) di Monti in otto mesi di governo.
Che l’euro possa resistere come marco, attorno alla Germania, al suo volubile Parlamento e all’impenetrabile Corte Federale, è illusione. In entrambi i casi. Che ci sia cioè una speculazione contro l’euro, o che l’euro crolli perché la Germania lo vuole. I due casi peraltro convergono: la speculazione non è un complotto di alcuni signori, ma un modo di porsi dei mercati in previsione del futuro, e i mercati del futuro operano come se l’euro non esistesse più, neanche sotto forma di marco. Il perché è semplice e dice che non c’è Germania senza l’euro, non più dopo l’euro e il fallimento dell’euro.
Essendo la Germania più o meno terra incognita, non si sa una cosa evidentissima: che la Germania considera l’Europa e l’euro come suo feudo. Come sue estensione benevola e ai suoi ordini. Questa Germania, di Berlino, dopo l’unificazione. Nessuno parla mai in Germania di interessi europei di cui la Germania è parte. Con l’eccezione di Helmut Schmidt, che ha 94 anni.
Il miracolo tedesco è peraltro transitorio. Si regge infatti su condizioni insostenibili. Sul resto dell’Ue che essa ha jugulato nei tre anni in cui la crisi è stata europea. Su quattro o cinque milioni di mini-retribuzioni per sostenere le esportazioni. Su un debito che solo un artificio contabile (trasferendo cioè tutta la spesa pubblica per l’economia, oggi 500 miliardi di euro, a un Kreditanstalt solo nominalmente di diritto privato) consente di dire contenuto. Finirà col crollo della domanda interna. E della domanda estera.
Buona parte del miracolo tedesco deriva storicamente dall’integrazione della parte meridionale della Germania, l’asse Monaco-Stoccarda, col Lombardo-Veneto, e quindi ne risentirà la crisi. Questo è il nocciolo del problema da risolvere: dare al Lombardo-Veneto una prospettiva produttiva non più tedesca, come è stato nell’ultimo mezzo secolo. È un problema italiano – che sia anche tedesco a questo punto non interessa e non risolve: dare altri sbocchi, trovare altre commesse, al lavoro italiano.
C’era un equivoco in questa Europa. Che fu solidale e convergente sotto le ferula degli Usa, con la politica del dollaro e la Nato, e la minaccia sovietica alle porte. Dissoltasi la minaccia, restano le spinte divergenti di sempre. Si può anche dire che la storia è come se non ci fosse stata, l’Europa è quella che era, rissosa - basta scorrere i giornali tedeschi, i più qualificati. Al Fondo Monetario Internazionale gli Usa faticano a calmare le impazienze delle nuove potenze economiche, dalla Cina al Brasile, che vorrebbero isolare o comunque trascurare l’Europa. È sempre stato più facile del resto fare affari negli Usa e con gli americani che in Francia o con i francesi, per non dire in Germania o con i tedeschi.
Bisogna pensare e fare “come se” l’Europa non esistesse. Se non come mercato residuo: non marginale ma non esclusivo e alla fine, inevitabilmente, non prevalente. Bisogna cercare sponde nella globalizzazione, che finora non ha tradito, benché sospetta a molti. Con gli Usa, la stessa Cina e il resto dell’Asia, con l’America Latina, coi fondi arabi, con Putin – gli accordi con Putin, per quanto limitati, saranno stati l’unica cosa “sensata” (effettuabile, conveniente, di futuro) di Monti in otto mesi di governo.
Che l’euro possa resistere come marco, attorno alla Germania, al suo volubile Parlamento e all’impenetrabile Corte Federale, è illusione. In entrambi i casi. Che ci sia cioè una speculazione contro l’euro, o che l’euro crolli perché la Germania lo vuole. I due casi peraltro convergono: la speculazione non è un complotto di alcuni signori, ma un modo di porsi dei mercati in previsione del futuro, e i mercati del futuro operano come se l’euro non esistesse più, neanche sotto forma di marco. Il perché è semplice e dice che non c’è Germania senza l’euro, non più dopo l’euro e il fallimento dell’euro.
Essendo la Germania più o meno terra incognita, non si sa una cosa evidentissima: che la Germania considera l’Europa e l’euro come suo feudo. Come sue estensione benevola e ai suoi ordini. Questa Germania, di Berlino, dopo l’unificazione. Nessuno parla mai in Germania di interessi europei di cui la Germania è parte. Con l’eccezione di Helmut Schmidt, che ha 94 anni.
Il miracolo tedesco è peraltro transitorio. Si regge infatti su condizioni insostenibili. Sul resto dell’Ue che essa ha jugulato nei tre anni in cui la crisi è stata europea. Su quattro o cinque milioni di mini-retribuzioni per sostenere le esportazioni. Su un debito che solo un artificio contabile (trasferendo cioè tutta la spesa pubblica per l’economia, oggi 500 miliardi di euro, a un Kreditanstalt solo nominalmente di diritto privato) consente di dire contenuto. Finirà col crollo della domanda interna. E della domanda estera.
Buona parte del miracolo tedesco deriva storicamente dall’integrazione della parte meridionale della Germania, l’asse Monaco-Stoccarda, col Lombardo-Veneto, e quindi ne risentirà la crisi. Questo è il nocciolo del problema da risolvere: dare al Lombardo-Veneto una prospettiva produttiva non più tedesca, come è stato nell’ultimo mezzo secolo. È un problema italiano – che sia anche tedesco a questo punto non interessa e non risolve: dare altri sbocchi, trovare altre commesse, al lavoro italiano.
