Cerca nel blog

sabato 27 ottobre 2012

Problemi di base - 121

spock

Arcobaleno, arc-en-ciel, rainbow, arco-iris, Regenbogen, è la stessa cosa?

Se Eva era nera, lassù in Kenya, com’è che ha avuto figli bianchi?

Ci sarà stato anche allora il problema di sposare un bianco?

Da dove vengono le razze - quelle umane, non i pesci?

Candidato viene da candido, pecunia dalla pecora, ariano dall’aria?

Non ce n’è a volte per nulla, non sarà il tempo un compattatore?

I giovani amano la vita, perché la vita non ama i giovani?

Il governo toglie ai vecchi per dare ai giovani, ma dove si perde il malloppo?

Quanti granelli fanno un mucchio, quanti alberi un bosco, quanti uomini l’umanità? E di che grana?

spock@antiit.eu


La politica dei girotondi

Dieci anni fa, giorno per giorno, la politica si rinnovava, anche allora:
“I girotondi si sono già stancati, e divisi. «Queste ragazze devono smetterla di convocarci con una e-mail», dice Veltri. Anche i filosofi Prodi e Flores sono stanchi delle ragazze. E Nanni Moretti. Moretti con caratteristico opportunismo. Ma chi sono Veltri, Pardi e Flores? E le «ragazze», come si diceva nel Pci? Nuovo o vetero sovietismo?
“Se ne lamenta anche Nanni Moretti. Ma lui non lega nei girotondi come in niente altro, sempre dentro a un suo film. Mentre Sordi rappresentava, Moretti è: atteggiato, ironico, mangione, misantropo, e uomo d’ordine. Una figura di reazionario – anche Berlusconi critica da destra”.

Il sogno di una Sicilia lombarda

Vittorini sprofonda, come Alice o come in sogno, in un mondo a parte che chiama Sicilia, reale e onirico insieme, febbricitante. Dove incontra la fame, la povertà materiale. Dentro una capacità mentale ed espressiva perfino esagerata. Che gli si impone nelle vesti di un Gran Lombardo, e di un Arrotino-Calzolaio-Cenciaiolo. Dialogando cioè con se stesso. In cerca, in guerra, col fascismo rimpicciolito dagli eventi, di “cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo”.
Un libro onesto. Di un Vittorini siciliano per ogni aspetto, anche nel rifiuto. La Sicilia riduce a “una mia stazione della vita”, dalla quale fuggire, e l’aveva fatto più volte prima di quella definitiva a quindici anni. Ma non si trattiene dal familiare intransitivo attivo, “uscì di tasca una grande mano”, “scendendo le sue valige”. Che è una costruzione mentale: la lingua, intende, tutto siamo noi. Il plot è del resto manifesto, un nostos triste: Vittorini va a trovare la madre sola, abbandonata dal padre, la Sicilia.
Sciascia, che inizialmente stravedeva per questo Vittorini – quando Vittorini faceva l’editoria a Milano e Torino – nel 1981 lo rilegge e cambia idea: “Non resiste purtroppo, è una Sicilia tradotta”. È invece l’unico libro onesto di un siciliano, pur riluttante, sulla Sicilia. E nella prima metà, le prime tre parti, un capolavoro, non una virgola è di troppo. Senza smancerie, e senza cattiveria. Non folklorico – ah, la diversità (la diversità qui non è sottolineata). Il Gran Lombardo, che meglio sarebbe stato Gran Normanno quale in Sicilia ancora s’incontra ovunque, “alto, biondo e con gli occhi azzurri”, mentre i Lombardi vi sono piccoli e scuri, è il formidabile nonno materno, sicilianissimo, e un omaggio dello scrittore alla “sua” Milano.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

venerdì 26 ottobre 2012

Berlusconi liberato - 10

Più che altro è una liberazione, questa di Berlusconi. Una mossa tattica evidentemente, per una nuova iniziativa – Berlusconi è imprenditore, sa che bisogna ogni tanto rinnovare tutto. Ma che appare liberatoria. Di se stesso, più che dell’Italia da lui – la quale infatti sta a guardare (soprattutto i comici di regime).
Questo oltre agli effetti collaterali. Spiazzare il voto di destra che si pretende di sinistra: Casini, Fini, la stessa Lega di Maroni. Spiazzare chi c’era prima e ancora c’è: Casini e Fini nella destra. Liberare infine i democristiani: prima aspettavano che Berlusconi morisse, poi che andasse in prigione, ora potranno marciare da soli, i Pisanu, Scajola, Buttiglione, se troveranno i voti.
Berlusconi libera la sua idea di partito dalla zavorra che aveva imbarcato e lo ha sommerso: ex missini senza un’idea, e democristiani. Per una partito nuovo. Una lista di minoranza, ma che conti, con la forza del franco tiratore, al modo dei Bossi, Casini, Fini. Benché – marchio di fabbrica – “responsabile”. Berlusconi più di tutti sa che si può guadagnare molto con aziende-fatturati piccoli, mentre con aziende anche monopolistiche si può faticare.
Personalmente si è liberato di Milano, della città che l’ha odiato e perseguitato. Che infatti è rimasta a bocca aperta. Le donnette in forma di giudice che lo perseguitano non sanno più che tessere. Anche i corpi separati sembrano sorpresi, non ci sono ancora intercettazioni sul caso. L’Italia non si sarà liberata di Berlusconi, ma lui di Milano sì. Cui aveva cercato di sfuggire trasferendosi a Roma, con tutti i tg e i teatri di posa – scoprendo la musica a Santa Cecilia e all’Opera di Roma, mentre la Rai sa solo che si fa ala Scala. Milano non gli aveva dato tregua, inseguendolo anche in camera da letto, ma ora sembra che non abbia più nulla da scoprire.
In realtà Berlusconi fa una mossa politica. Non risolutiva e meno geniale di altre sue. Ma sarà questo il segno della sua Italia: sotto Berlusconi niente, si può essere giganti da nani.

Nano gigante
Sperabilmente Berlusconi libererà pure l’apparato repressivo di Milano, che in questi venti anni è stato concentrato su di lui. Tutto l’apparato repressivo, e per questo forse la città è diventata la zona franca del crimine economico. Dei collocamenti avventurosi, da Tiscali a Saras. Dello spionaggio, per esempio alla Pirelli-Telecom (ma non è un caso isolato). Dei delitti ogni giorno impuniti in Borsa  (insider, cartelli, false comunicazioni – quante false comunicazioni). Della cocaina, di cui Milano è la capitale mondiale.  Con precedenti certo, da piazza Fontana in poi: la maggioranza silenziosa, il “Giornale” di Montanelli, l’abduzione del “Corriere della sera”, gli affarucci di Gemina, l’Eni-Montedison, Tangentopoli. Quindi con una certa propensione, ma in questi anni berlusconiani l’impunità è diventata spudorata. L’apparato repressivo è stato infatti concentrato su di lui. Con 27 processi – 28 col motu proprio sulla Mondadori. Di cui 26 chiusi con l’assoluzione o la prescrizione – che non è mai imputabile all’imputato – ma questo non vuol dire. Le perquisizioni delle sue aziende e dei suoi uffici, con comunicati stampa e fotografi al seguito, sono state poco meno di 500. Incalcolabili le intercettazioni. Ventiquattro ore su ventiquattro, telefoniche e ambientali, negli ambienti anche più intimi. La registrazione per esempio dell’amplesso sul “lettone di Putin”, fornita poi gentilmente a una prostituta, che si era già provveduto a fotografare “in quadro” con Berlusconi e poi è stata  venduta a buon prezzo a Rai, Sky, “El Paìs”, “The Times”, il meglio dei media europei. Il tutto dopo il 1993, dopo l’entrata in politica, prima sia il gruppo che Berlusconi erano puliti.
Il passo indietro dovrebbe dunque liberare l’apparato repressivo. Ma questo solo in ipotesi. La provvisoria condanna di oggi, molto più dura della richiesta della Procura, dopo un dibattimento durato otto anni, dimostra che a Milano ogni patologia è possibile.
Quello di Berlusconi è un record delle statistiche giudiziarie. Andreotti ha avuto 40 processi. Ma non con tanto clamore, eccetto quello per mafia, e senza perquisizioni. I corpi separati con Andreotti non marciavano. Inoltre, Andreotti non ha avuto le intercettazioni, che sono anch’esse la specialità dei corpi armati dello Stato. Questo parallelo è interessante, una parentesi ci vuole. Forse Andreotti è stato risparmiato perché ha combattuto per primo e in prima persona, dal 1967, questi corpi: dapprima contro il generale Di Lorenzo, poi contro il generale Miceli, generali dei Carabinieri. E un insegnamento sembra doversi trarre, che Berlusconi come Craxi non ha osato, e per questo ha pagato: il mulo vuole la cavezza, corta. Ma allora bisogna dire che non c’è salvezza contro i generali, sia che li si combatta sia che no.

