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sabato 1 settembre 2012

Tarantola, il nome e la cosa

La prima cosa che Tarantola fa, la presidente della Rai che non se ne intende, è di prendersi la Sipra e Rai Fiction, i maggiori centri finanziari. In Rai Fiction prepensionando Fabrizio Del Noce per metterci Eleonora Andreatta. Uno spera allora che Eleonora Andreatta non sia parente. E invece è la figlia. Si vede che Tarantola, che non s’intende di media, s’intende di sottogoverno.
Ma lei stessa, Anna Maria, non sarà parente del giudice Giuseppe Tarantola che aggiustava le cause a Milano per i potenti? Tanto da diventarne il presidente onorato della Corte d’Appello. Sì, è la sorella – erano proprietari dell’Amaro Braulio.
Ma non c’è nepotismo, sono buoni cattolici. Anna Maria una sola cosa specifica nel suo curriculum, che quando studiava alla Cattolica stava dalle suore.
C’è qualcosa forse di stonato nel nome. Di valtellinesi che sono meridionali. “Tarantolati” appunto. Ma nemmeno questo conta, un magistrale Carlo Ossola ha appena spiegato sul ”Sole 24 Ore” che tarantolato era pure Leopardi: il poeta portava il momentaneo “impazzimento” tra i lenimenti nella storia della civiltà. Per non dire già del “Cortegiano”, il manuale cinquecentesco del perfetto gentiluomo.
Bisogna intendersi sulle parole, come sulle cose e le persone.

Nerio Nesi, l’altro “amerikano” a Roma

“Non sono stupito”, dice Nerio Nesi, il banchiere socialista, al “Corriere della sera” che lo intervista sulle frequentazioni americane di Di Pietro prima e durante Mani Pulite: “Semmai perplesso”. E come sempre dice la verità, anche se in un modo che andremo a vedere. Un’altra verità, che tutti sanno ma non dicono, dice successivamente, sempre a modo suo: “Molte libertà” la Procura di Milano aveva concesso “a un giovane sostituto procuratore”, sconosciuto. Ma il punto è: come mai il “Corriere della sera” disturba Nesi, un banchiere politicante, che va peraltro per i novanta, quindi fuori da ogni giro? La risposta è nel non detto: Nesi è uno che sa molte cose, in quanto accusatore di Craxi allo stesso Di Pietro, e in quanto finanziatore della guerra americana all’Iran tramite Saddam Hussein.
Contro Craxi, senza colpa
Benché socialista, Nesi accusò Craxi, per una storia confusa di prestiti, non concessi, ai Ligresti. E lo accusò, dopo il preannuncio su “L’Espresso”, direttamente a Di Pietro. Nesi veniva peraltro da uno scandalo atipico, cioè da servizi segreti. Era presidente della Bnl, la Banca del Lavoro di proprietà del Tesoro, cioè del governo. Che aveva finanziato l’Iraq di Saddam Hussein negli anni 1980, quando l’Iraq del dittatore era nei piani degli Usa contro l’Iran di Khomeini. E specificamente di una sorta di governo americano parallelo, animato dal segretario di Stato, il generale Alexander Haig, un falco (voleva “un colpo nucleare” in Europa per intimorire Mosca). Il cui principale collaboratore un colonnello dei marines, Oliver North, che sul finire della decade diverrà celebre per aver armato segretamente, malgrado ogni embargo, l’Iran, in cambio del rilascio di alcuni prigionieri anglo-americani a Beirut.
Nesi aveva finanziato l’armamento iracheno con quattromila miliardi di lire, due miliardi e più in euro. Senza mai un rientro. Una cifra imponente, disposta da un modesto funzionario della Bnl Atlanta, Chris Drogoul, personaggio con una vita equivoca. Romanzata: nato ufficialmente a New York da padre francese e madre tedesca, un’infanzia in Francia, un’adolescenza a Milano, studi di filosofia negli Usa, impiego alla Barclays Bank e poi alla Bnl. Dove in quattro anni, dal 1985 al 1989, quando la perdita venne scoperta dalle autorità di vigilanza americane, dispose senza remore l’esborso di quattromila miliardi a perdere.
La perdita colossale non fu mai collegata alla fornitura di armi a Saddam. Ma nessuno spiegò che ci faceva la Bnl a Atlanta, nel Sud degli Usa. E come mai un semplice impiegato disponesse di quattromila miliardi. Soprattutto, nessuno chiese conto a Nesi di questo ammanco colossale. Nesi non era solo, naturalmente: Giacomo Pedde e Pier Domenico Gallo, direttore generale e vice della Bnl, sapevano tutto, ma neanche loro furono ritenuti responsabili. Di che?
“Una cospirazione”
“Un’operazione di politica internazionale progettata e condotta per lo più clandestinamente, che ha trovato piena sponda negli Usa e negli altri paesi”, stabilì la commissione d’inchiesta del Parlamento che il 22 aprile 1992 consegnò una relazione di 84 cartelle piena di fatti al presidente del Senato Spadolini. Nesi, Pedde e Gallo persero il posto, ma con altri incarichi più remunerativi e nessuno li perseguì penalmente. La Bnl di Atlanta era stata aperta nel 1982 appositamente per gestire con discrezione i conti iracheni. Fino ad allora, fino a quando servivano per il trading del petrolio, accesi presso la Bnl di Roma.
Marvin Shoob, il giudice americano che un anno e mezzo dopo giudicò il caso, il 24 agosto 1993, lo definì “una cospirazione politica”. In polemica esplicita con la pubblica accusa, che “contro ogni evidenza” escludeva la cospirazione, Shoob stabilì: “Non si tratta di un semplice caso di frode: gli imputati sono pedine in una cospirazione molto più' grande”. Spiegando che la documentazione raccolta, benché lacunosa, sottintendeva un’intesa tra Stati Uniti, Italia e Gran Bretagna per consentire alla Bnl di effettuare i prestiti come parte della politica occidentale di sostegno all’Irak nella guerra contro l’Iran. Il titolare dell’accusa, Jim Hogan, era stato nominato dal ministro della Giustizia di Clinton, Janet Reno. Il giudice Shoob, rifacendosi ai rapporti della Cia, alle pressioni subite dalla Casa Bianca, e al coinvolgimento nello scandalo di numerosi agenti segreti, scrisse che la versione di Hogan era credibile solo “nel mondo dei sogni”.

La ri-continentalizzazione della Germania

Vent’anni fa, giorno per giorno:
:“La Germania unita è ridiventata grande nel senso che è un grande mercato interno. Ma per la metà gravita in un’area arretrata, economicamente e culturalmente. Dalla quale non le arriva alcun challenge, alcuna sfida in positivo, solo esempi negativi, di fannullaggine, e di scrocco. La parte arretrata è meno della metà della Germania, molto meno, meno di un terzo, ma è un cuneo che ha spostato il baricentro della vecchia Germania di Bonn, unitamente alla massa dei Vertriebene, i vecchi profughi dell’Est.
“È un rischio per l’Europa, la ri-continentalizzazione della Germania. La Repubblica di Bonn aveva portato in Europa, al Reno, perfino la Baviera e lo Schleswig-Holstein. Era una Germania aperta a tutto ciò che era straniero, europeo, cosmopolita: uomini, abitudini, psicologia, alimenti, merci. Fu così per esempio ch una città sonnolenta e provinciale come Monaco è diventata cosmopolita, verde, colta. La Germania di Bonn era il paese dove ogni europeo, dal turco al greco, allo slavo, al siciliano, allo spagnolo, al portoghese, compresi i francesi e gli scandinavi, si trovava più a suo agio. Oggi è avviata in direzione opposta. Per il semplice fatto della riunificazione: per avere un territorio molto spostato a Est e una popolazione più grande, tende a perdere quelle caratteristiche.
“In particolare peserà la popolazione. Un mercato da ottanta milioni sarà sempre più nazionale, meno aperto sull’estero. Tanto più per l’inevitabile integrazione con i satelliti naturali a Est e a Sud. Con ottanta milioni che peseranno come cento, per via della rinazionalizzazione del gusto, la Gerrmania tornerà inevitabilmente a essere l’orco dell’Europa – senza contare gli altri cento milioni, o duecento, dei paesi satelliti, baltici, slavi, rumeni, cechi”.