C’era un equivoco in questa Europa. Che fu solidale e convergente sotto le ferula degli Usa, con la politica del dollaro e la Nato, e la minaccia sovietica alle porte. Dissoltasi la minaccia, restano le spinte divergenti di sempre. Si può anche dire che la storia è come se non ci fosse stata, l’Europa è quella che era, rissosa - basta scorrere i giornali tedeschi, i più qualificati. Al Fondo Monetario Internazionale gli Usa faticano a calmare le impazienze delle nuove potenze economiche, dalla Cina al Brasile, che vorrebbero isolare o comunque trascurare l’Europa. È sempre stato più facile del resto fare affari negli Usa e con gli americani che in Francia o con i francesi, per non dire in Germania o con i tedeschi.
Problemi di base - 109
spock
Il libor è stato manipolato, e l’euribor no?
Da chi imparò Adamo a parlare? Allora non c’era l’imprinting. Da Dio?
E i numeri? Dio conta?
E Eva, imparò da Adamo?
Soap a Palermo, a palazzo di Giustizia, con Dell’Utri che ricatta Berlusconi, “Forum” e il “Grande Fratello” insieme: ma paga Publitalia-Mediaset?
È Dell’Utri che si fa pubblicità?
Ma Borsellino chi l’ha ucciso, Ciampi o Napolitano?
Perché nessuno commemora mai Rocco Chinnici?
E Squinzi per chi tira la volata, per Prodi?
spock@antiit.eu
Il libor è stato manipolato, e l’euribor no?
Da chi imparò Adamo a parlare? Allora non c’era l’imprinting. Da Dio?
E i numeri? Dio conta?
E Eva, imparò da Adamo?
Soap a Palermo, a palazzo di Giustizia, con Dell’Utri che ricatta Berlusconi, “Forum” e il “Grande Fratello” insieme: ma paga Publitalia-Mediaset?
È Dell’Utri che si fa pubblicità?
Ma Borsellino chi l’ha ucciso, Ciampi o Napolitano?
Perché nessuno commemora mai Rocco Chinnici?
E Squinzi per chi tira la volata, per Prodi?
spock@antiit.eu
La fedeltà libera
In una collana di filosofia dello svago (il feuilleton, i Wu Ming, “Sex & the City”, Harry Potter, la chirurgia estetica), e con una bibliografia troppo francese, un tema e una trattazione per molti aspetti eccezionali. Nella Roma di Cicerone la fedeltà era la virtù massima e un obbligo di legge. Nella filosofia no. La fedeltà porta, nel suo duplice senso, a concetti gravi ma disusati. In senso attivo, come adempimento degli obblighi sottoscritti, conduce a lealtà, sincerità onore. In senso passivo, dell’affidabilità o costanza di temperamento e passioni, alla coerenza, e perfino a un impegno costruttivo, a “una sorta di interruzione del tempo”, del suo presagio di decadenza. Parole importanti ma da generazioni disusate. Michela Marzano apre quindi uno sterminato programma. Anche per i “contrari” che indirettamente rimette in circolo, come l’ipocrisia, la volubilità, “la fedeltà nello sproposito” (Jankélévitch). Partendo da una conclusione apertissima: “La fedeltà non è una parola. È un atto”.
Un’indagine piena di sorprese, come di ogni opera pionieristica. Cartesio, Montaigne, Rousseau, spiriti liberi per eccellenza, diffidavano della fedeltà. Simmel pure. Foucault, sotto il pretesto di spiegarla, pure. E Jankélévitch, che l’ha sfiorata nel quadro di “Les Vertus et l’Amour”. Sono propriamente le virtù, che non piacciono, il tema desueto ddella filosofia. La fedeltà è un concetto di “profonda polisemia”, che Marzano individua come forma polisemica di virtù: “sociale”, “teologale” e “privata”. Approfondendone quest’ultima forma.
La fedeltà è uno spazio che gli individui aprono nella loro finitezza, “uno spazio di ospitalità di se stessi”, o “accettazione dei propri difetti”. E uno spazio d’incontro: con le “parole” (date, promesse, ricostruzioni), il “corpo” (condiviso), i “ricordi” (familiari). In mutazione quindi, ma su un fondo di stabilità - che è il senso profondo della parola, di ogni parola. È la “ripetizione” di Kierkegaard, ma anche uno spazio di libertà, “un intervallo a partire dal quale è offerta a tutti la possibilità di essere vivi, avere desideri”. In termini valutativi, la fedeltà è “autentica”: “Dà alla singolarità di ogni individuo indici di esistenza. Nell’intervallo mutevole e irrimediabile “tra l’ «io» e il «tu»”.
Michela Marzano, La fedeltà o il vero amore, Il Melangolo, pp. 111 € 13
Un’indagine piena di sorprese, come di ogni opera pionieristica. Cartesio, Montaigne, Rousseau, spiriti liberi per eccellenza, diffidavano della fedeltà. Simmel pure. Foucault, sotto il pretesto di spiegarla, pure. E Jankélévitch, che l’ha sfiorata nel quadro di “Les Vertus et l’Amour”. Sono propriamente le virtù, che non piacciono, il tema desueto ddella filosofia. La fedeltà è un concetto di “profonda polisemia”, che Marzano individua come forma polisemica di virtù: “sociale”, “teologale” e “privata”. Approfondendone quest’ultima forma.