Resistente
L’uso è rappresentarlo tiranno. Con tutte le sue case editrici e le televisioni, e i soldi con cui compra tutto, i deputati e i senatori, i giudici e i giornalisti, la cocaina e le minorenni – l’uomo più ricco, etc.. Mentre la verità è che è un tirchio. Strapaga le ragazze che gli mostrano le tette, ma di tasca sua. Coi suoi governi le fonti di finanziamento pubblico di giornali, agenzie, associazioni, fondazioni, anche “culturali”, si sono inaridite. Rispetto ai governi Prodi, D’Alema, Amato: avevano più rispetto verso i bisogni dell’opinione. E non conta niente. Non rispetto alle banche: tutte le banche gli sono nemiche, Intesa Unicredit, Monte dei Paschi, Mediobanca, le Popolari e le Cooperative. Non conta niente tra i potentati: rispetto ai Bazoli, Moratti, Tronchetti Provera, De Benedetti, Benetton, e i paraninfi dei potentati stranieri, Della Valle, Montezemolo, etc. Anche sui media: la verità è che conta, forse, per il 5 per cento dell’informazione, con il Tg 5, il “Giornale” e “Panorama”, massimo per il 10. Ma per ciò stesso ha contro tutti gli altri: la Rai, Sky, La 7, la Rizzoli Corriere della sera, De Benedetti (Repubblica-L’Espresso-Finegil), i giornali capocittà di Caltagirone e Riffeser, le radio, le tv e i siti online del Pd, i comici.
Al Sud non ha per esempio nessun sostegno, dove pure spopola alle elezioni. In Campania, Calabria, Puglia, Sardegna, Sicilia i giornali gli sono tutti contro. O dichiaratamente, o nascondendosi nel Centro, la gagliofferia che una volta si diceva democristiana (ora è casiniana, finiana, etc.). È che lui non ci tiene, ma più di ogni altro avrebbe titolo a resistente. Anche ora che lascia il campo, la sua lettera e il suo video non hanno avuto spazio nelle decine di pagine di politica interna dei grandi giornali. Nonché negli innumerevoli siti democrat che, potenziati (quindi con un costo), occupano le prima pagine di google. Non più di Montezemolo che lascia Italo.
Tanta opposizione dovrebbe essere indizio di democrazia. Un fronte di resistenza contro il tiranno. Se non che la tirannia si dimostra non esserci. Se non quella del voto, poiché Berlusconi finora aveva avuto più voti.
È invece l’opposizione opera di figure poco raccomandabili: banchieri, affaristi, gruppi di pressione, corpi separati. Per scopi variamente camuffati, per questa o quella causa, ma poi, quando si guarda, solo eversivi - il famoso governo del non governo, degli interessi mascherati. Ossessionanti, ma allora come il terrorismo. Riuscirà Berlusconi a liberare anche questa opposizione terroristica?

Terrorismo
E poi ci sono alcune cose che vanno dette. Adesso che non c’è più, non ci sarà più così ingombrante come è stato finora, se ne può forse parlare liberamente – in passato si è pagato pegno per questo, con amici e conoscenti.
Il cerimoniale ridicolo con Gheddafi per il quale lo si affigge era stato provato a Parigi, tra Gheddafi e Sarkozy. È vero che poi Sarkozy farà fare a pezzi Gheddafi dai suoi uomini. Ma Berlusconi, allora, è un non vendicativo. È già un merito in questa Europa. Senza contare che il cerimoniale era stato provato negli Usa cinquanta anni prima dal rigido Eisenhower quando arrivò il grasso Ibn Seud, il re saudita, con le sue cinquanta o cento mogli. Insomma è un’etichetta con certi governanti. Il presidente americano, che non andava mai agli aeroporti ad accogliere gli ospiti, si precipitò in quel caso, perché Seud disse: “Altrimenti non scendo dall’aereo”.
Berlusconi era triste da qualche tempo. Nemmeno il Milan lo stimolava più. Neppure l’amata  televisione: apparire. Per non dire delle troie, si è fatto monaco, il compagno Zappadu ha dovuto ripiegare sulle statue. Si pensava la depressione causata dalla sconfitta alle elezioni nella diletta Milano. E invece no: a tutti, anche a Lino Banfi, ha confidato che era triste perché i giudici di Milano l’avevano costretto a pagare il salatissimo riscatto a De Benedetti per la Mondadori. Che non se lo aspettava.

Corruzione e prescrizione

Apparentemente allungando il processo si arriva alla verità. È in questo senso che la prescrizione, prima accorciata, “da paese civile”, ora viene allungata: siamo processabili ad libitum. Ma con disappunto delle Procure. Questo non si dice, ma fra le tante pressioni dei giudici arrivate in commissione al Senato, quelle sull’allungamento della prescrizione non ci sono state. Per il motivo che la prescrizione viene fatta ora passare per condanna: Di un imputato si dice: ha evitato la condanna per la prescrizione.
L’invenzione della prescrizione quale condanna senza giudizio è l’ultima invenzione della civiltà giuridica. La prescrizione viene presentata al pubblico come il fatto di avvocati ingegnosi che stiracchiano i processi. Mentre è un fatto nove volte su dieci interno all’ordine giudiziario. Soprattutto delle Procure. Da ultimo, è da ritenere, di proposito, avendola adottata come forma di condanna senza giudizio. Un pratica in cui si distinguono le Procure di Milano e di Palermo, le più giustizialiste, che usano cioè la giustizia a fini personali dei giudici.

L’anarca Jünger e la stupidità tedesca

Per un anno e mezzo, quasi due, l’occupazione tedesca della Francia era stata accettata: “Lo stato d’animo dei francesi era stato sorprendentemente positivo”, scrive il curatore, Sven Olaf Berggōtz. Fino al 21 agosto 1941. Fu dopo l’attacco all’Urss che i tedeschi in Francia subirono i primi attacchi partigiani. Sporadici, e raramente efficaci. Con l’effetto inizialmente di dare credito al governo collaborazionista di Vichy. È solo a fine 1941 che Jünger nota “un profondo mutamento” dei rapporti tra francesi e tedeschi. Senza turbare l’occupante, che anzi ipotizzerà di “dichiarare ostaggi tutti gli uomini di età compresa tra i sedici e i sessant’anni”. Non subito però.
Anche la rappresaglia tedesca fu inizialmente confusa. Preceduta per ogni reazione da scambi tra autorità occupanti, tra gli occupanti e Vichy, e tra gli occupanti e le varie autorità di Berlino. Ma alla fine, come in ogni atto nazista, prevalse il peggio. Rispetto alle leggi, dei trattati e dell’onore, e rispetto agli interessi stessi dell’occupante.
I numeri di questo rapporto, che copre i primi sei mesi della reazione, sono contenuti. Anche molto contenuti in rapporto a quanto l’Italia subirà due anni dopo, per numeri e efferatezze. Ma furono subito un caso celebre in Francia, a differenza delle inutili stragi, vendicative, subite dagli italiani – molte delle quali repertoriate solo localmente, quasi sempre a fini politici e senza compassione. Diffusero, se non lo crearono, un sentimento antitedesco, e diedero nerbo alla Resistenza. Recentemente Max Gallo ne ha fatto il tema di una serie romanzata di successo, “Les Patriotes”. Nel 2007, alla vigilia del suo primo incontro col cancelliere tedesco, Angela Merkel, Sarkozy decretò che il giorno della prima rappresaglia di massa, a Nantes il 22 ottobre, fosse celebrato come il giorno della Resistenza, e che la lettera di addio di Guy Môquet, un ragazzo comunista giustiziato nella rappresaglia, fosse letta ogni anno nel scuole. Le esecuzioni venivano scandite da sfilze di manifesti, che presto indignarono anche i più rassegnati: una prima serie con le minacce, una seconda con gli ultimatum, una terza con la lista dei giustiziati. Stimolando la generale curiosità intorno a fatti ignoti ai più – isolati, periferici, notturni – e presto anche una sensibilità, antitedesca.
La “questione degli ostaggi” è un caso insigne d’incapacità più che di crudeltà - come sarà invece per le rappresaglie in Italia. Presto non ci furono più carcerati ebrei e comunisti a sufficienza da uccidere in rappresaglia. Degli ostaggi uccisi a Nantes, cinquanta, poi ridotti a 48 per un inghippo burocratico, per un ufficiale tedesco, due erano in prigione come sospetti “agenti tedeschi”, tre “patrioti” (di Vichy), e uno veterano di guerra con una gamba di legno. Le prime rappresaglie furono decise a fronte di attacchi non organizzati e poco efficaci. Due su sette erano andati a vuoto. Due avevano provocato ferite leggere. I primi sabotaggi che innescarono rappresaglie erano stati maldestri essenza effetto.
Jünger è dettaglista, per evidenti ragioni di sicurezza, scrive il rapporto come un verbalizzante. Ma non è insensibile. L’“anarca” aveva creduto alla guerra – al coraggio, all’onore, all’eroismo – e si era ricreduto nelle trincee del 1914-’18. Dopo il ’39-’40 avrebbe voluto solo riderne, in “Giardini e strade”, in “Irradiazioni”, il diario scritto ex post dell’occupazione a Parigi, e in questo rapporto: non ci vedeva che stupidità. Nel rapporto, redatto per l’autorità militare, durante i fatti e in piena guerra, include incongruamente le ultime lettere dei condannati di una rappresaglia, quella di Nantes: un muto ma esplicito atto d’insubordinazione.
Ernst Jünger, Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 1941-1942, Guanda, pp. 189 € 14