venerdì 31 agosto 2012

Cosa la Germania non ha fatto contro l'Italia

C’è bisogno della Germania e quindi siamo tutti germanofili. Ma dopo la pacca sulla spalla di Angela Merkel conviene intendersi. Anche perché lo stesso papa Ratzinger è di questo parere, stando all’ottimo articolo di Gian Guido Vecchi sul “Corriere della sera” oggi: la Germania non è che non ha fatto nulla contro l’Europa, e specificamente contro la Grecia e l’Italia, ha fatto moltissimo. E ai piani alti della politica, non nell’opinione popolare che tende a sbracare.
L’accanimento antitaliano ha anche una storia lunga. Due consiglieri autorevoli si sono dimessi per significarlo, Weber e Stark. E lo hanno anche detto, contrariamente all’uso che vuole i banchieri centrali riservati. Il presidente della Bundesbank Weidmann non si è dimesso ma protesta “regolarmente”. Oggi fa sapere tramite la “Bild”, il giornale scandalistico, di essere pronto alle dimissioni, ma è la razione settimanale della sua guerra alla Bce, all’euro, a Draghi e all’Italia. Weidmann è gentile, riservato, timido, ma è sbagliato fare i tedeschi urlanti, con la bava alla bocca, sono normalmente molto ragionativi.
Il partito della Baviera, la Csu democristiana, protesta quasi ogni giorno contro l’Italia, per bocca del suo responsabile, Alexander Dobrindt. Un bavarese talmente raffinato che sembra finto. Il capo economista della Deutsche Bank, Thomas Mayer, ha pubblicamente ammonito contro ogni aiuto all'Italia,
http://www.antiit.com/2012/01/per-tre-anni-la-bce-ha-finanziato-la.html
Col presidente del Ces-Ifo di Monaco, l’istituto di studi sulla congiuntura, Hans Werner Sinn, che pubblica periodici studi sarcastici contro l’Italia, il debito, le banche, eccetera. Con l’effetto non irrilevante di mettere nel mirino le banche italiane, meglio capitalizzate e gestite delle banche tedesche, creando una cortina di fumo su queste ultime, che sono tutte un colabrodo, Deutsche Bank inclusa.
Non si saprebbe come sottovalutare l’attacco continuo della Bundesbank alla Bce. Senza precedenti nella storia monetaria. I cui effetti sono devastanti: questo attacco è la causa principale della crisi dell’euro. E al suo interno del debito di alcuni paesi, che tanti lutti ha provocato e provoca, tra inflazione e disoccupazione. Non c’è altra ragione – stando ai “mercati” (allo spread) e alle agenzie di rating il debito italiano sarebbe meno affidabile di quello libanese.
Non è la solvibilità di Spagna e Italia a tenere i due paesi sotto pressione: i mercati si regolano sulla Germania, sulla politica anti-euro della Germania, che considerano ancora non conclusa. Lo spread è sempre cresciuto con le riserve tedesche ai vertici europei, e tra i vertici. Non per le intemperanze degli italiani, o dei greci. I quali peraltro lavorano più dei tedeschi, per una paga minore, e vanno in pensione più tardi.
Il governo Merkel si schermisce ammiccando: “Senza di noi sarebbe peggio”. Ma non è un argomento. Primo, perché l’opinione in Germania non è così micragnosa quanto il mercantilismo merkeliano vorrebbe. Secondo, perché un governo sta lì per governare. Per decidere. Se Weidmann, per dire, è un folle o un carrierista (o uno stupido), non si vede perché debba stare a quel posto. Ma Merkel ha deciso di non dcidere, perché così le fa comodo.
Non è a dire quanto la Germania si è avvantaggiata sul resto dell’Europa in questi tre anni in cui non ha consentito di affrontare la crisi, finanziandosi a tassi negativi (il denaro in Germania è gratis). Una guerra dichiarata sarebbe stata meglio di questo europeismo ipocrita della destra merkeliana, consentendo almeno una difesa.

Di Pietro operaio in Germania

Vent’anni fa, giorno per giorno:
“Dunque Di Pietro è stato da giovane in Germania ma non si sa per che fare. Dicono che facesse l’operaio, ma dove, in che azienda, non si sa. E sì che ci sono cronisti che vivono di queste cose, e di viaggi in Germania a spese del giornale. Soprattutto tacciono i suoi agiografi. Che sono quasi tutti giornalisti loffi, di cui si sospetta che siano prezzolati – cosa normalmente vera.
“È un po’ affettato, anche, questo Giustiziere Teutonico: fa il figlio del popolo, ingenuo, un po’ fuori posto (un po’ analfabeta, un po’ ignorante, un po’ malvestito, un po’ provinciale, eccetera), e compagnone. Mentre è palese che ha un pelo sullo stomaco alto così, furbo e brusco (violento). Rozzo con giudizio, direbbe Manzoni: una maschera da pr, anzi da Madison Avenue, sofisticata. Rappresenta qualcuno? Trova carte dappertutto: qualcuno gliele prepara?
“Magari Di Pietro è stato in Germania per turismo. Ma non ha una biografia. L’uomo più, e più instantaneamente, biografato non ha un passato. Cioè ne ha uno costruito. Come si fa per le spie. È stato emigrante? Sì e no. Era – è – missino? Sì, e no. Anche del suo passato in Polizia non si sa nulla, a parte che “si faceva” le poliziotte. Di lui ora solo si sa che a Milano “se la fa” col console americano. Uno che si occupa di politica invece che di affari. Si e no? Ce lo fanno sapere per metterci in sospetto? Come fanno le spie”.

giovedì 30 agosto 2012

Letture - 108

letterautore

Dante – È navigante. “Era già l'ora che volge il disio \ai navicanti e 'ntenerisce il core”. O: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io \fossimo presi per incantamento, \e messi in un vasel ch’ad ogni vento \per mare andasse al voler vostro e mio”. O “lo gran mar de l’essere”. E la sua chiusa Firenze apostrofa: “Che per mare e per terra batti l'ali”.

È favoloso romanziere (narratore). Anche nelle opere saggistiche, sul volgare, sulla monarchia.

È conservatore? Marco Santagata ripropone (“Dante, il romanzo della sua vita”) l’improponibile quesito. Distinguendo acutamente, tra il Dante avanguardista (lingua, pittura, architettura) e il Dante retrogrado (società, politica). Qui reazionario più che conservatore: spregiatore della finanza, l’industria, il commercio, e delle insorgenze democratiche, a favore degli statuti feudali, e dei due “soli”, il papa e l’imperatore ognuno nel suo recinto.
È una schizofrenia che Pound, il dantista, ha riproposto nel primo Novecento. Ma in realtà non lo è: l’innovatore massimo Dante non è un lodatore del buon tempo antico quanto della pace e della giustizia. Nel concetto, poi perento, ma allora e ancora per qualche secolo sentito e diffuso, e rivoluzionario, dell’unità. Dell’unità imperiale e della cristianità, che costituivano un tutt’uno. Frances Yates lo attesta, ma anche la lettura di Dante – un po’ come Pound, che finì fascista per volersi jeffersoniano, americano rivoluzionario cioè.

Discorso – Petros Markaris ha scritto i due ultimi romanzi “Prestiti scaduti” e “L’esattore”, sulle cause della crisi del suo paese: le banche, l’evasione fiscale, la corruzione. Facendo morire banchieri e evasori (per “condono tombale”), mentre vitupera la Germania. Ma questa con rispetto. E assumendo contro la Grecia tutte le ingiurie della “Bild” e dei tedeschi ai greci – ai greci più che alla Grecia. “In Grecia chi lavora rimane al palo”, in Grecia si ruba, in Grecia la politica è corrotta, in Grecia la burocrazia è corrotta. Solo in Grecia.
Il discorso, la “narrazione” degli storici, fa la realtà. Fra la verità delle cose, perfino della natura, minerali inclusi, o dell’anagrafe, o del Dna. È l’opinione pubblica. Il “discorso” più spesso consacra i luoghi comuni – nozione trascurata che andrebbe ripresa, essendo oggi ben più viva e pervasiva che centocinquant’anni fa al tempo di Flaubert. Un’opinione che è quindi un falso al quadrato: la nostra “realtà” è doppiamente falsa.

Giallo – Si fa con materiali di scarto: alcol, velocità, avidità, invidia, stupidità. Con scene da serie B: la scazzottata o sparatoria, la fuga con inseguimento, il pedinamento, l’agguato, la macelleria. Con forme logiche basiche e non concludenti: l’induzione, la deduzione (Sherlock Holmes si salva con la sorpresa, l’inatteso).
Hitchcock li fa diversi, ma sono thriller, non sono gialli.

È la sorpresa. La vuole ogni poche pagine. È il segreto dei giallisti seriali, Camilleri, Simenon, A. Christie: riciclare inflessibili i cliché (manie, complicità, convenevoli, caratteri), e spiazzarli con la sorpresa.