La fedeltà è uno spazio che gli individui aprono nella loro finitezza, “uno spazio di ospitalità di se stessi”, o “accettazione dei propri difetti”. E uno spazio d’incontro: con le “parole” (date, promesse, ricostruzioni), il “corpo” (condiviso), i “ricordi” (familiari). In mutazione quindi, ma su un fondo di stabilità - che è il senso profondo della parola, di ogni parola. È la “ripetizione” di Kierkegaard, ma anche uno spazio di libertà, “un intervallo a partire dal quale è offerta a tutti la possibilità di essere vivi, avere desideri”. In termini valutativi, la fedeltà è “autentica”: “Dà alla singolarità di ogni individuo indici di esistenza. Nell’intervallo mutevole e irrimediabile “tra l’ «io» e il «tu»”.
Michela Marzano, La fedeltà o il vero amore, Il Melangolo, pp. 111 € 13
lunedì 23 luglio 2012
L’occhio dell’uomo è il diavolo
L’universo carcerario di Dürrenmatt è trasposto in Marocco, dove diventa più soffocante, tra sudori, eccessive magrezze, eccessive grassezze, lingue sconosciute, e trame di tutti contro tutti. Nello stile affastellato, “centro-europeo” si può dire, del freudiano flusso di coscienza, esemplificato da Bernhard, 24 capitoli 24 lunghe frasi, ma senza urgenza interna, giusto per dare velocità a un racconto che – se proprio si vuole prenderlo sul serio – è un’apologia antibellica, neanche di buona lega retorica.
La gnoseologia del mondo che si sorveglia – tutti controllano tutti - non è male, una sorta di occhio diabolico, o del male. Ma la scenografia splatter rende il racconto, oltre che inutilmente arzigogolato, indigesto.
Friedrich Dürrenmatt, L’incarico, pp. 107€ 14
La gnoseologia del mondo che si sorveglia – tutti controllano tutti - non è male, una sorta di occhio diabolico, o del male. Ma la scenografia splatter rende il racconto, oltre che inutilmente arzigogolato, indigesto.
Friedrich Dürrenmatt, L’incarico, pp. 107€ 14
Letture - 103
letterautore
Dialetto – Lampedusa lo usa come aggravante della mediocrità, nel suo caso di un re. Così era venuto usandolo Gadda nel “Pasticciaccio”, in chiave connotativa (ironica) e non realistica. Di efficacia espressiva ma in senso diminutivo, in funzione del ridicolo, della persona, delle situazioni..
In Pasolini cambia poco: è deprecativo, in funzione plebea.
Fama – Una svista a p. 99 dell’edizione italiana di “Maxima-Minima”, il libro delle annotazioni di Ernst Jünger al suo “L’Operaio”, riporta a “vent’anni fa” la rappresentazione visiva della “macchina della fama” da parte di Villiers de l’Isle Adam - che l’autore di “Eva futura” aveva divisato nel 1883, come uno (“La macchina della gloria”) dei “Racconti crudeli”. Riportandola quindi - Junger scriveva le annotazioni nel 1962-63, trent’anni dopo l’uscita dell’“Operaio” - al momento di svolta della guerra, nel 1942-43, dal trionfo al disastro. Come se si potesse supplire al reale con le proiezioni fantastiche.
Con la “macchina” Villiers modernizzava la fama, come una sorta di pubblicità, di sfera pubblica dei sentimenti e le aspettative – quella che sarà l’opinione pubblica. Ironizzando sul “fanatismo del progresso” nelle forme della pubblicità.
Filosofia – Va al festival, ma intristita. Se ne fanno festival, come del cinema e della canzone, anche con maggiore frequenza, ma tutti sempre un po’ abbacchiati. Senza entusiasmo e quasi senza convinzione. Sia dei filosofi che del pubblico, che pure, se partecipa, deve nutrire ancora speranze. Anche se i filosofi sono vedettes, di spiritualità o humour, un Enzo bianchi o un Eco. Le esposizioni sono lente, comunque non convincenti (appassionanti), i dibattiti forzosi.
Ora, è l’economia che è “scienza” triste, della filosofia non si era mai saputo. La filosofia si vuole solo letta? Non è possibile, è stata in antico arte oratoria, e anche nell’ultima sua incarnazione classica, mago Heidegger lo era della parola. O sono i festival che fanno triste la filosofia, la curvatura della filosofia a (piccola) manifestazione politica?
Gattopardo – Uno sguardo decomposto su un mondo che non lo è, le “persone influenti” (mafiosi) comprese. Si supponeva dallo stesso romanzo, Sedara è personaggio grottesco e negativo solo per gli snob. Si sa ora per certo dalla nuova più libera storiografia, che documenta Palermo e tutta la Sicilia ben vive e attive prima, durante e dopo la spedizione dei mille e la “liberazione” dell’isola. Gli odori sono fetori, le bellezze sfiorite, le gioie tristi, i sapori disgustosi, i viventi morti, sembra l’opera di un paranoico, benché arguto. La putrefazione vi è ossessiva, ogni segno depressivo, anche scopare.
Tutto in questo romanzo favoleggiato della nobiltà è rancido, spaventosamente sporco, fetido. Eccetto i cani. E ridicolo. Eccetto il ridicolissimo Principone, se stesso cioè: don Fabrizio posa attorno, sullo stesso nipote prediletto Tancredi a ben vedere, uno sguardo deluso. E, senza alcun titolo morale, di rimprovero. Irridente come lo scemo del villaggio, nobile certo. “Per le persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto”, attesta Lampedusa serio. Ma senza obbligo di divertire.