giovedì 25 ottobre 2012

Il mondo com'è (115)

astolfo

Europa - Ha avuto per molti anni un futuro davanti a sé, un progetto, un’aspettativa. Ora ha solo un passato: cosa abbiamo fatto, dove abbiamo sbagliato, perché l’abbiamo fatto. Piena di sussiego e niente più. Di suo sa solo giocare al calcio. Ma perché può ancora pagarsi i migliori sudamericani.

Internet – È la disinformazione. Ne è il magazzino e il teatro. Nell’era del “falso autentico” – si fa una mostra a Roma di Vermeer, e contemporaneamente si celebra van Meegeren, il suo “falsario autentico”.
È come si vuole, il veicolo dell’espressione libera e planetaria. Ma, senza limiti né regole, nella forma negativa della disinformacija. Anche quando non lo è: è il contesto che privilegia l’informazione alterata, artefatta, di parte, a fini reconditi. Le ultime guerre, in Libia e in Siria, sono state combattute sul piano internazionale con una disinformazione smaccata. Esagerazioni del modello ormai classico di Barry Levinson una quindicina d’anni fa, “Sesso e potere”, che al produttore disoccupato Dustin Hoffmann commissionava una guerra finta, con profughi, feriti e altre icone – non c’era youtube, ma l’importante era far vedere. La rete è perlustrata in largo e in lungo, e ampiamente utilizzata anche, da occhiuti servizi e scelti spioni, qualsiasi blogger lo fiuta, lo sente (lo “sa”).
Anche il privato, di facebook come già delle chat e dei blog, è artefatto.

È come la vedeva Alan Turing, il suo ideatore, lo scienziato filosofo delle “stringhe”: anarchica. Anch’essa, come l’anarchia politica, soggetta a ogni “infiltrazione” o “provocazione”.  L’algoritmo non ne elimina l’imprevedibilità, assicurava Turing, ma non ne assicura la stabilità (impenetrabilità).

Islam – Si può dire in crisi di crescenza, per la modernizzazione forzata. E accelerata, negli ultimi cinquant’anni, roba di due generazioni. Dapprima col nasserismo, la forma araba del bonapartismo, con un assetto gerarchico e statalistico dominante nella politica e nell’economia. Poi col petrolio. E quindi soprattutto con la penisola arabica, che grazie al caro-petrolio ha assunto una posizione condizionante in tutto il mondo arabo, e anche islamico, fino all’Equatore e all’Indonesia. Ed è in questi anni in posizione dominante, anche se non di controllo, nel business finanziario e architettonico, con i grattacieli più alti del mondo, marmi dispendiosi, giardini artificiali, e spreco di acqua, in cascatelle e ruscelli.
Gli Emirati del Golfo, Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, e i principati del Qatar e del Bahrein, erano all’epoca dello shock petrolifero, nel 1973, dei villaggi di pescatori. Appena usciti dal protettorato britannico – erano gli stati della Tregua, la tregua intervenuta nel 1953 fra la Gran Bretagna e i pirati che li abitavano. Nell’Oman, cui avevano dato l’indipendenza con gli ex stati della Tregua, i britannici avevano dovuto far fare nel 1970 un colpo di Stato a Qabus, il figlio del sultano Said, per poter introdurre l’elettricità e altre novità, cui il sultano si opponeva. Nel 1973 l’Arabia Saudita sperimentava cautamente la scuola per le ragazze: due sezioni, con insegnanti ciechi. E si poneva il problema della televisione, se autorizzarne una, se proiettarvi altro che letture sacre, e se le donne dovessero apparirvi e come – le donne allora, che non potevano guidare ed erano malviste se giravano sole,  si potevano mostrare in pubblico coperte interamente di nero, senza nemmeno la finestrella del burqa.  Per essere troppo modernista, il re saudita Feisal fu assassinato poi da un nipote.

Gli odi sono sempre stati incontrollabili tra le diverse confessioni. Con guerre civili costanti e latenti dove le confessioni sono mescolate, in Libano, in Iraq. E in Libano, Iraq, Egitto, Algeria e Turchia verso i cristiani, seppure sparute minoranze, non in comando, non elitiste.
A Tripoli del Libano, ammasso non elegante né moderno, la seconda città del Libano, sunniti e alauiti sono sempre stati in guerra perpetua. Anche dopo la guerra civile linbanese e ben prima di quella siriana in corso. Con attentati e vendete personali. Perfino la richiesta di carte all’anagrafe e le denunce alla polizia sono discriminate in base alla confessione, si è infedeli per poco.

La verità dell’islam è insuperabile, per il noto quesito: quale nuova verità? Se è la stessa cosa , allora è inutile. Se è superiore a quella che abbiamo, allora è falsa. Che sembra un falso sillogismo, e lo è.

Italia – In quanto vittima di se stessa, lo è in particolare del pregiudizio intellettuale, cioè della sua classe colta. Espressione di una borghesia che si formò con la manomorta, cioè col furto legalizzato. Nel 1824 Leopardi condannava l’Italia, nel “Discorso”, per l’assenza di una classe dirigente, la “società stretta”, e di un comune patrimonio morale, il “buon tono”. L’identità nazionale si affermerà in negativo: furbizia, compromesso, approssimazione, disinvoltura. Fino al paradigma di Carlo Tullio Altan e l’editore Feltrinelli una trentina d’anni fa, chiusa la gloriosa stagione del terrorismo: “La nostra Italia” dell'antropologo culturale era fatta di “Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo”.
Anche la storia si è presto atteggiata in negativo. Basti per tutti il diverso approccio a Machiavelli negli studi, in Italia e fuori d’Italia. Faziosità, compromesso, clientele, qualunquismo, immobilismo sono diventati le costanti storiche. In un certo senso predisposte, la storia è la letteratura. Già Dante, sette secoli fa, muoveva nell’alveo di un’Italia marcia e dissolta, molto prima di cominciare a esistere.
Un certo passato c’è, di cui non si può non tenere il conto. Ma soprattutto ha pesato e pesa, notava Galli della Loggia nel 1996 in “La morte della patria”, l’“egemonia degli intellettuali letterati sul discorso storico-politico italiano”. Bersaglio di questa depressione-delusione è, da Dante in poi, la Chiesa. Ma il suo moralismo è esso stesso tipicamente chiesastico, notava lo storico: “La sistematica commistione di politica e morale, di politica e «carattere» è proprio ciò che essa (la Chiesa) fa abitualmente, così come vuole la sua natura, terrena e spirituale insieme”. Se laica, la cultura si organizza e pensa come antichiesa - per sistemi salvifici a questo punto del tutto inafferrabili.
Non ci sono peraltro, in questa commistione di politica e morale, studi italiani di come la società italiana pensa, si organizza, funziona, se non quello “L’italiano” di Bollati (1983), ancora vivo, la serie sulla identità italiana promossa presso il Mulino da Galli della Loggia, e le rilevazioni periodiche del Censis, anzi i contributi di De Rita al Censis. La deprecazione-invettiva-denuncia è il genere critico e storico di questa invadenza pervasiva. A partite da Gioberti, che fu tutt’e tre le cose insieme, uomo di Chiesa, politico e letterato. Nel 1844 l’abate Gioberti sanciva che il popolo italiano non esiste, “un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario”. Lo sanciva nel “Primato morale e civile degli Italiani”, da cui escludeva il popolo.
L’ideologia del declino è lo stereotipo di una cultura antistorica, che al reale si avvicina al più per vacui sociologismi. Agitata dal giacobino italico, l’intellettuale pretesco che si compiace negli estremi verbali, che i sociologi nobilitano in anarchismo - scolpito a tutto tondo nel 1969 dal petty bourgeois della “New Left Review”, il borghese piccolo piccolo di Sordi-Cerami. Ne scriveva già Marx 130 anni fa (che Sereni cita, “Capitalismo nelle campagne”, 1975, p.119) a proposito della partecipazione italiana all’Internazionale, attraverso le fazioni bakuniniane dell’Alleanza: “L’Alleanza in Italia non è un raggruppamento operaio ma una truppa di declassés, il rifiuto della borghesia. Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da avvocati senza clienti, da medici senza ammalati e senza conoscenze mediche, da studenti assidui al biliardo, da viaggiatori e da impiegati di commercio e specialmente da giornalisti”. Giulio Bollati ricorda opportunamente Croce: “Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia”.