Leggere – È ricerca, e scoperta. È grata quando la scoperta scatta, l’interesse è in qualche modo esaudito. Il lettore non riscrive l’autore o l’opera, li incontra. Per una serie di contorni imprevedibili – ogni lettura dello stesso testo è diversa, per situazioni proprie del singolo lettore, per l’aria del tempo.

È crearsi dei desideri.

Viaggiare, dice Norman Douglas che ha sempre viaggiato, consente di leggere poco, e meglio. I libri importanti. Che si leggono magari per caso. Senza correre dietro alle novità. Ma neppure questo è vero, si legge quello che capita, ed è il peggio di tutto, inevitabilmente, si legge qualsiasi cosa, rapidamente, e si dimentica. Sarà anche per questo che i viaggiatori propalano cazzate, Genovesi, per quanto vi si applichi nelle “Lettere accademiche”, non sa farne il campionario. E si finisce per rimpiangere di essere partiti: viaggiare è inesauribile, e inutile. È stanchezza? Anche il viaggiatore sentimentale diventa stanco della sua curiosità – per primo il pastore Sterne, che viaggiò unicamente per motivi di salute.
Leggere, operazione attiva e non passiva quale il viaggiare, si può solo da fermi.

Traduzione – Pone il problema della “lettura”. Doppiamente. Come immedesimazione in un autore – un’estensione dell’arte della conversazione. O del principio del dialogo, il fondamento della socialità, la casa della personalità. E come esercizio delle “strutture sintattiche”: le parole non si combinano in modo statistico, della meccanica statistica, ma per una matematica più complessa, che individui relazioni tra le parole (sintassi) e ponga le diverse sintassi delle lingue “naturali” in una relazione significativa (ordinata).
Ha forse per questo natura inafferrabile, sotto l’apparente funzionalità, sfuggente. La matrice delle sintassi è sconosciuta. Il linguista Andrea Moro la compara (“Parlo, dunque sono”, p. 69) a “un «effetto ottico» negativo”, un lampo, un miraggio.

Viaggiare - Il Medio Evo non vedeva di buon occhio ebrei erranti e studenti vagabondi. Ma era per questo il Medio Evo, che un apprendistato vagante poi imponeva agli artigiani, la classe produttrice. E forse neanche la morte è quiete, la resurrezione dei corpi è il mistero più affascinante. Il viaggio di Ulisse inizia dopo la discesa all’inferno. Verso una patria che è un’isola sassosa. Omero a ragione, dice l’asino di Apuleio, quando volle descrivere un uomo d’impareggiabile saggezza, immaginò che egli l’avesse acquisita visitando molte città e conoscendo vari popoli. Lo dice Dante in realtà – leggendo Apuleio? Ma poi tutti scappano da Troia, vincitori e vinti, dopo dieci anni di guerra avevano bisogno di cambiare.
Si viaggia anche nell’immobilità, o nell’isolamento, Robinson Crusoe è un viaggiatore per due terzi del romanzo. È anzi impensabile quante cose vedono quelli che non si muovono. “Alle mie solitudini vado, dalle mie solitudini vengo”, direbbe Lope de Vega. Rischiando però di segnare il passo, mentre il vero viaggiatore si sposta. “Perché affannarsi nei viaggi?”, si chiede Michaux, che viene dal Belgio, il plat pays, “posso arrangiarmelo da me, il loro paese”, ma lui è uno che ha sempre viaggiato, in tutti i modi.

I benefici del viaggio sono quelli di un’esperienza inutile, si sa. Il viaggiatore, avendo visto più cose, torna estraneo. E più spesso non è atteso, anche se non ha lasciato cattiva memoria, tutto come in Omero. Ma viaggiare è utile, “fa lavorare l’immaginazione”, Céline decolla così - “fuggiasco logico e autentico” a detta di Alvaro, al cui parere “i viaggi prolungano la vita”. Per Gide “la percezione comincia dove cambia la sensazione, da qui la necessità del viaggio”. Gide lo diceva tra i ragazzi di Biskrà, ma è vero di ogni sensazione. Anche perché viaggiare è una forma dell’invenzione, dai tempi di Omero è inventare, le stesse cose viste o vissute. Sia pure nella specie del “sapere amaro”, le assonanze di cui Baudelaire si compiaceva, di suoni e di significati. Perfino travel, che in francese, castigliano, catalano, portoghese, e in numerosi dolenti dialetti italiani significa travaglio, per gli inglesi diventa dilettarsi vagabondando, strascico dell’impero. Primavera sacra era nell’uso pelasgico la migrazione dei giovani alla ventura, sotto la guida di un animale sacro, che il contatto aveva mantenuto più diretto con la natura, un picchio verde, un orso, un lupo - il mito greco è molto poco greco: non si possono a-mare le mitologie, che sono classificazioni, di dei e santi che si ricordano per una sola azione, la passione unica che è ripetizione, spaventosa.

Viaggiamo soprattutto quelli del sangue del gruppo B, zingaresco. Ma non sempre bisogna partire, se non simbolicamente. Basta l’animo. “Qui e in nessun luogo è l’America”, direbbe il Lotario del “Meister”. Il viaggio è la predisposizione al viaggio, il cuore sgombro. Altrimenti si può finire come Ulisse, che dormendo si lasciò sfuggire la sua Itaca, che cercava. O come Magellano, che attraversò il Pacifico, pieno di isole, e non ne vide nessuna. Lo spostamento, la lontananza di migliaia di chilometri, non c’è in quell’esperto mentore di luoghi diversi e viaggi che è Walter Benjamin, non è d’obbligo: lo spostamento è solo ragionare di sé a se stessi - se non che la memoria ha in breve colmato la sua sor-presa, tra Proust e Benjamin, la narrazione della memoria, fino all’orlo, intenibile, mai genere fu così subito battuto e svuotato.

letterautore@antiit.eu

Aridatece gli untori

Angela Merkel scopre Monti, dopo nove mesi che lo pratica, e gli dà la sufficienza. La crisi è passata, non c’è da preoccuparsi. L’Italia comunque è eccezionale: ce l’ha fatta e ce la farà. Tutto vero: Monti è da sufficienza, il rischio per l’euro è scongiurato, l’Italia non può fallire. Ma il tutto è riscoperto per caso, in occasione di un viaggio all’estero di Monti, non ha nulla a che vedere con la realtà, che resta grave e minacciosa, e solo indica che Monti è il candidato delle banche, di De Benedetti e Caltagirone, e dei loro giornali, al dopo-Monti.
Si prendano i titoli del “Messaggero”. “Merkel promuove Monti: con le riforme spread in calo”. Mentre paghiamo le “riforme” da otto mesi e lo spread è sempre altissimo. “Berlino e gli altri partner si fidano e sperano in un bis nel 2013”. Un bis di nuove tasse e recessione? begli amici. E finalmente la verità: “Il premier guadagna tempo e frena il nervosismo dei partiti”. Mentre un po’ di dramma è ancora necessario: che lo spread sui titoli tedeschi sia a 45 punti, come otto anni fa, o a 450 non è indifferente, e anzi implica che il debito pubblico non si possa in nessun modo ridurre, dovendosi pagare interessi alti - molto più alti che in Germania.
Inoltre, fermo restando che l’Italia senza la Germania non va in nessun posto, se non al fallimento, bisognerebbe ribadire che la crisi giova alla Germania. Che infatti la alimenta. Non tutti i giorni, una volta ogni settimana, o ogni due: quando i mercati, stanchi di speculare, si convincono della stabilità, la Germania li rimette in allarme. Intervegono allora a turno, per alimentare i fuochi, l'Ifo di Monaco, la Bundesbank, e la Democrazia Cristiana bavarese, il terzo pilastro del governo - il primo e inconetstato di una regione che si èarricchita col Lombardo-Veneto, ma si diverte soprattutto a criticare l'Italia.
Non potrebbe Milano, che ne ha esperienza, recuperare gli untori? Non della crisi, che non ne ha bisogno, ma della non-gestione della crisi, che ne è ormai la vera causa: gente che scriva sui muri che rischiamo il fallimento per l’insipienza dei pochi?

mercoledì 29 agosto 2012

Ombre - 144

Lo “Spiegel” consacra in copertina il presidente della Bundesbank Weidmann, speranza della nazione. Che pontifica al solito contro la Bce. Nel gioco di sponda che il sito segnalava tempestivamente (“Spiegel-Bundesbank, i compari”). Non c’è dubbio che la Germania, tutta la Germania, compresi i progressisti, è impegnata a trarre il maggior profitto della crisi, a carico di chi capita, Italia, Spagna, Grecia.