Ci sono molti biondi nel “Gattopardo”. Se se ne facesse una statistica allo stato civile è pure possibile che i biondi siano in Sicilia più dei mori, soprattutto le donne. Per la presenza normanna, che vi fu più lunga e invadente di quella araba, le successive razze vandaliche di Spagna. Verga era di pelo rosso. E gli uomini sono più alti e robusti che piccoli, l’industria delle confezioni lo sa, anche se molti sono lombardi.
Pennellate intensive di colore. Ripetute, memorabili. Memorabili per essere costanti, e tuttavia sempre di colore: “fanno il discorso”, cioè la Sicilia, ma sono al meglio battute di spirito, repartee al cocktail party.
Compongono anche un manuale della sicilianità, successivamente obbligata, per esempio in Sciascia. Compresi il sole e il mare. Palermo è “torva”, eccetera. In quanto donchisciottesco, vero al contrario. Lampedusa sopravvissuto alla pubblicazione non sarebbe stato sorpreso di essere preso sul serio? Aveva scritto un romanzo satirico.
L’irrisione è mescolata a un sottile immedesimazione di Lampedusa col Principone: Salina è scisso, a volte “intelligente (riflessivo).
Recensione – È di vario tipo, si sa: affettuosa, astiosa, riconoscente, critica anche, o commerciale, e perfino industriale – si scrive in più redazioni in casa editrice, smazzando poi le schede in base alla tipologia del veicolo recensorio. Ultimamente è spesso di rappresentanza, o di squadra – o dell’elogio riservato. Succede nelle epoche di transizione, quando non si sa che e chi prevarrà ed è opportuno tenere le posizioni.
Succede così. Il mezzo di comunicazione (giornale, radio, tv) s’impegna a presentare un’opera per un obbligo contratto con l’editore o con l’autore. E lo fa con coscienza, chiedendo a uno dei suoi migliori autori, più giovani, più promettenti, più in carriera, e disponibili, di farsi carico del lavoro. Che pubblica in posizione lusinghiera e con un quadro di riferimento pieno di elogi – miti e eroi. Ma succinta, e riservata, sotto un titolo insignificante. La recensione di rappresentanza o riservata serve a cementare legami potenti, nella (reciproca) estraneità. Ma significando al contempo che il giornale è “di più”, e tanto più se destina alla funzione di rappresentanza le sue penne migliori – promettenti, colte, di mondo.
Ottimi esempi ne reca ieri il supplemento domenicale del “Sole 24 Ore”. Con due recensioni, di un uomo di potere che si esercita alla filosofia, e di una potente casa editrice che ha fatto scrivere a un costituzionalista un romanzo di fantasmi – se è quello che si capisce dalla recensione. Affidate a Roberta De Monticelli e a Gabriele Pedullà. Che assolvono in modo impeccabile il compito: sono talmente eleganti nella perfidia che sembrano sprecati. E lo sono, ma non nel lavoro di squadra, col giornale.
Storia - La storia è di una parte, lo spiega Huizinga. È un Gestalt. Una forma spirituale, come la letteratura, la filosofia, il diritto, la scienza, per comprendere in essa il mondo. È la forma dello spirito in cui una civiltà si rende conto del suo passato. Ogni civiltà produce la sua propria forma di storia. Che è sempre storia universale. Ma la storia non fornisce mai altro che una certa figurazione di un certo passato, un quadro comprensibile di un frammento - “frammento di frammenti” la dice Goethe, come la letteratura.
Febvre invece la vuole arte – anche questo è Occidente - e scienza, del passato e del presente. Un ramo della scienza delle comunicazioni, aggiunge Lévi-Strauss, per il quale “in ogni società la comunicazione ha luogo a tre livelli: scambio di beni e servizi, scambio di messaggi, scambio delle donne”. Non male. È sempre una signora molto esigente, trovava Giorgio Spini in polemica col professor Spadolini, che non s’è mai sposato: richiede cultura internazionale, scaltrezza di metodo, pesante fatica, anche fisica, di ricerca delle fonti. Ed è bene in carne, si spera, poiché va fatta propria.
letterautore@antiit.eu
Dialetto – Lampedusa lo usa come aggravante della mediocrità, nel suo caso di un re. Così era venuto usandolo Gadda nel “Pasticciaccio”, in chiave connotativa (ironica) e non realistica. Di efficacia espressiva ma in senso diminutivo, in funzione del ridicolo, della persona, delle situazioni..
In Pasolini cambia poco: è deprecativo, in funzione plebea.
Fama – Una svista a p. 99 dell’edizione italiana di “Maxima-Minima”, il libro delle annotazioni di Ernst Jünger al suo “L’Operaio”, riporta a “vent’anni fa” la rappresentazione visiva della “macchina della fama” da parte di Villiers de l’Isle Adam - che l’autore di “Eva futura” aveva divisato nel 1883, come uno (“La macchina della gloria”) dei “Racconti crudeli”. Riportandola quindi - Junger scriveva le annotazioni nel 1962-63, trent’anni dopo l’uscita dell’“Operaio” - al momento di svolta della guerra, nel 1942-43, dal trionfo al disastro. Come se si potesse supplire al reale con le proiezioni fantastiche.
Con la “macchina” Villiers modernizzava la fama, come una sorta di pubblicità, di sfera pubblica dei sentimenti e le aspettative – quella che sarà l’opinione pubblica. Ironizzando sul “fanatismo del progresso” nelle forme della pubblicità.
Filosofia – Va al festival, ma intristita. Se ne fanno festival, come del cinema e della canzone, anche con maggiore frequenza, ma tutti sempre un po’ abbacchiati. Senza entusiasmo e quasi senza convinzione. Sia dei filosofi che del pubblico, che pure, se partecipa, deve nutrire ancora speranze. Anche se i filosofi sono vedettes, di spiritualità o humour, un Enzo bianchi o un Eco. Le esposizioni sono lente, comunque non convincenti (appassionanti), i dibattiti forzosi.