Il “Cuore” al Sud senza pregiudizi

Nel 1906, pochi mesi prima di morire, Edmondo De Amicis fece il suo viaggio in Sicilia. Socialista, viaggiatore, scrittore raro di viaggi, l’autore del libro “Cuore” mostra in questi “Ricordi” che si può – si poteva -  viaggiare al Sud senza pregiudizi. Senza mancare di vedere quello che c’era, oltre ai monumenti, per esempio il latifondo al centro dell’isola, ma per come era.
Edmondo De Amicis, Ricordi d’un viaggio in Sicilia

mercoledì 24 ottobre 2012

Letture - 115

letterautore

Blurb – Riduce la critica letteraria a piccola pubblicità – “superbo”, “lirico”, “tragico”, “profondo”, “brillante”, “mozzafiato”, “uno dei capisaldi della letteratura del secolo”. Il giornale è un aggettivo. Senza che i giornali protestino: è pubblicità biunivoca. È anche ugualitario: il “Gazzettino dauno” vi fiancheggia il “Corriere della sera”.
In un aggettivo è l’opus esegetico, e che sia non raro  (pretenzioso).

Dei – Ritornano? Sono tornati in classifica con Littell, “Le benevole”, e Banville, “Teoria degli infiniti”, per il grande pubblico dei romanzi. Mediatori cioè di emozioni semplici e immediate. In una lingua, e per un pubblico, quello anglofono, che si penserebbero i più remoti dalla cultura classica. Mentre invece riescono ostici alla lettura, anche critica, italiana. Magris per esempio, che ne critica l’uso in Banville. Pur avendoli per primo qualche anno fa ripersonificati, nel monologo “Come lei dunque capirà”, con una gigantesca Euridice e un piccolo Orfeo.
Gli dei hanno questo vantaggio, di essere sempre speciali, una proiezione divina più a portata d’autore. “Non si fanno con qualunque specie di legno”, diceva Apuleio.

Evola - I suoi funerali furono una manifestazione fascista, l’ultima – la prima e l’ultima, nella Repubblica democratica. Con un numero straordinario di gagliardetti: Far, Sam, Giovane Italia, Fai, Legione Nera, Fabi, che è sindacato dei benzinai e Fronte antibolscevico italiano, Arditi Bianchi, Mari, Movimento azione rivoluzionaria, Patrioti della Montagna, Ordine Nuovo, con Rauti, Clemente Graziani, Paolo Signorelli, Ordine Nero, Onore e Combattimento, e con Freda e Delle Chiaie, che ai processi si dichiararono evoliani. O i Nar, che egli disprezzava ma aveva interlocutori. Beffardo: il destino dei cattivi è di essere imprendibili, gli impuri di cuore. Si sottraggono. Cioè non sono, non esistono. Fu una cerimonia bolsa, i fascisti sono ignoranti, il defunto era ingombrante.

Evola era stato arrestato nel 1951 per due attentati del Fronte Azione Rivoluzionaria, di cui era considerato l’ispiratore, contro il ministro degli Esteri e contro l’ambasciata Usa – i neofascismo era anch’esso antiatlantico. Al processo, dopo pochi mesi, era stato assolto.

È nato con “Bleu”, l’unica rivista dada d’Italia. “La rivolta contro il mondo moderno” spiega fulminea a pagina 342 il cristianesimo e la fede, senza confutazione possibile: è dottrinalmente una forma estrema di dionisismo, facendo leva sul lato irrazionale dell’essere, che in luogo dell’elevazione eroica, sapienziale e iniziatica pone la fede, “l’empito di un’anima agitata e sconvolta spinta verso il soprannaturale”. Se la religione fosse astorica, quale Nietzsche la pensava autodidatta, questa sarebbe un’illuminazione illuminante.

Il razzismo, è evidente, è violento odio di sé, dei disadattati, brutti, confusi. Evola non aveva torto, anche Roma è nordica: i romani non sono dolicocefali biondi, ma erano legislatori, soldati, e padri di famiglia, tutte virtù settentrionali. L’ha riconosciuto nel 1924 il New York Times: “Nella marea nordica che affluì in Italia (dai goti in poi, n.d.C.) erano gli antenati di Raffaello, Leonardo, Galileo, Tiziano…”, non di Michelangelo, notare. Lo stesso Colombo, “a guardarne i ritratti, autentici o meno, era chiaramente di origine nordica” per il quotidiano. Hitler, è proprio vero, hanno solo perso la guerra.
E tuttavia c’è più del sangue nelle tracce di Evola: i fattori culturali della personalità e la razza, i miti fondanti, le élites creatrici, il nuovo umanesimo. Non l’Oriente, di cui era specialista ma che al solito è posticcio: per Marco Polo e i gesuiti, e fino all’illuminismo, l’Oriente è il regno della ragione e la tolleranza, di filosofi e poeti. Poi vennero la guerra dell’oppio e le capitolazioni. Ora si tenta di riattivare l’antico paradiso, che non c’è più e forse non c’era, residuava da Platone – facendo il giro da Alessandria a Costantinopoli, nota Flaubert che l’Oriente sviluppa in lui in misura anomala il senso del grottesco. Un Oriente che fa da specchio all’Occidente in crisi, finito negli stermini di massa e le guerre totali del Novecento, e del sentimento diffuso della crisi. Dovremo fare i conti con l’ineffabile, l’incredibile, l’inammissibile di Evola.

Perfino l’orrore evoliano della democrazia torna democratico, argomento del revanscismo fascista, nei milioni di morti della guerra totale e della resa incondizionata. Democrazia diventa in questa dottrina della guerra il suo opposto, indifferenza alla massa. Nelle due grandi guerre la morte dei milioni ha nutrito le democrazie. Per effetto massa la vecchia arte militare intendeva la concentrazione degli sforzi, la guerra breve e chirurgica, ora sono massa i braccianti fatti mitraglieri e carne da mitraglia, e i milioni di vecchi, donne e bambini bersaglio facile a scuola, al mercato e in casa. 

Finanza – “La finanza è una cosa a sé”, nota il filosofo Alain di Balzac. Che le ha costruito sopra un mondo fantastico, esilarante, ben prima che con la telematica divenisse anche fisicamente in qualche modo astratto.  Il suo personaggio Mercadet, nome evocativo, nella commedia della truffa finanziaria, “Le Faiseur”, il maneggione, vende “mercanzie fantastiche”.
Il denaro si vive letterariamente meglio, anche in Molière, nel “Don Giovanni” per esempio, nel “Tartufo”, nel “Borghese gentiluomo”, ma anche nell’“Avaro”, nella sua dimensione magica e non diabolica. La “magi del denaro” è tema di Hjialmar Schacht, il grande banchiere che salvò la Germania dall’inflazione, e fu poi il banchiere di Hitler.

Matrimonio – Non ce n’è molto nei romanzi oggi, e quel poco è un rapporto di single, l’uno in guardia con (contro) l’altro.
È anche il fatto quasi sempre di un single femminile. Della coppia oggi ha più che mai diritto a parlare, e a decidere, la donna. Anche quando ne parla, o ne scrive, un uomo. Il diritto di famiglia è al femminile, dovendo proteggere il lato debole, e più ancora la common law, la pratica giuridica. Anche la parte debole è da tempo, psicologicamente e culturalmente, più spesso il maschio.
Dei tratti genitoriali che la rivolta generazionale mezzo secolo fa ha negato e annacquato, la maternità è tornata in rispetto, la paternità resta dissolta. Non c’è quasi letteratura del rapporto padre-figlio (Lodovico terzi, Tabucchi, chi altro?), c’è abbondante sul rapporto figli-madre soprattutto figlia-madre. Con la madre divorante. Che però non esime.
 