Il presidente della Bundesbank Weidmann si commuove al pensiero della pubblicità degli atti della Fed, la banca centrale Usa, mentre la Bce, la banca centrale europea, si vincola alla segretezza. Ma trascura di dire che è stata la Bundsbank a imporre la segretezza degli atti della Bce.
Malafede? Certo. Ma Weidmann non è tanto bravo quanto fedele – è lì perché ce lo ha messo Angela Merkel.

“Zeman? Dice quello che tutti pensano, ma pochi hanno il coraggio di denunciare”. Il romanista Petrucci si dà coraggio, sperando nella presidenza della sua squadra del cuore ora che dovrà lasciare il Coni. Ma non dice di più, si affida pure lui a Zeman.
Petrucci, a cui la Juventus fa ricorso come giudice di ultima istanza.

L’archivio del “Sole 24 Ore” ha anche il supplemento culturale “Domenica”. Ma se cercate un testo preciso non c’è. Per esempio Piero Boitani su Dante il 12 agosto, o il “Leopardi tarantolato” di Carlo Ossola il 19. O nella stessa data il brillante “Parisi, la fisica di Proust” di Stefano Brusadelli. È un nuovo marketing?

Da qualche tempo il Gr 3, squadrone democratico, schiera di rincalzo Rocco Buttiglione. Difficile ricordare chi è, o capire che vuole, ma il nome fa tenerezza. Anche se gioca per far riposare Casini, che copre in tutti i ruoli ma non ha sostituti.

Si discute di Vallanzasca, se è giusto che gli impediscano di lavorare, ora che ha scontato la pena, là dove ha ucciso due persone. Ma lui, redento e tutto, si è posto l’opportunità di ripresentarsi così, come nulla fosse? È il tempo dei reprobi, anche non pentiti.

Buffon spiega al “Corriere della sera” che la “notizia” della sua incriminazione a Parma alla vigilia del Mondiale per scommesse illecite di milioni era in realtà del 2010. E che era una voce (gossip) e non un’indagine. Presto dimenticata. Perché è stata rimessa in giro? È stata la Guardia di Finanza, come tutti i giornali hanno scritto e la Finanza non ha smentito? C’è una Spectre che regola le false notizie?

“Non esistono giudici-tifosi, la funzione va sopra la passione sportiva”: Giancarlo Abete giustifica così la giustizia del calcio. Dimostrando che non sa cos’è la giustizia, e forse nemmeno cos’è il calcio. Che pure lui amministra, seppure per conto.

I ricchi milanesi non solo hanno la residenza facile, grazie al patrimonio, in Svizzera e a Monaco, ma la usano per scorazzare gratis in centro con le loro supercari, senza pagare il ticket, né le multe. Un buco di 4 milioni l’anno, contabilizza il Comune. È grande il senso civico nella capitale morale d’Italia.

Ricordate Teresa Principato? Bella donna, ma anche giudice – stratega involontario delle campagne politiche di Berlusconi, che vittimizza alla vigilia del voto. Ora la dottoressa, viceprocuratore Capo a Palermo, dice che il superlatitante Messina Denaro “è sicuramente protetto da qualcuno a buon livello”. Quanto “buono” non dice. Ma se sia lo Stato, dice: “Non lo so, è possibile”. Lo Stato che a Palermo è la dottoressa Principato?

Dopo mesi di polemiche contro Napolitano, con intercettazioni pubblicate o minacciate e firme a sostegno, Ingroia ha una pagina del “Corriere della sera” per lamentarsi: “Non usateci contro Napolitano”. Come se la guerra al presidente della Repubblica la facessero altri.
Ma il neo agnello non perde il vizio. E al fidato Bianconi, che non se ne accorge, lancia un chiaro: “Credo che nella battaglia politica sia tutto, o quasi tutto, legittimo”.

“Antonio Conte, meno sfortunato di altri tesserati finiti nella rete della giustizia sportiva (solo dieci mesi di stop)”… La firma di Vincenzo Cerami su questo incipit (“Il Messaggero del 24 agosto) è una pugnalata. Che uno scrittore, romanziere, sceneggiatore, possa scrivere cose senza senso. Uno che si vuole anche vicino a Pasolini, di cui è parente acquisito.

“Sono anni che denuncio lo scandalo degli incendi”, esordisce il professor Sartori nel suo ultimo articolo in prima sul “Corriere della sera”. Si sentirà solo?

La regina ha tre seni in Calabria

Dopo vent’anni mantiene un interesse immutato questa “guida alla Calabria magica e leggendaria”. Aneddoti, storie, credenze. Di un mondo forse immutabile, e sempre diverso.
Giulio Palange, La regina dai tre seni, Rubbettino, pp. 158 € 15

martedì 28 agosto 2012

Il giallo-poster della campagna anti-evasione

Markaris raddoppia: prima i banchieri, ora gli evasori fiscali. C’è un giustiziere per la crisi della Grecia, della quale il giallista è lo storico preciso. Anche di presa, si legge di volata. Malgrado il solito risvolto che rovina la sorpresa, riducendola al dilemma: arrestare l’assassino o riconoscerne la funzione sociale? Che rischia di farne un poster politicamente corretto – non mancano gli indignados. Ma Markaris è più abile del suo editor. Lo fa anzi perfino scorretto. Vecchio comunista, da ragione a Karamanlìs, capo della destra. E alla sua polizia fa fare la fronda al governo, invece di proteggerlo – “lo Stato greco è l’unica mafia al mondo che è riuscita a fare bancarotta” sarà uno dei motti celebri. C’è anche qui la saggezza dei commissari e delle cuoche di Atene espressa in latino.
Petros Markaris, L’esattore, Bompiani, pp. 341 € 18,50

Secondi pensieri - 113

zeulig

Creazione – Ha il suo maggior supporto nella linguistica, seppure non in antitesi con l’evoluzione. Nei due requisiti, di carattere appunto creazionistico, di due filosofi che progettualmente ne sarebbero lontani, Bertrand Russell e Chomsky. Nella “Introduzione alla filosofia matematica” del 1918, e nelle “strutture sintattiche” di Chomsky, del 1956. Il creazionismo non vi fa rcorso perché è un’ideologia, forte spesso della fede religiosa, e quasi una politica (aborto, diritti gay). Per gestire la sintassi (la complessità), dice Chomsky, “gli esseri umani sono progettati in modo speciale”. Mentre Russell lascia insoluto il problema del “l’insieme degli insiemi che non contengono se stessi” (mondo), non sa dove collocarlo, su che poggiarlo.

Indizi – Non portano in nessun luogo, nella storia e in altri saperi. Se non per l’effetto curiosità.

Modernità – È cristiana. Lo è anche nelle forme ch si reputano al cristianesimo antitetiche: l’illuminismo, il laicismo, il materialismo. Se per modernità s’intende la giustizia (equità) e la libertà. Anche di pensiero. Non ce n’è altra, al di fuori del cristianesimo cioè.

Mondo - La mente è un sistema statico di concetti – relativamente: siamo sicuri che non sono mutati nei millenni della storia - mentre il mondo, che pure è immutabile, presenta grumi dinamici di problemi. Vi s’incontrano nane bianche, giganti rosse, e c’è chi sta sulle tracce di una media blu. Mentre le comete viaggiano allegre, agitando la coda. Pirandello, una volta che vide le stelle, se ne diede modesta ragione: “Ci saranno per la nostra notte, per farsi contemplare”. Le stelle fisse servono a gratificare gli astronomi, in quanto fenomeno di lontananza: sono illusorie. Reali sono quelle del medio evo mistico, cristiano e islamico, della fucina alessandrina. Un Dio ci manca che stia nei cieli. Nell’infinito dove ogni punto è un centro. Metafisico, su cui nessun dato fisico può influire, di massa o tempo.

Il mondo è recente: il Barocco è del presidente Des Brosses, 1739, e di Rousseau, 1752, il Rinascimento di Burckhardt e Michelet, l’Umanesimo di Voigt, 1859. O recente e antico, ma uguale. In quanto metafisico, ogni essere dell’universo è un centro. Su cui le stelle fisse sono ininfluenti e le bestie feroci. Provare a chiedere a una formica.