Ora, è l’economia che è “scienza” triste, della filosofia non si era mai saputo. La filosofia si vuole solo letta? Non è possibile, è stata in antico arte oratoria, e anche nell’ultima sua incarnazione classica, mago Heidegger lo era della parola. O sono i festival che fanno triste la filosofia, la curvatura della filosofia a (piccola) manifestazione politica?
Gattopardo – Uno sguardo decomposto su un mondo che non lo è, le “persone influenti” (mafiosi) comprese. Si supponeva dallo stesso romanzo, Sedara è personaggio grottesco e negativo solo per gli snob. Si sa ora per certo dalla nuova più libera storiografia, che documenta Palermo e tutta la Sicilia ben vive e attive prima, durante e dopo la spedizione dei mille e la “liberazione” dell’isola. Gli odori sono fetori, le bellezze sfiorite, le gioie tristi, i sapori disgustosi, i viventi morti, sembra l’opera di un paranoico, benché arguto. La putrefazione vi è ossessiva, ogni segno depressivo, anche scopare.
Tutto in questo romanzo favoleggiato della nobiltà è rancido, spaventosamente sporco, fetido. Eccetto i cani. E ridicolo. Eccetto il ridicolissimo Principone, se stesso cioè: don Fabrizio posa attorno, sullo stesso nipote prediletto Tancredi a ben vedere, uno sguardo deluso. E, senza alcun titolo morale, di rimprovero. Irridente come lo scemo del villaggio, nobile certo. “Per le persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto”, attesta Lampedusa serio. Ma senza obbligo di divertire.
Ci sono molti biondi nel “Gattopardo”. Se se ne facesse una statistica allo stato civile è pure possibile che i biondi siano in Sicilia più dei mori, soprattutto le donne. Per la presenza normanna, che vi fu più lunga e invadente di quella araba, le successive razze vandaliche di Spagna. Verga era di pelo rosso. E gli uomini sono più alti e robusti che piccoli, l’industria delle confezioni lo sa, anche se molti sono lombardi.
Pennellate intensive di colore. Ripetute, memorabili. Memorabili per essere costanti, e tuttavia sempre di colore: “fanno il discorso”, cioè la Sicilia, ma sono al meglio battute di spirito, repartee al cocktail party.
Compongono anche un manuale della sicilianità, successivamente obbligata, per esempio in Sciascia. Compresi il sole e il mare. Palermo è “torva”, eccetera. In quanto donchisciottesco, vero al contrario. Lampedusa sopravvissuto alla pubblicazione non sarebbe stato sorpreso di essere preso sul serio? Aveva scritto un romanzo satirico.
L’irrisione è mescolata a un sottile immedesimazione di Lampedusa col Principone: Salina è scisso, a volte “intelligente (riflessivo).
Recensione – È di vario tipo, si sa: affettuosa, astiosa, riconoscente, critica anche, o commerciale, e perfino industriale – si scrive in più redazioni in casa editrice, smazzando poi le schede in base alla tipologia del veicolo recensorio. Ultimamente è spesso di rappresentanza, o di squadra – o dell’elogio riservato. Succede nelle epoche di transizione, quando non si sa che e chi prevarrà ed è opportuno tenere le posizioni.
Succede così. Il mezzo di comunicazione (giornale, radio, tv) s’impegna a presentare un’opera per un obbligo contratto con l’editore o con l’autore. E lo fa con coscienza, chiedendo a uno dei suoi migliori autori, più giovani, più promettenti, più in carriera, e disponibili, di farsi carico del lavoro. Che pubblica in posizione lusinghiera e con un quadro di riferimento pieno di elogi – miti e eroi. Ma succinta, e riservata, sotto un titolo insignificante. La recensione di rappresentanza o riservata serve a cementare legami potenti, nella (reciproca) estraneità. Ma significando al contempo che il giornale è “di più”, e tanto più se destina alla funzione di rappresentanza le sue penne migliori – promettenti, colte, di mondo.
Ottimi esempi ne reca ieri il supplemento domenicale del “Sole 24 Ore”. Con due recensioni, di un uomo di potere che si esercita alla filosofia, e di una potente casa editrice che ha fatto scrivere a un costituzionalista un romanzo di fantasmi – se è quello che si capisce dalla recensione. Affidate a Roberta De Monticelli e a Gabriele Pedullà. Che assolvono in modo impeccabile il compito: sono talmente eleganti nella perfidia che sembrano sprecati. E lo sono, ma non nel lavoro di squadra, col giornale.
Storia - La storia è di una parte, lo spiega Huizinga. È un Gestalt. Una forma spirituale, come la letteratura, la filosofia, il diritto, la scienza, per comprendere in essa il mondo. È la forma dello spirito in cui una civiltà si rende conto del suo passato. Ogni civiltà produce la sua propria forma di storia. Che è sempre storia universale. Ma la storia non fornisce mai altro che una certa figurazione di un certo passato, un quadro comprensibile di un frammento - “frammento di frammenti” la dice Goethe, come la letteratura.