Polemica – Il genere sbirro. Imperversa attraverso il giallo, la docufiction e la denuncia, dominante su ogni altro, da tempo ormai “immemorabile”. Nata col giornalismo come diversivo, volutamente umorale (Malaparte, Pasolini, Montanelli, Biagi), dilaga farcendosi di luoghi comuni. Estesa alla letteratura e anche agli studi, umanistici, storici, sociologici, perfino filosofici e scientifici. Come spia dell’inautentico – non veritiero, non vero – e al fondo stucchevole.
È il vecchio memoriale delle questure. Rinfoltito di intercettazioni (indiscrezioni, rivelazioni, esclusive). Principe delle lettere è il denunciante, l’indignazione la cifra. Con l’animo dello sbirro, del denunciante. La storia fatta dallo sbirro. Quest’epoca di libertà sarà stata l’epopea dello sbirro.

Guerra civile è polemico, polemica è la parola giusta: si è in guerra, in fondo, con se stessi. Si trovano ovunque complotti e corruzione per una deficienza di ormoni. O per un calo degli zuccheri.

Significati – Il rigore era dei morti, formidabile era la paura, il candidato era uno candido, anche se solo nell’abito, la pecunia era la pecora… Le parole mutano significato. Ma non senza significato. Oggi tutti lottano, con i figli, con i padri, sui campi di calcio, nei palazzi di giustizia. Invece di fare quello che devono: giocare al pallone, giudicare, portare i figli a scuola. Senza peraltro mobilitazione, straccamente. E complottano, gli altri: s’intendono, maneggiano.

lettrautore@antiit.eu

La vertigine è delle “liste visive”

La vertigine non viene dagli elenchi ma dalle illustrazioni -  Le mie liste è la seconda parte delle non tradotte
“Confessions of a younhg novelist, poubblicate a Harvard un anno fa. Cominciando dal “catalogo delle navi” dell’“Iliade” e finendo con Calvino e Borges, Eco repertoria una lunga serie di elenchi di cose, più o meno ipotetiche. Che rispondono a un tentativo, dice, di fissare e padroneggiare il mondo. Ma gli elenchi sono secchi, come se la parola non coinvolgesse chi di suo non è già coinvolto. Mentre coinvolgono le illustrazioni che a un certo punto della sua ricerca Eco ha ritenuto di dover allegare alle liste. Sono quadrerie, reliquiari, battaglie, fabbriche, corti e cortigiani, macellerie, scatolette Campbell’s, arte povera, arte narrativa, del Tre-Quattro-Cinquecento. E la libreria naturalmente. Le “liste” illustrate sì, inducono, come dice lui, la vertigine da “elenchi infiniti”.
Le forme sono molto più pregnanti delle parole, in questi “elenchi visivi”. La lista coagulando in un colpo d’occhio, invece di dipanarla semanticamente o cronologicamente.
Eco lascia fuori i blasoni, che la parola hanno la virtù di vivificare con l’immagine della cosa. E l’arte astratta, che della ripetizione fa un’ontologia – la costanza delle forme nell’oggetto – nella visione.
Umberto Eco, La vertigine della lista, Bompiani Paperback, pp. 408 ill. € 15

martedì 23 ottobre 2012

Il terremoto nel Pd

Bersani, non richiesto, professa “rispetto per la sentenza”, Maiani, grand commis democratico, si dimette. La sentenza dell’Aquila contro la Commissione Grandi Rischi riapre la divisione appena sopita tra ex Pci e ex Dc nel partito Democratico. Tanto più che tra i sei condannati i primi sono due scienziati professi prodiani, Boschi e Barberi.
Il processo, impiantato e giudicato da magistrati aquilani danneggiati dal terremoto, sotto la gestione di un Procuratore Capo, Alfredo Rossini, ora deceduto, famoso per la scarsa presenza, sembrava destinato a esaurirsi in un atto di protesta. Con qualche strascico politico, al più, a carico di Bertolaso, e cioè del solito Berlusconi. La condanna grave, di giudici vicini al sindaco vetero-Pci Cialente oltre che danneggiati dal sisma, ha scosso gli equilibri appena ricomposti tra le due anime del Pd.
C’è mobilitazione in queste ore tra gli ex Popolari in favore di Renzi, anche di quelli cui il sindaco di Firenze non piace.

Il giornale chiude, online

“Newsweek” ha già deciso, il “Guardian” seguirà, testate storiche: i giornali che vanno in rete chiudono o aprono? Chiudono. Perché la rete non è la stessa cosa del giornale stampato, mentre  i giornali online continuano a essere scritti, titolati e perfino, per quanto possibile, impaginati come quelli cartacei.
La pubblicità in rete funziona, ma è tutt’altra cosa. La pubblicità è la forma espressiva principale, cui l’informazione dovrà adeguarsi, nella scrittura, la titolazione, l’impaginazione. Ma non si vede ancora come. L’unica novità finora assunta dai giornali online, mediata dalle tv all news, i video, sono corpi estranei – perlopiù anche noiosi, lenti.
Resta tutto da vedere se il giornale online riuscirà a darsi una fisionomia che risponda al mezzo. L’unico successo finora registrato, lo “Huffington Post”, è relativo: non è mai rientrato dei costi e ha tutte le caratteristiche della “bolla”. Della start-up della new economy imbrillantata e venduta a caro prezzo – la new economy mantiene malgrado tutto da vent’anni inalterata la capacità di creare miraggi. L’edizione italiana a un mese dal lancio e quella francese ancora più rodata non sono uscite dall’anonimato, benché piene di nomi di prestigio - e malgrado l’effetto trascinamento, per l’edizione italiana, dell’“Espresso”: gli inserzionisti stanno a guardare. 

Ombre - 152


Monti di qua, Monti di là, molti dilettanti se ne fanno schermo e paladino: Montezemolo, col partito Mediobanca, Casini, Giannino e quant’altri. Con una lista Monti s’immaginano sfracelli alle elezioni. E non  sanno che Monti non si può candidare né costituire partiti, essendo senatore a vita – e che nessuno lo voterebbe, l’uomo delle tasse. 


Sallusti, Grandi Rischi, i giudici vanno a ruota libera, slegati dalla legge. Sarà l’epoca dell’abuso: c’è Batman e ci sono i giudici.

Si viene a sapere, senza scandalo, al processo dell’Aquila contro la Commissione Grandi Rischi, che Bertolaso era registrato prima del terremoto. Per nessuna ipotesi di reato. Era tenuto d’occhio. Non dallo Spirito Santo.

L’accusatore Borgogni ha parlato il 10 novembre del 2011. Le imputazioni conseguenti si fanno undici mesi dopo. La giustizia è lenta, ma in tempo di elezioni è tempestiva.
Imputazioni e carcerazioni si fanno peraltro per un affare mai concluso. Per una culpa in desiderando? A Napoli è possibile, è capace di tutto.

Il laureato che non va a fare il panettiere il ministro Fornero dice “schizzinoso”. E conferma il sospetto -  nell’Unione Sovietica in effetti avrebbe preso il posto: il mercato non si adatta all’Italia. O l’Italia vorrebbe il mercato e non glielo danno?
L’Italia di Elsa Fornero, ministro professore. Il laureato (professore, ministro) di suo si vuole totalitario.

Berlusconi va al processo per prossenetismo e stringe la mano all’accusatrice Boccassini, che si diverte. Prima e dopo, secondo un copione. Il video più osceno del web – Ruby perlomeno qualche attrattiva ce l’ha.

Sullo sfondo dell’orrido processo a Berlusconi magnaccia i tre giudici, tre donne. Un’altra sconcezza nella sconcezza, questa tutta al femminile: le labbra serrate, lo sguardo spento, si fanno dire che la sentenza è già stata decisa. Che è pure vero.

Martedì Giovanna Melandri “lascia” la politica, anche lei dopo Veltroni. Giovedì il ministro tecnico Ornaghi la nomina alla presidenza della Fondazione del Maxxi di Roma. La rottamazione, giustamente, si fa contro una macchina nuova.

A maggio il tecnico Ornaghi, rettore della Cattolica, ha commissariato il Maxxi. Ne ha cioè escluso Pio Baldi, che il museo ha creato e valorizzato, con dispiacere di artisti, critici e sponsor. Per problemi amministrativi.
Al posto di Baldi il pio Ornaghi nominò la sua segretaria generale, sua del ministero. Che subito risolse i problemi. Si vede che al ministero lavorano d’estate, durante le ferie. O che i problemi non  c’erano.
O anche: questi sacrestani hanno più stomaco del diavolo.