Cos’è una vita nel mondo? Un soffio. E la materia resta ignota. La massa mancante calcolata dai cosmologi fa pensare a un universo più grande di quanto si sa, forse cento volte più grande, come la Carina meridionale. Ma sono grandezze stolide. La luce è un guizzo. Le stelle cadono, si polverizzano, svaniscono. E dove vanno? Al piano di sotto. Che forse è a un milione d’anni luce, o a un miliardo, un tempo e un luogo infinitamente remoti. Nulla si crea né si distrugge, la natura è la grande uggia, se non c’è qualcuno che si dà da fare. È fesso lo stato del mondo, e degli uomini quando gemmeranno, sangue di nessuna madre. Sarà triste senza padri, non essere generati, non c’è continuità né illusione, finisce il ricordo. Ma sarà semplice: ognuno è un cubo, asimmetrico, e lì è la sua libertà - essere-per-la-morte, Heidegger l’avrà detto.

Storia - Storicità, Geschichtlichkeit, è Geschicklichkeit: essere inviati, assumersi il proprio destino, la storia umana è l’Essere che si rivela. La possibilità di accesso alla storia si fonda sulla possibilità che un presente sappia sempre essere-per-l’avvenire. Martin Heidegger è il Picasso della filosofia, il Pelé, il mago Houdini.
C’è un altro concetto della storia, e dell’essere nella storia, ed è quello filosofico, di Schopenhauer prima e ora di Heidegger: “Può anche succedere che storia e tradizione vengano livellate in un magazzino uniforme di informazioni, per l’inevitabile pianificazione di cui un’umanità pilotata ha bisogno”. Pilotata, dunque. “Noi oggi, in modo del tutto particolare, viviamo della, nella e con la storia”. Che non è il passato. O meglio, il passato non è ciò che passa, ma ciò che ancora resta da prima. Il passato come vera storia è ripetibile nel come. E il modo di questo ritorno è segnatamente la coscienza morale. Solo il come è suscettibile d’essere ripetuto. E non è che un inizio.
La storia nascosta da ciò che viene detto non costituisce causalità, tutto è volontà.

L’esigenza della libera assunzione della techne, della messa in opera dell’essere attraverso il sapere, spiega Heidegger, è così che c’è la Storia. È una categoria primitiva, secondo la quale il pensiero si sarebbe trasformato nel rammemorare, e quindi nel compiacersi – la memoria è il Super-Io, direbbe Freud. Ma ci siamo lasciati alle spalle l’arroganza dell’Assoluto. L’essenza dell’essere, Wesen, non esprime una realtà ideale, ma è anzitutto verbo, verbum, fatum, detto, e quindi storia. La storicità è l’essenza estrema dell’essere. Che si rivela mentre si nasconde, o viceversa Questa sospensione, questa epoché, fa sì che l’essere sia epocale, cioè si riveli per epoche. L’essere è autorivelazione nella parola. È epoché, unità articolata di rivelazione e occultamento. L’epoca è deiettiva, muove da un massimo di rivelazione con un minimo di occultamento a un massimo di occultamento e un minimo di rivelazione. Ed eccoci: l’indigenza prepara la rivoluzione, il rovesciamento in una rinnovata rivelazione. Senza fiato. Bene, come vuole Giordano Bruno, ”i filosofi sono poeti e pittori, i poeti filosofi e pittori, i pittori filosofi e poeti”.

Un altro filosofo tedesco, due volte tale per essere ebreo, pare obiettare l’assurdità di un passato che è presente: “L’idea che l’intero passato possa essere raccolto nel sapere assoluto di un presente assoluto è assurda”, afferma Husserl d’acchito. Ma non chiude, schiude orizzonti infiniti: la vita è storia, “mondo finito, relativo soggettivo, con orizzonti infiniti aperti”. La storia del mondo quale infinita idea è l’idea del mondo proiettata all’infinito. Il mondo in revisione continua a mezzo delle infinite rappresentazioni che se ne fanno. Un passato indefinito oltre che infinito, attraverso le revisioni. Che non bisogna temere, troppi sono i danni del terrore della storia, al coperto dell’eterno ritorno e altri miti.

Tempo - L’irreversibilità del tempo, cioè il divenire, Einstein diceva di non crederci, pur lamentando di non saperlo dimostrare. Ma nessuno ci crede: oggi non è ieri, se non per pochi legamenti, persistenze esili e forse inutili.

Il tempo è lento: siamo com’eravamo, quel che è stato è. È il numen historiae di Plinio, il divino della storia. Si toccano nell’era della velocità i limiti dell’homo faber, logico, creatore. La via della scoperta va all’indietro, il tempo è reale in quanto memoria e attesa. Cos’è il tempo dell’uomo, quand’anche volasse tra le stelle? Un passo. Il primo di miliardi, di un numero di passi incalcolabile. Irrilevante.
L’uomo è nato da poco, si sa. E fa scemenze. “Quale scimmia arrabbiata gioca tali\insulse buffonate sotto il cielo\da far piangere gli angeli”, e Shakespeare. In una galassia ci sono stelle a miliardi, e le galassie sono cento o centomila, ma sono una minima parte della materia, sempre che l’universo sia piatto. La quantità non è qualità, ma non sempre. Lo spiega Orienzio nel repertorio di Gourmont: “La nostra fine non ammette fine, la morte, che ci fa morire, muore perennemente. Per l’eterno moto l’uomo vivrà in perpetuo”.

Si può dire pure al contrario, che il tempo è un macigno. O statico lo spazio, che approssima l’essere. Per avvicinare una stella attraverso la colonizzazione delle comete, la via più facile degli astrofisici, ci vogliono quattrocento anni.

Di Orienzio l’editore è Delrio, il gesuita che inventò le streghe. E non gli evita di dire, sempre nelle Comminatorie: “La gloria della carne è l’erba in fiore”. C’è chi non lo sa. Miliardi di anni inutili, e di stelle decrepite, senza mai aver vissuto. Dio per esempio non lo sa, che non è di questo mondo - se non dorme, pure lui. Ma l’uomo, che di quegli ammassi è parente, si agita ribelle. Un giorno chissà, come il tempo degli spaghetti al dente, anche il tempo dell’orologio sarà scandito diversamente, e i cento anni dell’uomo confermati più lunghi dei miliardi di anni luce del sonno stellare.

zeulig@antiit.eu

lunedì 27 agosto 2012

Il mondo com'è - 108

astolfo

Decolonizzazione - Marx, al contrario di Kipling, non voleva lasciare agli indiani i loro dei. E forse sapeva perché: la sterilità della democrazia nell’ex Terzo Mondo ha dell’incredibile. Non c’è paese in Africa, in Asia, in mezza America Latina, dove non si fanno per la democrazia guerre crudeli, tribali, mafiose. Una volta si diceva che c’era dietro la Cia. Poi gli usa si sono rivelati buoni, che il Terzo mondo hanno voluto integrato alla loro macchina possente - il conservatore è realista (e il realista, è sempre conservatore?).
Ma perché costringersi a elogiare l’imperialismo? Sarà stato l’ultimo regalo avvelenato del Terzo mondo ai terzomondisti: la decolonizzazione non è indolore, l’imperialismo insegnava le buone maniere.

Ebraismo – Dunque, siamo tutti anusim, ebrei “costretti” a frequentare le chiese. Di cui peraltro siamo molto devoti. Non tutti gli italiani, la Calabria per “almeno il 40 per cento” e la Sicilia. Anche se costretti senza persecuzioni, per il quieto vivere.
Lo afferma Barbara Aiello, rabbina americana riformata che da qualche anno opera anche nel paese d’origine del padre, Serrastretta. Dopo essere stata rabbina a Milano. Tra le perplessità delle istituzioni ebraiche italiane e americane, ma nel solco di un revivalismo ebraico che sconfina nel trionfalismo dei primati.
A Serrastretta Barbara Aiello ha creato un Italian Jewish Cultural Center of Calabria, e ha aperto la prima sinagoga attiva in oltre cinquecento anni. Con un certo seguito. Anche se con una biografia a tratti forzata. Il padre Antonio, che suonava la tromba nella banda degli emigrati di Florida, è “liberatore di Buchenwald” e membro attivo dei partigiani.
Il problema è delle genealogie – “sì, ma prima?” (che secondo la paleontologia vaticana, la più accreditata, ci porterebbe sull’altopiano del Kenya, a una Eva africana). E del proselitismo. Con l’ebraismo, che in principio lo nega, che se ne appropria a ritroso, attraverso faticose derivazioni.