Febvre invece la vuole arte – anche questo è Occidente - e scienza, del passato e del presente. Un ramo della scienza delle comunicazioni, aggiunge Lévi-Strauss, per il quale “in ogni società la comunicazione ha luogo a tre livelli: scambio di beni e servizi, scambio di messaggi, scambio delle donne”. Non male. È sempre una signora molto esigente, trovava Giorgio Spini in polemica col professor Spadolini, che non s’è mai sposato: richiede cultura internazionale, scaltrezza di metodo, pesante fatica, anche fisica, di ricerca delle fonti. Ed è bene in carne, si spera, poiché va fatta propria.
letterautore@antiit.eu
domenica 22 luglio 2012
L’amore amico dell’“ebreo” libera Inge
Una bellissima storia d’amore. Tra un soldato dell’Ottava Armata in Carinzia a fine guerra, ebreo di Palestina costretto a emigrare da Vienna nel 1938, “basso e bruttino, con gli occhiali”, e la diciannovenne Ingeborg Bachmann, bella e sensibile. Ogni persecuzione isola, nel groviglio di violenze e complessi, e conduce alla perdita di sé, dell’autostima, più spesso che alla rivolta. Nel caso di Jack Hamesh, in paese per tutti “l’ebreo” ancora a guerra finita e perduta, l’incontro elimina questo virus. In lui, di grande cultura e passione per la cultura, benché alla smobilitazione finisca a Tel Aviv scaricatore di porto. In lei, che l’incontro libera, dalla famiglia, dal paese, dal razzismo, dalla Hitlerjugend. Un rapporto intimo non furtivo (“fra di noi non facciamo mai discorsi che non potrebbero essere ascoltati”, Inge si difende dai rimproveri della madre), di passeggiate nei boschi, di lunghe conversazioni in camera di lei, di letture comuni, Thomas Mann, Hofmannstahl, Schnitzler, Stefan Zweig, il “Capitale” e un Adler. “È l’estate più bella della mia vita e, dovessi campare cent’anni, queste resteranno per me la primavera e l’estate più belle”, Ingeborg volle tenere in quei giorni un diario, piena di entusiasmo e gioia di vivere, malgrado i problemi di sopravvivenza – il fratello minore Heinz “ha l’aspetto di uno scheletrino, non capisco, noi facciamo per lui tutto il possibile”.
Una storia per più aspetti interessante. Per la biografia d’Ingeborg Bachmann, compresa la futura relazione intima con Celan. Ma soprattutto per l’“amore redentore” che le lettere successive di Hamesh, che prendono la maggior parte della pubblicazione, delineano, all’ingrosso e al minuto. Nel rapporto fra l’ebreo e la madrepatria austriaca negata. E nelle occorrenze quotidiane dell’emigrato-assoldato-smobilitato Hamesh. Tanto più alla luce della personalità che nella postfazione il curatore Hans Höller riesce ad enuclearne. Di un Jakob Chamisch che non ebbe mai la cittadinanza austriaca, benché di famiglia da sempre residente nell’ex impero, costretto a emigrare a diciotto anni, finito in occupazioni umili, malgrado la passione per lo studio e l’ambizione di poter un giorno insegnare: apprendista calzolaio, bracciante, disoccupato dopo la smobilitazione, quindi scaricatore e, dopo un incidente sul lavoro, impiegato al porto di Tel Aviv. Un uomo di singolare capacità d’introspezione e d’osservazione. Della propria situazione. Della giovane Inge – con la quale ha amato “sfidare ridendo questo nostro tempo”. Del miracolo di Israele: “Si cerca l’acqua e si continua a trovarla”. Della politica che pure non gli piace: “Qui c’è petrolio, qui c’è il Canale di Suez, la via per le Indie. Gerusalemme, qui nacque Cristo, qui vissero un tempo gli ebrei, qui vegetano da secoli gli arabi, un vita miserabile che a stento riterresti possibile. Qui furono rivelati i Dieci Comandamenti, qui viene in pellegrinaggio chiunque creda in un Dio, si chiami Cristo, Yahveh o Allah”.
Nel “Diario di guerra” di Inge c’è anche un ufficiale inglese “straordinariamente lungo e secco”, di nome Bob, aristocratico, che è la chiave di un capitolo del “Libro Franza” rimasto enigmatico, “Ritorno a Galicien”. Nel “Libro Franza” è questione di un amore giovanile con un Lord Percival Glyde, un ufficiale alto e segaligno, educato a Oxford, di famiglia aristocratico. Bob nel “Diario” Inge lo fa innamorato dell’amica Liesl. Un’amica che come lei non ne può più delle convenzioni e del piccolo paese. Che ama il lord benché sia amata, “devotamente”, da un altro ufficiale britannico.
Ingeborg Bachmann, Diario di guerra, Adelphi, pp. 132 € 11
Una storia per più aspetti interessante. Per la biografia d’Ingeborg Bachmann, compresa la futura relazione intima con Celan. Ma soprattutto per l’“amore redentore” che le lettere successive di Hamesh, che prendono la maggior parte della pubblicazione, delineano, all’ingrosso e al minuto. Nel rapporto fra l’ebreo e la madrepatria austriaca negata. E nelle occorrenze quotidiane dell’emigrato-assoldato-smobilitato Hamesh. Tanto più alla luce della personalità che nella postfazione il curatore Hans Höller riesce ad enuclearne. Di un Jakob Chamisch che non ebbe mai la cittadinanza austriaca, benché di famiglia da sempre residente nell’ex impero, costretto a emigrare a diciotto anni, finito in occupazioni umili, malgrado la passione per lo studio e l’ambizione di poter un giorno insegnare: apprendista calzolaio, bracciante, disoccupato dopo la smobilitazione, quindi scaricatore e, dopo un incidente sul lavoro, impiegato al porto di Tel Aviv. Un uomo di singolare capacità d’introspezione e d’osservazione. Della propria situazione. Della giovane Inge – con la quale ha amato “sfidare ridendo questo nostro tempo”. Del miracolo di Israele: “Si cerca l’acqua e si continua a trovarla”. Della politica che pure non gli piace: “Qui c’è petrolio, qui c’è il Canale di Suez, la via per le Indie. Gerusalemme, qui nacque Cristo, qui vissero un tempo gli ebrei, qui vegetano da secoli gli arabi, un vita miserabile che a stento riterresti possibile. Qui furono rivelati i Dieci Comandamenti, qui viene in pellegrinaggio chiunque creda in un Dio, si chiami Cristo, Yahveh o Allah”.