Sappiamo che la legge anticorruzione ha tardato per inghippi di Berlusconi. Invece no, ha tardato perché voleva mettere vincoli agli incarichi extragiudiziari dei giudici, e i giudici hanno tempestato il ministero e le commissioni parlamentari. Non si può dire? I giudici fanno paura.

“Più Iva meno Irpef”, vanta Monti. La tassa sui poveri. Questi tecnici pii non finiscono di stupire.

Il calciatore Mauri è accusato di aver depositato in Svizzera 350 mila euro in relazione a due partite della Lazio, squadra in cui gioca. Il deposito, intestato alla madre, è del novembre 2010. Le due partite sospette della Lazio del maggio 2011. Sembrerebbe impossibile, ma il calciatore si è fatto per questo una settimana in carcere, con alcuni nordafricani drogati spacciatori. Il procuratore che non legge il calendario, Di Martino, furoreggia invece nelle prime pagine.

A settembre 2011 Milano indagava il presidente della Banca Popolare di Milano, Ponzellini. “A metà mese”, scrive “l’Epresso”, “il vice-direttore della Popolare, Roberto Frigerio, esce a cena con Anna Maria Tarantola, oggi manager della Rai, allora ai vertici di Bankitalia (dirigeva la vigilanza sulle banche, n.d.r.). Frigerio non è indagato ma l’incontro non pubblicizzato tra controllato e controllore sorprende la Guardia di finanza che lo comunica ai pm”. Anche Tarantola non era indagata. La Guardia di finanza li tampinava perché?

La Guardia di finanza, lamenta, ha mezzi per accertare solo tre su mille dichiarazioni dei redditi sospette. Si dà troppi incarichi extragiudiziali, anch’essa?  

La magia della truffa finanziaria

L’argomento è lo stesso del coevo “Manifesto” di Marx, ma in chiave comica, e più portentosa che sarcastica: i misfatti del denaro sono quelli dell’energia creativa, una proiezione intensa dell’esistenza. E una costante della vita oltre che dell’opera di Balzac.
“Le Faiseur” è l’ottavo e ultimo dei ripetuti tentativi di Bazac di sfondare nel teatro, in un progetto economico più che artistico, senza successo. Quest’ultimo tentativo il successo lo avrà, e duraturo, ma postumo. Anche in Italia: da alcuni decenni in disuso, si usò a lungo rappresentarla col titolo “Mercadet l’affarista”. Iniziata nel 1839, nel pieno dell’affarismo della monarchia orleanista, da un legittimista Balzac tuttavia non molto scandalizzato (il re Luigi Filippo non sbagliava mai un colpo in Borsa), la commedia fu completata nel 1848, al ritorno della Repubblica, due anni prima della morte dello scrittore.
Faiseur il curatore Philippe Berthier riporta a Vidocq, l’ex criminale divenuto capo della polizia che lo aveva repertoriato nel 1836, nell’enciclopedica epopea “I ladri”, come termine argotico per maneggione, truffatore: uno che s’indebitava per poi fallire. Balzac ne fa una vittima dei suoi stessi intrighi, della smania di manipolare, inventare, creare: un imprenditore, si direbbe oggi, non prudente, uno dalla straripante fantasia, illusoria. Venditore, si dice qui, di “merci fantastiche”. Riuscendo a divertire il pubblico.
Ripreso costantemente, “Le Faiseur” è infatti, benché marginale e quasi sconosciuto nella copiosa bibliografia balzacchiana, un successo popolare. Faiseur è del resto etimologicamente il poeta.  E Mercadet, il faiseur di Balzac, per molti aspetti lo è: non è avaro e nemmeno avido, è testimone quasi oggettivo della sua (e altrui) rovina, solo posseduto dal demone del fare, moltiplicare, fantasticare. Non diverso da Balzac, le cui mirabolanti imprese fallimentari non si contano, tra le altre le miniere d’argento in Sardegna, o le piantagioni di ananas a Passy, cioè a Parigi.
Jules Janin apparentò subito il Mercadet-faiseur di Balzac a Robert Macaire, il cattivo della scena francese,  più sbruffone che criminale, uno sempre capace di tornare a galla, per l’immaginazione fuori dell’ordinario. Inventato da Frédérick Lemaître (su un testo di Benjamin Antier e Saint-Amant, i suoi sceneggiatori) nel 1823, sotto il titolo “L’Auberge des Adrets”, ripreso dallo stesso Lemaître nel 1834 come “Robert Macaire”, con un “successo colossale” – di cui resta oggi traccia in “Les enfants du Paradis” di Carné, dove Brasseur impersona Lemaître come Robert Macaire. Il personaggio divenne soggetto di Daumier, di cancan, di carnevali. Ogni teatro volle un suo Macaire - e uno fu rappresentato col titolo “Une émeute au Paradis”. Ci fu un’ondata di “Robertmacarismo”, lamentò “Henri” Heine, parigino acquisito, che vedeva nella risata invece che nella deplorazione del crimine una rischiosa deriva morale, ma ne fece un genere: lo scherzo, la buffoneria, l’affettazione della generosità e dell’onesta dietro l’impudenza e il vizio. Lemaître, padrone allora della scena parigina, si assunse anche l’onere di rappresentare Balzac – e quando ci riuscì, nel 1840 con “Vautrin”, si fece subito bloccare dalla censura, avendo rappresentato nel protagonista una caricatura del re speculatore.
Berthier ci trova invece molti calchi del “Turcaret” di Lesage (1709), che è propriamente “Turcaret o l’uomo di finanza”. Con una differenza: il Turco “senza fede né legge” è sostituito da Mercato, un italianismo per mercato. E con un anticipazione: anche qui si aspetta un Godeau – solo la grafia è diversa.
Balzac, Le Faiseur, GF Flammarion, pp. 189 € 5,50

lunedì 22 ottobre 2012

Il tragico di Kierkegaard

Tante parole per nulla.
Il saggio introduttivo di Isabella Adinolfi è più persuasivo.
Sören Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un esperimento di ricerca frammentaria, Il Nuovo Melangolo, pp. 87 € 12

Secondi pensieri - 120

zeulig

Amore –Come possesso non è una novità, del marito o amante respinto, dei genitori sui figli. Come innesco della condizione umana sì. Nelle forme dell’egoismo, ancorché confuse, che sarebbe propriamente il disamore.

L’amore “è una di quel paio di cose gli dei non possono sperimentare, l’altra essendo, ovviamente, la morte”, dice il dio Ermes narratore della “Teoria degli infiniti”, il romanzo di John Banville. L’amore, l’amore mortale, è un’invenzione degli uomini che gli dei invidiano, sempre secondo Ermes, perché avvicina alla morte. Per gli uomini è invece un’opera allo specchio, a due specchi, ognuno volendo vedersi idealizzato negli occhi dell’altro. Cioè un’ambizione (illusione) di immortalità?

È scomparso, e si vede: è scomparso il discorso dell’amore. Per qualcuno è ancora un atto, come prendere il tram,se insorge un po’ di fregola – der Akt.

Campanella - Campanella, tra una tortura e l’altra, annota perplessa Yourcenar, badava a sbafare, e a “dormire insieme e godere” con frate Pietro. Agli aguzzini confidando: “Che si pensavano che io ero coglione che voleva parlare?” Il “mago” ha resistito così, a 27 anni coi topi in carcere, con l’irrisione. Per questo non la sola Yourcenar ha ammaliato, a sua insaputa, malata di classicità. Ma era uno spirito scientifico, uno che tifava per Galileo. E si ribellava, come tutti ai suoi anni, contro il mondo.
Sempre i frati si sono ribellati contro il mondo. In nome di che? Della tradizione, il mito, la tebaide, l’orgoglio? Del nulla, magra scelta. Una buona metà del disprezzato mondo avendo irretito nell’imperialismo pagano, il blocco armato contro il pericolo “eurocristiano”. Ci si svuota per riempirsi di niente,  ma essendo stati pieni di che cosa?

Diritto - È la legge, non la giustizia. La quale può prescindere dal diritto. Ma si può pensare il diritto contrario alla giustizia? Sì, per esempio alle origini del diritto stesso, a Roma. Roma è il primo caso e il paradigma della “giustizia politica”: la legge piegata al diritto, come maschera della forza. Anche quando protegge i diritti.