Imperialismo - Il mito della frontiera non è innocente. Come in tutte le guerre umanitarie, civili, eccetera, ma nel West senza veli. Anche se si propina ai bambini in un disegno spregiudicato, l’imperialismo moderno parte da Madison Avenue con Hollywood, è industria della comunicazione.
Gli americani hanno galoppato a Occidente, razziando, occupando, uccidendo, proprio come usavano le tribù gotiche e mongole, ma ne hanno fatto memoria collettiva, riducendo la Bibbia che portavano in mano e ogni altra intelligenza all’uso virgiliano. Un’orda primitiva di nuovo conio. Con l’uso ridicolo del darwinismo fino a ieri fuorilegge: sopravvive chi è più bravo con la pistola. Fino a un altro più bravo.
Il West in campo internazionale è stato il Vietnam. C’è chi dice la guerra voluta per la droga, per imporre la droga al Vietnam. Oppure per ricavarla dal Laos e imporla ai giovani americani, non si è mai capito bene, anche la sinistra si diverte. O per insegnare alla vecchia e vile Europa come si combatte il comunismo. Si dà anche la colpa ai Kennedy, di aver montato una Camelot asiatica, l’operazione Dente del Drago, per assediare la Cina e il comunismo dal Sud - non perché erano cattolici?
Ma è finita con una sconfitta senza precedenti. Senza più presidente, senza dollaro, le casse vuote, la disoccupazione più che raddoppiata negli anni di guerra, negli Usa e ovunque in Europa, l’inflazione quintuplicata. Un caso anch’esso senza precedenti: la disoccupazione con lo sperpero del tesoro e col carovita. Falsa è la teoria che la guerra produce ricchezza, piacerebbe allo imperialismo - gli inglesi hanno avuto la tessera annonaria ancora dieci anni dopo la guerra, mentre l’Italia e la Germania, semidistrutte, si spanciavano. E la violenza bellica contagia la politica e gli animi a casa.

Islam – Viene unito nel Medio Oriente dalla tenaglia turco-saudita attorno al sunnismo.
Restano fuori il Pakistan e l’Iran. E l’Afghanistan. È un’unità che si prospetta col patrocinio Usa. Ma unisce un mondo che ha un unico valore politico, il nazionalismo. Cioè il revanscismo, fatalmente indirizzato contro il vecchio-nuovo colonizzatore, l’Occidente.
Il rifiuto dei diritti civili e di uguaglianza nasce e si sostanzia del rifiuto dell’Occidente. Senza, i diritti della donna e di libertà sarebbero di adozione più agevole, l’islam come religione non ha nulla in contrario.

Israele – Non è mai successo, dal 1946, che il mondo islamico che lo circonda fosse unito. E ora che sta per avvenire, con la tenaglia turco-saudita e l’appoggio americano, attorno al sunnismo-salafismo, non ne sembra allarmato. L’unica ostilità proietta contro l’Iran. Col quale invece aveva, e ha in qualche modo mantenuto, relazioni non ostili. Mentre ora aderisce al piano antisciismo. Solo per la bomba atomica? Che l’Iran comunque non potrà usare?

Se c’è stata una vera minaccia all’esistenza di Israele, è in questo blocco islamico unito. Un islam forte, fortissimo, seppure “americano”, invece di un islam diviso. Tanto più sapendo che il moderatismo o americanità sono di facciata, l’islam è nazionalista, e perciò, a questo fine, onorabilmente dissimulatore.

Manomorta – Si potrebbe riscrivere la storia dell’Italia unita con più utilità non sottovalutandola. Tutti i vizi vizi nazionali, concussione, patronaggio, evasione fiscale, che si imputano ai preti, l’Italia cumula a partire dall’appropriazione dei beni dei preti, inclusi i santi in chiesa e le Madonne. Lo disse Pasquale Villari già nel 1862, e poi Salvemini, ma senza effetto. Il Risorgimento voleva solo la manomorta, repubblicani e monarchici uniti nelle logge, e non ha lasciato altra cultura se non dell’avidità, l’irreligiosità è corollario. La manomorta rovinò l’Italia sul nascere, con l’estensione al Centro-Sud delle leggi eversive: la svendita dei collegi e dei conventi, meglio ancora l’enfiteusi perpetua gratuita, generalizzò la corruzione.

La lista della manomorta fa buona parte del patrimonio nazionale: il passaggio tal quale dei feudi dagli antichi ai nuovi feudatari, grossisti, speculatori, gabelloti, giurisperiti, con la distruzione dei Monti frumentari, il vecchio Credito fondiario, la vendita al ribasso dei beni ecclesiastici, in aste deserte al prezzo minimo, la spoliazione delle chiese, l’esproprio dei conventi, il saccheggio delle casse e le case dei governi destituiti, e a Roma perfino delle biblioteche, al Collegio Romano, a Sant’Andrea della Valle, al museo Archeologico, e del museo Kircher, luogo di meraviglie, l’usurpazione dei beni comunali e dei diritti comuni, di pascolo, caccia e pesca, e di coltivo, la dislocazione delle Opere pie, l’affrancamento dai canoni enfiteutici. Un’aggiunta da fare è l’ultimo definitivo sacco, esteso a tutta l’Italia, di naiadi, erme, putti, torsi, anfore, colonne, antesignani dei nani nei giardini e nei salotti.

La borghesia italiana è figlia dei notabili, legulei, cerusici, apoticari, figli a loro volta degli insaziabili fittavoli e gabelloti che la spoliazione hanno trasferito dai baroni e la chiesa allo Stato intangibile. C’è la borghesia di Marx, occupata a far fruttare il capitale, e quella francese, che l’Italia scimmiotta, politicante. L’Italia è l’unico paese dove la borghesia è antindustriale, con lo sfoggio di etica caratteristico dei corrotti: l’industria la borghesia italiana disprezza perché s’è abituata a guadagnare senza pagare, coi beni della chiesa.

astolfo@antiit.eu

Come si sterilizzò l’opinione

La crisi dei giornali (dell’opinione pubblica) è vecchia di almeno vent’anni, se se ne scriveva:
“I giornali sono entrati in un ciclo di opposte follie, eccessivamente leggeri e eccessivamente impegnati, un mix di cui non si afferra il senso.
“Si può pensare che le paginate, giorno dopo giorno, stabilmente dedicate ai fatti di sesso di Woody Allen e dei reali inglesi, così come le deprecazioni dei partiti, della mafia, dell’inquinamento, dell’economia sollecitino l’interesse dei lettori. Ma non è così perché i lettori diminuiscono.
“In particolare restano freddi, dopo anni di battage e di Procura milanese, gli attacchi alla politica, sotto le forme del privatismo e dell’antipolitica – il privatismo come ricetta contro la corruzione? La politica risponde arroccandosi. Senza cioè utilizzare le armi che pure ha già a disposizione e che sarebbero micidiali: il costo elevato e la poca efficienza della medicina privata, della scuola privata, dei servizi idrici, energetici e postali privati. È probabile che giornali (i direttori) rappresentino solo l’ideologia della proprietà. Era inevitabile, una volta che i giornali sono tornati nell’alveo di interessi più grandi, e così è.
“Ma lo scollamento è visibile anche in televisione, dove gran parte dell’informazione è ancora pubblica. E allora? Sono i partiti all’origine di questo impasse, alcuni partiti contro altri? La Rai, è anche da dire, è da tempo un saprofita, va dove la portano i giornali – “la Repubblca” o il “Corriere della sera”. Un opportunismo da vecchia puttana”.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (141)

Giuseppe Leuzzi

Ci si saluta al Sud come nel resto del mondo. Con un cenno, un suono, un’occhiata, riserbando baci e abbracci a lunghe lontananze. Ma avviene che i settentrionali trovandosi al Sud, poiché si sa che al Sud la gente si bacia e abbraccia sempre, dispensino baci e abbracci a ogni incontro. Anche tre volte in un giorno, se avviene d’incontrare la stessa persona la mattina, il pomeriggio e la sera. È un grosse corvée per i meridionali – che, in effetti, sono indolenti.


Grande dibattito a Milano sulla Grande Brera. Su come cioè tirare le infinite bellezze raccolte a Brera dai rifiuti e dall’abbandono. Da quasi quarant’anni. Ora se ne riparla per un progetto di privatizzazione: gestione privata con la regia pubblica. Cioè con i soldi pubblici: 23 milioni stanziati dal Cipe. Che non sono molti ma in questa secca lo sono. Come guadagnare cioè con i soldi pubblici.
Che c’entra Milano con il Sud? C’entra.

La storia economica dell’unificazione è semplice, come la semplifica Andreina De Clementi (“Di qua e di là dell’Oceano”) e vera. L’unità aveva trovato il Sud a livelli di produttività nella media nazionale. Dopo trent’anni i rendimenti del Sud erano crollati. Effetto della cattiva amministrazione (del cambiamento da una non buona a una cattiva), della gestione impolitica, e del fisco. Quindi dell’emigrazione  (l’effetto fu lo stesso, fino al secondo dopoguerra, su Veneto e Liguria).