Nel “Diario di guerra” di Inge c’è anche un ufficiale inglese “straordinariamente lungo e secco”, di nome Bob, aristocratico, che è la chiave di un capitolo del “Libro Franza” rimasto enigmatico, “Ritorno a Galicien”. Nel “Libro Franza” è questione di un amore giovanile con un Lord Percival Glyde, un ufficiale alto e segaligno, educato a Oxford, di famiglia aristocratico. Bob nel “Diario” Inge lo fa innamorato dell’amica Liesl. Un’amica che come lei non ne può più delle convenzioni e del piccolo paese. Che ama il lord benché sia amata, “devotamente”, da un altro ufficiale britannico.
Ingeborg Bachmann, Diario di guerra, Adelphi, pp. 132 € 11
Ombre - 139
Seimila persone in piazza Santa Croce a Firenze per Benigni e Dante. Ma poco divertite e anzi perplesse. È Berlusconi che non tira più – il Dante di Benigni è Berlusconi. O è il comico?
Singolare celebrazione a Palermo del giudice Borsellino. L’amata moglie Agnese scrive sommessa a Napolitano e i figli sommessamente lavorano. Mentre il fratello e la sorella del giudice occupano le piazze, e i giornali.
Singolare ma non innocente: quello dei fratelli è un certo modo di fare politica. Democratico?
Il virtuoso governo lombardo ha nominato alla presidenza della Rai una che non ne capisce nulla ma vuole tutti i poteri. E alla direzione generale uno che non ne capisce nulla ma vuole un contratto milionario. E non fa nemmeno i gol – Ibrahimovic almeno li faceva, ogni tanto.
La Corte Costituzionale tedesca aggiorna di due mesi, a metà settembre, l'avallo all'Esm, il fondo di stabilizzazione monetaria europeo. Un errore non è.
Adonis, oppositore di Assad in esilio ma democratico, dice la verità sul rivolgimento in Siria - e per questo “Repubblica” lo confina in seconda pagina? “ La domanda è questa”, dice il grande poeta: “Che fine faranno i passi essenziali compiuti verso la modernità, il superamento degli arcaici linguaggi delle “minoranze”, delle “religioni”, dell’assoggettamento della donna alle leggi di una pretesa fede?”
“Pentiti, su Conte non tutto torna”: il Procuratore Palazzi fa sapere che deferirà, cioè squalificherà, l’allenatore della Juventus tramite Flavio Arzilli sul “Corriere della sera”, il giornale di Milan-Inter. Il quale si arrampica per due colonne sugli specchi, per piazzare la botta: “Ma chi è davvero Antonio Conte?” Già, e chi è Arzilli? E chi è davvero Palazzi, napoletano di Milano?
“I criteri che hanno condotto l’indagine della Procura sportiva sono costruiti sulla credibilità dei pentiti e sul riscontro anche indiretto che le ammissioni trovano nell’incrocio dei vari verbali”, scrive Arzilli criptico. Costruire dei criteri? Ma i “vari” verbali sono due, dei due peggiori figuri del calcio-scommesse, Carobbio e Gervasoni. I quali, compiacendo i Procuratori, la scapoleranno.
Non fa in tempo Ingroia a incriminare Dell’Utri che “Repubblica” schiera a condanna tre servizi, un’intervista di una pagina, Merlo, Serra, Augias, e le lettere al giornale. Mancano le capitali estere, ma è lo stesso una grande performance.
La banca del Vaticano è promossa in trasparenza dall’organo di controllo europeo Moneyval, ma solo il “Corriere della sera” lo dice – volendo chiudere il contenzioso che il suo padrone Rotelli ha con la segreteria di Stato? “Repubblica”, dopo tante pagine contro, ha poche righe, da cui non si capisce niente. Anche “La Stampa”. I giornali della catena Repubblica-L’Espresso non hanno niente. Quelli di Riffeser dicono invece che lo Ior è stato bocciato. Laicismo?
Anche Rotelli è accusato di truffa alle Asl con fatture gonfiate. Ma essendo il neo monopolista della sanità lombarda anche il padrone del “Corriere della sera” la solerte Procura della Repubblica ritiene che l’accusa non sia circostanziata. Senza indagare.
Ingroia, nel tempo libero dal complotto Stato-mafia, processa Dell’Utri. Sempre lui, non c’è un altro?
A testimoniare contro Dell’Utri Ingroia convoca Marina Berlusconi. Per una prima pagina assicurata. Ma non era meglio Barbara?
Non avendo ricevuto lettere, commenti, dichiarazioni del Procuratore Messineo, “Repubblica” martedì lo intervista. La sua top della giudiziaria, Liana Milella, chiede al Procuratore, a proposito del nuovo processo a Dell’Utri: “La Procura di Palermo non entra nell’agone politico?” Il Procuratore Capo risponde: “Escludo che ci sia una volontà da parte nostra di influenzare questa campagna elettorale”.
L’agone politico non è male.