Evola - “Prendere sempre, per principio, la linea di maggior resistenza” è precetto prioritario del suo yoga della potenza: “Non fare ciò che ti piace, fa’ ciò che ti costa”. Etica santa, o della rinuncia. Ma dov’è la massima resistenza, o eroismo? Questo è pentirsi o piangersi addosso, di uno che dicesse: “Scusatemi, ho messo le bombe”. A disagio tra le caste inferiori dei vaisha-mercanti e dei sutra-operai - a disagio nel mondo.
Indianista, avevano ragione gli sbirri di Mussolini: il viaggio in India è contagioso. Maestro tuttavia dei tempi, se “la violenza è l’unica soluzione possibile e ragionevole”. Ammirabilmente pensò e scrisse da solo quanto il Collège de Sociologie, Bataille, Caillois, e anche Dumézil, e mezza Ger-mania, in testa Jünger, Gottfried Benn e il confuso Heidegger sono andati almanaccando: una società di anime nobili, integre, spietate, che salvi l’umanità dalla glaciazione, o desertificazione, che il denaro e la ofidica tecnica minacciano, e dalla decimazione ugualitaria. Con quella contrapposizione geniale tra “mondo della storia” e “mondo della tradizione”, o tra azione nella storia e azione metastorica, che distingue, questa sì, l’uomo superiore. Ma pensiero antimoderno e antiliberale, antipopolare. Radicale, viscerale, logico, e quindi disumano.
Esoterista mirabile, avendo scoperto la forza demoniaca, “magia nera”, della pubblicità e della propaganda. Con Plotino e lo yoga consigliando: “Non andare verso Dio con impazienza, ma attenderlo”. Ma il precetto ha dimenticato di dare ai suoi allievi, per essere slittato dai poteri intellettuali e mistici alle bombe.

Fisica – Ordinare il caos, il compito che si è dato a partire dalla relatività generale, sembra fatica insensata. Ma è il compito che si è sempre dato, con più di un successo, seppure con più fiducia nel predominio dell’uomo nell’universo. 

Linguaggio – Simone Weil lo dice una prigione (“La persona e il sacro”, 39 sgg.). Limita le relazioni possibili: “Il linguaggio enuncia relazioni. Tuttavia ne enuncia poche giacché si svolge nel tempo”. E può inibire “pensieri che implicano la combinazione di un numero maggiore di relazioni”. Un’affermazione che è anche la negazione di ciò che afferma – il linguaggio è un elastico.
Il potere della parola la filosa dice “illusorio ed erroneo”. Ma è potere assoluto. L’unico anche “positivo”, che ammette libertà.

Nobel – Non c’è per la filosofia, ma quello per l’economia è da qualche anno sempre più filosofico. Quello di quest’anno, a Roth e Shapley, va a due teorici dei giochi. Sui quali peraltro hanno costruito modelli: quanto di più scientista e meno filosofico, seppure con procedimenti stocastici.

Lloyd Shapley cinquant’anni fa si rese famoso per il teorema del “matrimonio stabile”, codificato in algoritmo. L’algoritmo “risolveva” il matrimonio come libera scelta: tanto più libera e ponderata tanto più stabile. Stabilizzava cioè un errore concettuale, tanto più marchiano per un esperto della teoria dei giochi. Ed era costituito da una serie di “circoli”, o iterazioni, ognuna a plurima scelta. Cioè sul sofisma.
Roth è premiato per aver stabilizzato (“ingegnerizzato”) l’algoritmo matrimoniale a tutti i matching markets, nel lavoro oltre che nella coppia, nella carriera e in Borsa. Un cappello metodologico alla pretesa “la persona giusta al posto giusto”, di cui si fa paravento il liberismo, un’ideologia.

Realismo – Non due cose uguali, neppure con se stesse: il paradosso del tempo, il mutamento costante, esclude il realismo, che presuppone un mondo unico, unitario e ordinabile: seppure ci sono delle cose a sé stanti, non saranno mai le stesse – stabilmente rintracciabili (definibili).
Il realismo è però filosofia e non fisica. È immaginazione e\o astrazione: il filosofo si fa il suo mondo. Un mondo-in-sé kantiano che però possiamo conoscere e descrivere. E allora tutto è stato detto, da ultimo nel 2000 dall’epistemologo Marsonet in “I limiti del realismo” (ora disponibile solo in inglese).
La frontiera tra “fattuale e concettuale non è netta né pulita”, spiega Marsonet da ultimo nel saggio-sintesi “Realism and its limits”, che il sito di Rina Brundu pubblica
Questo è un fatto. E lo si è sempre saputo, a partire da Dewey, con William James e ogni altro epistemologo, Sherlock Holmes compreso: 1) “l’analitico e il sintetico non si separano con nettezza” (l’induzione, la deduzione e l’abduzione confuse della semiologia), 2) la nostra ontologia è necessariamente concettuale, “la concettualizzazione non è un optional”, come direbbe Ferraris. “L’immaginario” di André Breton, teorico del surrealismo, “è ciò che tende a divenire reale”, e il rovescio è pure vero.

Maurizio Ferraris, che ha lanciato il “Manifesto del nuovo realismo”, non sembra prendersi sul serio – è un filosofo divertente e divertito. E più che altro vuole dire: ci siamo stufati del pensiero debole, indeterminato.
Per quanto, bisogna intendersi: Ferraris non vuole il vecchio realismo delle cose e della natura, in questo mondo il virtuale predomina, il dichiaratamente irreale: lui vuole appropriarsi delle “nuove realtà” – ha già in cascina un discreto catalogo, del telefonino, di babbo natale, e dello stesso Kant iperreale.

È anche vero che con il tempo disordinato la fisica non esce dal caos (ora si applica a ordinare il caos, ma ciò è insensato).

Più destra contro la destra in Germania

Ogni volta che insorge il rischio di una destra radicale la Csu, la democrazia cristiana bavarese, si ritiene obbligata a occuparne le posizioni, a sovrapporsi alla destra radicale. Oggi contro l’Italia, in passato contro i turchi, l’Ostpolitk, il Sessantotto, la socialdemocrazia, i russi. È una costante della Repubblica Federale, che le spinte eversive di destra vanno riassorbite meglio che combattute, come fece la repubblica di Wemar, perdendosi e perdendo la Germania. È anche un tema della scienza politica della democrazia, se i movimenti radicali non si disinnescano aggregandoli.
È una tattica che finora non ha provocato danni. Ma che il governo Merkel pratica a parti rovesciate. Il leader Csu nel governo, Schaüble, è pragmatico e cooperativo, ben europeista. Mentre la cancelliera Merkel erge barricate, circondandosi di argomentazioni “tecniche”, a opera di consulenti scelti per le loro idee sbagliate e ultimative.

L’indigenza della Funzione Pubblica

Lasciata nuda dal governo tecnico, la Pubblica Amministrazione mostra tutta la sua indigenza nella legge di Stabilità - ex Finanziaria, ex di Bilancio, il nome cambia ma l’incapacità è la stessa. Si fanno tagli per diecine, centinaia al massimo di milioni, a fronte dei quali s’imbastiscono controlli e spese per almeno  altrettanto. Mentre bisognerebbe lavorare sui miliardi e sulle voci vere di spreco: gli appalti, le convenzioni. E si modulano tasse di cui non si è capaci di calcolare l’effetto. Se non quello di scoraggiare ogni attività. Con i passati governi se ne potevano accollare le colpe ai ministri inesperti o inetti, ma non si può ritenere inetto l’ex rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr oggi all’Istruzione, o il ragioniere dello Stato al Tesoro e Finanze.
È la vecchia burocrazia che si perpetua, quella del fascismo passata al democristianesimo, e indenne a Mani Pulite. Che si aggiorna (fa i master, impara l’inglese), ma solo al fine di perpetuare il controllo della società. La spia è il costante e distinto, naturalmente non dichiarato, alla privatizzazione della funzione pubblica, nella sanità e nella scuola: bene pubblico guadagni privati. Si jugula la scuola pubblica con misure coercitive intollerabili, un anno l’accorpamento delle scuole, un altro l’aumento dell’orario di lavoro per gli insegnanti. Per risparmiare cento o duecento milioni. Mentre si elargisce mezzo miliardo o più alla scuola privata. Senza tenere conto che la scuola è, a prescindere dalla confessione e dalla ideologia, la scuola pubblica, che disorganizzarla è creare un problema sociale grave. Ogni anno s’introducono ticket e tasse sulla sanità, e si limitano le prestazioni, senza dire mai che il disservizio e i costi sono determinati dalla privatizzazione del settore, prevalente da circa vent’anni, cosa che i burocrati sanno bene, dalla natura ambigua, pubblico-privata, della sanità.
Un’incapacità che si accoppia alla protervia. Il patrimonio immobiliare dello Stato, immenso, costosissimo, non si può alienare perché la burocrazia non lo consente. I militari soprattutto, con le loro enormi caserme, vuote dopo la fine della leva. E i palazzi di rappresentanza, del Seicento, del Settecento, multipiano con scaloni, un palazzo principesco per ognuno dei comandi, regionali, provinciali, cittadini, delle varie armi. Una protervia indifferente al ludibrio. È il caso dell’Anvur, il massimo della modernizzazione dell’Istruzione, la valutazione tecnica e anzi “scientifica” dei titoli all’insegnamento, che si modula sul più bieco  parrocchialismo – si ha titolo a insegnare all’università se si è scritto sui bollettini diocesani.
Si parla molto del Sud, delle mafie, della corruzione, ma il vero cancro maligno dell’Italia è la Funzione Pubblica. Tale che anche burocrazie già rodate e capaci, al Tesoro, all’Interno, agli Esteri, diventano inette e dannose. Incapaci di progettare e, come si vede dalla legge di bilancio, anche di calcolare.