Le infrastrutture sono tema noioso, come fossero un tema abusato. Ma i dati sulla qualità del servizio elettrico dicono che in Calabria ogni utente subisce ogni anno in media 7,2 cadute improvvise della corrente, contro le 1,9 del cliente lombardo. Senza contare gli sbalzi di tensione, che tanti motorini  domestici, dalla caldaia del riscaldamento all’autoclave, mandano fuori uso.

S’incontrano nelle feste di devozione popolare masse di persone, donne ma anche uomini, che non si vedono altrove, in piazza, per le strade, al mercato, alla posta. Lavoratori poveri, si deve arguire, che non hanno tempo per bighellonare e non ha la pensione né altro da spendere. Anche in chiesa non si fa vedere.

Calabria
 “Non c’è male”, “Così e non peggio”, “Non possiamo lamentarci”. Si chieda a un calabrese come sta, e il più delle volte la risposta è uno scongiuro: “Non c’è malaccio”, “Si tira avanti”.

Dunque i calabresi sono ebrei e non lo sanno – per “almeno il 40 per cento”. Lo attesta Barbara Aiello, rabbina americana. La rabbina non ha buona fama presso le istituzioni ebraiche, in America e in Italia, ma non c’è problema a crederle. Sono anusim, dice, cioè “costretti” a frequentare la chiesa. Che lascia intatto il principio dell’evangelizzazione, dacché non ci sono state persecuzioni.
Barbara Aiello è un personaggio nel paese d’origine di suo padre, Serrastretta in provincia di Catanzaro. La Calabria è terra fertile per ogni proposta di fede, avventista, valdese, Geova, oltre che devota ai santi e alle Madonne. Anche gli accrediti del padre di Barbara sono molto calabresi: emigrò (nel dopoguerra) da Serrastretta, dove aveva “operato con i Partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale”, diventando “un liberatore del campo di concentramento di Buchenwald”. Un foto lo mostra suonatore di tromba (il “flicornino”) nella banda degli emigrati italiani a Pittsburgh, The Italian Sons & Daughters of America.
Non abbiamo fatto in tempo a scoprirci greci che siamo dunque ebrei. Barbara Aiello ne trova le radici nell’onomastica: Palaia, Dito, Versace, Taverna, Frisina, Leuzzi, etc., tutti i cognomi ricorrenti in Calabria, e in quelli geografici, Lombardo etc. (un Domenico Petito dice il suo cognome tra i più diffusi in Israele, “ci sono Petito in tutte le maggiori città di Israele” - non nelle campagne?)
Ma trova a Lamezia un Lorenzo de’ Medici Gatti,  “discendenza certificata dalla nobile casata toscana per parte di padre e da ebrei polacchi per parte di madre”, secondo “Il Sole 24 Ore” del 22 agosto, “nel curriculum un’apparizione a un reality tv”, che allo stesso giornale promette: “Il mio gruppo (?) ha in cantiere investimenti da 16 milioni per realizzare un residence di lusso a Nocera Terinese. Costruiremo anche una sinagoga da 200 mila euro, destinata alla clientela russa e americana. La rabbina celebrerà matrimoni in riva al mare”.

La terra più selvaggia ha una storia di ospitalità. Per i monaci scappati dall’Oriente – per l’iconoclastia, l’esicasmo, il Filioque, l’islam. Per gli ebrei, di Spagna e d’Oriente. Per gli zingari. Anche i confinati politici non ebbero a lamentarsi sotto il fascismo, e i gli internati nel campo di concentramento di Ferramonti, in maggioranza ebrei.

Ha una letteratura prevalentemente dell’esilio – dell’emigrazione. Che è allo stesso tempo esiliata – dimenticata. Domenico Nunnari ne fa la constatazione in un saggio in tre puntate sulla “Gazzetta del Sud” ad agosto. La lista è lunga, a cominciare da Alvaro, che pure fu uno dei maggiori scrittori “europei” del Novecento: Misasi, Perri, Seminara, Repaci, La Cava, Altomonte, Asprea, Strati. Gli unici due scrittori con diritto di cittadinanza sono Carmine Abate e Mimmo Gangemi. Per ora.
L’emigrazione è vissuta da questi scrittori, specie da Abate e Gangemi, come una sconfitta e una diminuzione. Mentre è per antonomasia coraggiosa e perfino avventurosa – uno che parte da Carfizzi è come uno che parte da Montebelluna, non è uno che lascia il peggio per il meglio, non necessariamente, ma uno che vuole essere libero anzitutto, per un suo progetto, anche se non precisato.
Abate, che dell’emigrazione ha perfino fatto un’aggiornata sociologia, insieme con la studiosa tedesca Meike Behrmann, allieva di Norbert Elias, ne “I Germanesi”, sembra non riconciliarsi con la figura del padre. Che “preferiva” vivere, magari solo, nel Nord Europa tutto l’anno, salvo Natale o Ferragosto, perché voleva una vera casa al paese, un campo degno di questo nome, e gli studi per i figli. Che erano il suo modo di vivere e di essere e non una privazione. Una visione in cui non c’entra il barone, su cui si attarda il figlio intelligente e colto, il latifondo, il suolo arido del marchesato, e i semi di zucca per chewing-gum - si fosse fatta l’edilizia popolare negli anni 1920, dopo il terremoto, magari di casette unifamiliari come usava dopo i terremoti, la Calabria non si sarebbe spopolata, nel marchesato, dove c’era il barone, e negli altri quattro quinti di territorio dove la proprietà era sminuzzata.

Il discorso del “Sud”
“Pakistani come calabresi”, spiega un ambulante all’ombrellone accanto su una spiaggia calabrese, “no milanesi, milanesi no”. E intende il rapporto uomo-donna. Lo dice a una donna che è madre di molti figli, con i quali però ha urlato e si è divertita tutto il pomeriggio, incurante dei vicini, inviando ogni tanto perentoria un larva di marito a procurare i gelati e le patatine al bar, e ora per una mezz’ora abbondante tiene l’ambulante in piedi sotto il sole rovente a risponderle in un faticoso italiano, senza comprargli nulla.
Il “discorso su” (narrazione) fa testo come un imprinting, un “sentito dire” definitivo e ineccepibile, anche se non si posseggono gli strumenti del dire e del capre.   

Mentana ha messo in campo il 26 luglio su La 7 tre big, Ferrara, Mieli e Lerner, quattro con l’economista Alesina, sulla crisi dell’euro, ma pare abbia fatto il minimo di share, il 4 per cento. L’argomento del “dibbattito” era che la Merkel giustamente non deve pagare i forestali calabresi.
Il “discorso su”, la narrazione degli storici, può fare boomerang oltre certi limiti.