Le due anime del Pd confuse con “i pronipoti di Turati e Sturzo”. Lo fa il “Corriere della sera” e pazienza, può rientrare nell’ipotesi neoguelfa cui il giornale lavora. Ma a opera di Paolo Franchi, che sa la differenza fra i riformisti e i popolari del 1924 e il (piccolo, angusto, d’affari) compromesso democratico di oggi. Anche Paolo infetto di sovietismo, dopo averlo combattuto una vita?
Che riformismo portano avanti questi “pronipoti”?
Tutti vogliono le donne al potere, anche con quote garantite. Poi, appena parlano, le zittiscono – tutti, anche le donne: Carla Bruni, Madame Twitter, Minetti, Rosy Bindi, Mara Carfagna.
Dove sono finite le ruberie e le altre malefatte della Lega? Potenza di Maroni.
Singolare celebrazione a Palermo del giudice Borsellino. L’amata moglie Agnese scrive sommessa a Napolitano e i figli sommessamente lavorano. Mentre il fratello e la sorella del giudice occupano le piazze, e i giornali.
Singolare ma non innocente: quello dei fratelli è un certo modo di fare politica. Democratico?
Il virtuoso governo lombardo ha nominato alla presidenza della Rai una che non ne capisce nulla ma vuole tutti i poteri. E alla direzione generale uno che non ne capisce nulla ma vuole un contratto milionario. E non fa nemmeno i gol – Ibrahimovic almeno li faceva, ogni tanto.
La Corte Costituzionale tedesca aggiorna di due mesi, a metà settembre, l'avallo all'Esm, il fondo di stabilizzazione monetaria europeo. Un errore non è.
Adonis, oppositore di Assad in esilio ma democratico, dice la verità sul rivolgimento in Siria - e per questo “Repubblica” lo confina in seconda pagina? “ La domanda è questa”, dice il grande poeta: “Che fine faranno i passi essenziali compiuti verso la modernità, il superamento degli arcaici linguaggi delle “minoranze”, delle “religioni”, dell’assoggettamento della donna alle leggi di una pretesa fede?”
“Pentiti, su Conte non tutto torna”: il Procuratore Palazzi fa sapere che deferirà, cioè squalificherà, l’allenatore della Juventus tramite Flavio Arzilli sul “Corriere della sera”, il giornale di Milan-Inter. Il quale si arrampica per due colonne sugli specchi, per piazzare la botta: “Ma chi è davvero Antonio Conte?” Già, e chi è Arzilli? E chi è davvero Palazzi, napoletano di Milano?
“I criteri che hanno condotto l’indagine della Procura sportiva sono costruiti sulla credibilità dei pentiti e sul riscontro anche indiretto che le ammissioni trovano nell’incrocio dei vari verbali”, scrive Arzilli criptico. Costruire dei criteri? Ma i “vari” verbali sono due, dei due peggiori figuri del calcio-scommesse, Carobbio e Gervasoni. I quali, compiacendo i Procuratori, la scapoleranno.
Non fa in tempo Ingroia a incriminare Dell’Utri che “Repubblica” schiera a condanna tre servizi, un’intervista di una pagina, Merlo, Serra, Augias, e le lettere al giornale. Mancano le capitali estere, ma è lo stesso una grande performance.
La banca del Vaticano è promossa in trasparenza dall’organo di controllo europeo Moneyval, ma solo il “Corriere della sera” lo dice – volendo chiudere il contenzioso che il suo padrone Rotelli ha con la segreteria di Stato? “Repubblica”, dopo tante pagine contro, ha poche righe, da cui non si capisce niente. Anche “La Stampa”. I giornali della catena Repubblica-L’Espresso non hanno niente. Quelli di Riffeser dicono invece che lo Ior è stato bocciato. Laicismo?
Anche Rotelli è accusato di truffa alle Asl con fatture gonfiate. Ma essendo il neo monopolista della sanità lombarda anche il padrone del “Corriere della sera” la solerte Procura della Repubblica ritiene che l’accusa non sia circostanziata. Senza indagare.
Ingroia, nel tempo libero dal complotto Stato-mafia, processa Dell’Utri. Sempre lui, non c’è un altro?
A testimoniare contro Dell’Utri Ingroia convoca Marina Berlusconi. Per una prima pagina assicurata. Ma non era meglio Barbara?
Non avendo ricevuto lettere, commenti, dichiarazioni del Procuratore Messineo, “Repubblica” martedì lo intervista. La sua top della giudiziaria, Liana Milella, chiede al Procuratore, a proposito del nuovo processo a Dell’Utri: “La Procura di Palermo non entra nell’agone politico?” Il Procuratore Capo risponde: “Escludo che ci sia una volontà da parte nostra di influenzare questa campagna elettorale”.
L’agone politico non è male.
Le due anime del Pd confuse con “i pronipoti di Turati e Sturzo”. Lo fa il “Corriere della sera” e pazienza, può rientrare nell’ipotesi neoguelfa cui il giornale lavora. Ma a opera di Paolo Franchi, che sa la differenza fra i riformisti e i popolari del 1924 e il (piccolo, angusto, d’affari) compromesso democratico di oggi. Anche Paolo infetto di sovietismo, dopo averlo combattuto una vita?
Che riformismo portano avanti questi “pronipoti”?
Tutti vogliono le donne al potere, anche con quote garantite. Poi, appena parlano, le zittiscono – tutti, anche le donne: Carla Bruni, Madame Twitter, Minetti, Rosy Bindi, Mara Carfagna.
Dove sono finite le ruberie e le altre malefatte della Lega? Potenza di Maroni.
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