leuzzi@antiit.eu

L’occupazione militare di Reggio Calabria

Il 18 luglio 1970 è il quinto giorno, annota il fotoracconto di Fabio Cuzzola, “Fuori dalle barricate”, della rivolta per “Reggio Capitale”. Con barricate al centro della città e blocchi all’autostrada e ai traghetti per la Sicilia. Quel giorno si svolgono i funerali della prima vittima dei disordini, Bruno Labate. Alla presenza di alcuni giornalisti stranieri, ma senza la Rai e senza i giornali italiani.
YouTube ci ha abituato a immagini ben più drammatiche, e tuttavia le immagini della rivolta per Reggio Capitale, riedite due anni fa per i quarant’anni dell’evento, hanno una loro cupa durezza, con gli M113 in città. In una città italiana. Quando i bambini, sul finire della rivolta, si mascheravano per carnevale.
Il sindaco di Reggio nei diciotto mesi della rivolta, Pietro Battaglia (che si farà poi tredici mesi di carcere, sulle opportune denunce di un delinquente “pentito”, prima di essere assolto), un democristiano molto ragionativo, ricorda nell’ultima intervista qui riportata prima di morire, nel 2005, solo scene da occupazione militare. “Ricordo nitidamente le bastonate, le manganellate subite dai giovani di Reggio, e poi, ancora peggio, i ragazzi chiusi nella prefettura, tartassati da botte, e anche da fatti molto ignobili – come per esempio la pipì in bocca”. A opera della Celere, “soprattutto il reparto che veniva da Padova”. E le svastiche sui muri delle scuole dove la Celere era acquartierata: “Svastiche tedesche, simboli di morte, quindi l’odio! Non si trattava più di contenere una rivolta, qui venivano con la mentalità proprio di padroni, di colonizzatori”.
In una rivolta di destra, spiegava “Time”, la rivista americana, le tecniche erano di sinistra, quelle dell’autunno caldo appena concluso: barricate, e scontri con la polizia. Ma gli M113, possiamo aggiungere per esperienza personale, dovevano realizzare qualche anno prima il Piano Solo contro il centro-sinistra, un mezzo molto mobile per l’occupazione delle città. Contro il partito Socialista fu poi “curvata” la stessa rivolta di Reggio. Che invece, dice Battaglia, fu occasionata dal suo proprio partito, la Democrazia Cristiana, divisa e confusa, incapace di elaborare un progetto regionale che riequilibrasse i pesi e i vantaggi nel territorio.
Un’appendice è doverosa per il recensore. Reggio si pose ai margini della Regione Calabria appena creata – in quel 1970 si votavano per la prima volta i Consigli Regionali – è lì è rimasta: indolente, isolata, parassitaria. Incapace di investire sulle miniere naturalistiche, archeologiche e amministrative di cui è dotata. Isolata dal suo territorio, che ignora pervicace. Senza una sola iniziativa di rilievo, poiché solo il “posto” conta.
La protesta si concluse col “Pacchetto Calabria” del governo: capitale a Catanzaro, università a Cosenza, quinto centro siderurgico a Gioia Tauro. Progetto poi sostituito, per i vincoli europei alla produzione di acciaio, con una megacentrale a carbone pulito dell’Enel. Che il Procuratore Capo di Palmi, Cordova, di destra dichiarata, avverserà con ogni mezzo – ventuno imputazioni contro il presidente dell’Enel Viezzoli, poi prosciolto. Del progetto Gioia Tauro resta il porto, fieramente avversato dal “Corriere della sera” ma utilmente trasformato nel più grande e efficiente interporto container del Mediterraneo.
La prima carica brutale della polizia, che fece degenerare le manifestazioni fino ad allora molto pacifiche, fu decretata il 14 luglio 1970 da un commissario di polizia che si chiamava Lombardo, ed era di Giojosa Jonica.
Fabio Cuzzola, Fuori dalle barricate, Città del Sole, pp. 119 ill. + dvd € 12

domenica 26 agosto 2012

Moro, Andreotti, i socialisti e la storia rimossa

Sul centro-sinistra, il grande rimosso della storia italiana (basta leggere Ginsborg), nulla è cambiato rispetto a vent’anni fa, quando i giudici ne affossavano il pilastro, il partito Socialista:
“Il centro-sinistra sarà stato l’esperienza innovativa più concreta nella storia della Repubblica e dell’Italia: diritto di famiglia, salute, lavoro, moneta e potere d’acquisto, ambiente e urbanistica, relazioni internazionali. Nelle future storie non bisognerà partire dal Risorgimento tradito ma dal centro-sinistra tradito.
“In estrema sintesi. Mentre la crescita impetuosa dell’economia avviata nel fascismo (banca, acciaio, infrastrutture, motorizzazione, ricerca), si riprende e consolida quindici anni dopo la guerra, la guerra perduta e quella civile, la democrazia ci impiega quaranta a consolidarsi, dopo i maldestri tentativi del giolittiano suffragio universale del 1913 e del 1919. Il governo, da sempre confinato nella Repubblica in anguste maggioranze di centro-destra, torna dopo quarant’anni al 1919, allargandosi ai sindacati e ai partiti popolari di sinistra. Indisponibile il Pci di Togliatti, partito d’ordine (di governo) ma subordinato a Mosca, l’apertura si fa con i ribellisti (autonomisti) socialisti. Finalmente l’Italia si dota, in un quinquennio o poco più, di leggi adeguate per il divorzio, l’aborto, la parità femminile, la protezione dell’ambiente (acque, paesaggio, coste), la sanità, il lavoro. Un “produttività” politica che avrà una ripresa, breve, ametà degli anni Ottanta, con la protezione del potere d’acquisto (referendum sulla scala mobile), e il riconoscimento internazionale, in Europa e nella guerra fredda (euromissili).
“Tutti i mali italiani derivano dal blocco del centro-sinistra sotto i colpi della strategia della tensione – piazza Fontana è anche un apologo, oltre che l’avvio forzoso della reazione. I terribili anni Settanta, le stragi, il terrorismo, la lottizzazione, e il democraticismo (parlamentarismo ostruzionistico), con l’abbandono di ogni progetto, e la rottura della capacità politica di rappresentare e mediare, a opera del Pci di Berlinguer, e dell’accoppiata Moro-Andreotti.
“Aldo Moro è l’artefice del fallimento. Non si può dirlo, poiché del fallimento è la vittima. Ma ne è stato artefice dichiarato, alla sua maniera involuta – l’attenzione al Pci e il disprezzo del Pci erano il suo modo d’essere integralista. Fin dall’inizio, quando si era proposto come il male minore nei confronti dell’animatore del centro-sinistra, Fanfani. Rubando con determinazione – Moro era inflessibile, durissimo – il ruolo del realizzatore del progetto allo stesso Fanfani. Contraddittorio quanto bastava per non sembrarlo Si impegna contro Segni nel 1964, ma copre De Lorenzo e anzi se lo tiene in caldo per il colpo decisivo quattro anni dopo: la denuncia del Piano Solo nel 1968, tutto lascia presumere sotto la regia di Andreotti, voleva significare l’impossibilità del centro-sinistra – l’amarezza delle “seconde” lettere di Moro dal carcere brigatista nasce da qui, dall’aver avallato i traffici del suo ministro della Difesa del centro-sinistra, Andreotti, nemico dichiarato del centro-sinistra stesso”.

Problemi di base - 113

spock

Se l’arte è finita perché tanti la criticano, e la vendono?

E perché, se Dio è morto, preti e predicatori si moltiplicano?

Se Dio è invisibile, perché ha creato il mondo visibile?

Che mondo è quello che vediamo, sarà vero?

E dove poggiano tutte queste galassie, cento o centomila, piene di miliardi di stelle?

Questo è un buco vero: un Dio ci manca che stia nei cieli.

Se Monti ha la bacchetta magica, non sarà lui il Dio nascosto?

Usciremo dalla recessione tutti professori?

Perché i giornali si accaniscono a opporre Ingroia, povera stella, a Napolitano?

spock@antiit.eu

L’America dei rifiuti, alcolizzati

Poco apprezzato, se non in Francia. Dove altri quattro o cinque film sono stati tratti dai suoi racconti, dopo il successo di Truffaut, “Tirate sul pianista”, con Aznavour e Marie Dubois. Ma dove lo hanno fatto alcolizzato, isolato, povero, anzi barbone, Mentre era soprattutto uno scrittore, sceneggiatore di successo a Hollywood, quasi astemio, parsimonioso, questo sì, incapace di spendere, mammone, incapace di una vita affettiva, fino ai cinquant’anni, quando morì, e pio.
Si può dire Goodis uno eccentrico, molto. L’American Dream ha svelato prima dei beat. Dal di fuori e non dal di dentro - come vita vissuta, di barbone, drogato, alcolizzato, o preteso tale. Nei suoi aspetti più visibili: la pulizia, il salutismo, il lavoro, la famiglia. Ha eccettuato solo la politica, e il sesso – non lo sa fare, non essendo interessato. In controluce sui bassifondi, quartieri senza luce, ingombri di rifiuti. In una New York dickensiana dove la violenza è illimitata. Una sfida anche al genere, duro-azione, irriso pesantemente: le scazzottate sono squartamenti, gli inseguimenti si fanno a piedi, tra ratti e rifiuti.
Questo Omnibus Gialli curato da Lia Volpatti nel 1989 è un doppio atto di coraggio: consacrare un autore quasi sconosciuto, e pubblicare gli allora inediti “Sparate sul pianista” (“Down There or Shoot the Piano Player”, del 1956, qui “Non sparate sul pianista”), e “Strada senza ritorno” del 1954, oltre a “Il buio nel cervello” (“Nightfall”) del 1947 e “C’è del marcio in Vernon Street” (“The Moon in the Gutter”) del 1953. Alcuni dei testi sono stati recentemente ripubblicati da Fanucci con altri titoli: “Nightfall” è “Il vuoto nella mente”, “Down There” è “Sparate sul pianista”.
Lia Volpatti gli rende giustizia anche come genere, per una confusione tuttora non diradata, tra hardboiled e noir, duro e nero. “Violenza e azione” sono connotazioni dell’hardboiled ma non necessariamente del nero, “perché dove c’è il nero c’è spesso più che altro rassegnazione, disperazione, autodistruzione, non voglia di lottare bensì di cedere, di lasciarsi andare”. Goodis si diceva personalmente “in attesa che il mondo ritrovi la sua anima”. Che nell’attesa rappresenta quale è, pieno di anime smarrite.
David Goodis, Profondo nero