Rottamatore rivelatore – 2

Brutti scheletri emergono dalle accuse reciproche di combines affaristiche tra i candidati democratici. Renzi rottamatore è reagente chimico rivelatore anche in tema di finanziamenti occulti.
Il simpatico Bersani è quello che aveva a capo di gabinetto il collector Penati. E in proprio ha dato licenza di uccidere alla grande distribuzione. Dopo aver dato patente di “capitani coraggiosi” al duo di speculatori Colaninno-Gnutti che dissanguò Telecom Italia. Con guadagni di Borsa per il suo partito d’allora, il Pci-Pds, di 87 miliardi, stimarono i prodiani – miliardi di quindici anni fa (Colaninno ogni sera passava da Botteghe Oscure).
Vendola si è tirato fuori. Ma – lo sa anche Renzi – la sanità era ed è rimasta nella sua Puglia la vacca da mungere. Madre di tutte le tangenti – di cui le scopate e le bevute finora scoperte sono solo la schiuma.
Quanto a Renzi, se perde, pagherà ogni centesimo della sua costosa campagna per le primarie. La parola d’ordine è già passata nelle redazioni.

La Fiat come la Juve, l’illusione del potere

Sempre più la Fiat va come la Juventus, vittima della politica che s’illude o intende controllare. La politica è cambiata, gli Agnelli sono morti, Torino è semi-deindustrializzata, ma gli Elkann, e per la Juventus il cugino Agnelli, non sembrano capirlo. Lo stesso Marchionne contribuisce all’illusione della politica al tempo dell’Avvocato, dando lezioni vecchio stile a questo e a quello, invece di tirarsi fuori dalla politica come ha fatto dalla Confindustria e dal veterosindacalismo Fiom.
Il potenziale Fiat resta alto, se lo resta, nel mercato. Invece John Elkann s’intestardisce nei giochi di potere. Attorno a Mediobanca, attorno ai partiti. Sponsor in proprio di operazioni impossibili, con l’impossibile Montezemolo. O di alleanze non volute, come la Casini-Bersani. Quando non di insostenibili montismi. A Milano si è messo di mezzo a Mediobanca-Rcs e dovrà sborsare 60 milioni di ricapitalizzazione, senza contare nulla. Né nella casa editrice né in banca.
La Juventus, che avrebbe un potenziale enorme di pubblicità e merchandising con un proprio canale tv, i cugini Elkann e Agnelli jr. tengono assoggettata ai diritti collettivi della Figc e della Lega. Nelle quali non contano nulla e dalle quali anzi vengono periodicamenti frodata. Limitandosi a dire che il problema è di giustizia sportiva.

domenica 21 ottobre 2012

Montalbano scorbutico mussoliniano

Alla fine Camilleri dice che il romanzo è “di diversi anni fa”. Lamentandone l’aggiornamento con le “crisi di vecchiaia” di Montalbano. Ma c’è di peggio: a ogni paio di pagine i soliti Livia e Catarella, i pasti gustosi in solitario, i Cuffaro, il questore, e i Dc berlusconiani. C’è pure il taglierino, arma d’obbligo dopo l’11 settembre benché inoffensiva. Montalbano è scopertamente mussoliniano – “l’italiani non amano sintiri li voci libbire, le virità disturbano il loro ciriveddru in sonnolenza perenni”. Anche il dialetto che Camilleri gli fa praticare è cupo. Senza più i personaggi e i contorni straordinari che ne garantivano il piacere.
C’è la mafia, come in qualsiasi altro scrittore siciliano, e vince. Una sera Montalbano si apparecchia deliziato un fritto di pesce vecchio di almeno mezza giornata, forse di frigorifero.
Andrea Camilleri, Una voce di notte, pp. 271 € 14

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (148)

Giuseppe Leuzzi

La giudice di Reggio Calabria Alessandra Cerreti, non si può dire perché ha impiantato processi in quattro anni a un paio di migliaia di mafiosi, ma sostiene con “Io Donna” che “esiste persino la «ninna nanna du malandrineddu»”. E che ci sono figlie di mafiosi che se ne liberano con facebook: “A volte intraprendono relazioni in rete e per la prima volta, magari a 30 anni, sono corteggiate non come figlie del boss ma come donne”.  Cioè, sembra pure crederci.

Gli olandesi Evola trova, come gli scandinavi, “degenerati”. Un inciampo al razzismo: “Queste popolazioni sono nelle stesse condizioni razziali oggi come lo erano due secoli addietro”, scrisse nel ’38 su “Deutsche Volkstum”, “ma c’è poco da trovarci ora della disposizione eroica e della consapevolezza razziale che un tempo possedevano”. Da qui la derivata del razzismo spirituale, non funzionando quello biologico. Il razzismo va e viene. Con la riuscita economica – la famosa grazia divina. Con l’umore, anche.

La Cancellieri l’ha appena decretata, aveva paura di che?, ma non si trova la contiguità. I carabinieri non le trovano uno straccio, neanche una fotografia, magari di un’entrata nello stesso bar con un  mafioso anche se in tempi diversi, e la ministra tenta ora di tirarla in lunga col commissariamento. Perché se si votasse subito a Reggio riceverebbe un graveolente pernacchio. Mentre quando di voterà lei non ci sarà.

Se il “contiguo” Arena però rivincesse le elezioni a Reggio Calabria, sarebbe in virtù della mafia. Non si scappa.

“Un miliardo per non costruire il Ponte”, calcola “Milano Finanza”. Per progettazioni e studi d’impresa. Un altro caso di spreco. Forse di corruzione, seppure legale. Ma che c’entra la Calabria? E la Sicilia?

La mafia è araldica
I carabinieri sono specialisti di fotografie e alberi genealogici. Da quarant’anni, da quando l’allora colonnello Morelli li inventò a Reggio Calabria, con le notizie che gli fornivano alcune polizie di emigrazione, canadesi, australiane, francesi. Ponderosi volumi di ascendenti, collaterali e discendenti, con affiliati e consigliori. Dettagliati allo spasimo. Impreziositi da ampi quadri d’assieme, disegnati originariamente alla china (oggi è più facile col computer) su più pagine a soffietto. Mai l’araldica  fu più documentata e celebrativa come per le famiglie mafiose.
Di tanto in tanto, ogni venti o trent’anni, i carabinieri arrestano uno o più capifamiglia. Diciamo a ogni ricambio generazionale. Sistemano i figli e ogni altro avente causa nelle caselle degli arrestati, e aspettano altri vent’anni. Uno penserebbe che il delitto debba essere punito subito. E invece no: dev’essere documentato. Aggiornato. Dettagliato. Esteso, con le zone grigie, le zone d’ombre e ora la contiguità.
Le mafie sono come allevamenti di pesci che i carabinieri tengono vivi per chi voglia pescarvi, giudici, giornalisti, politici.

Il “Sud” è italiano
C’è dappertutto un Nord e un Sud, una divisione che vuole segnare la prevalenza del primo. Ma solo in Italia la divisione è segnata dal disprezzo. Non in Francia, dove è semmai un certo Nord, chiuso, grigio,  a far sorridere, e anche ridere. L’Inghilterra, che il Nord ha rovesciato, non disprezza Belfast, o il Galles – né la Scozia quando era povera. In Spagna la democrazia, un tempo cioè di trent’anni o poco più, ha fatto del Sud poverissimo e arretratissimo, l’Andalusia, il cuore ancora pulsante dello Stato unitario, con i trasporti, l’agricoltura, il flamenco, e le “due anime”, atlantica e europea. In Germania gli amburghesi non disprezzano i bavaresi, tanto più che questi sono più ricchi – lo “Spiegel” amburghese era in guerra col leader bavarese Strauss, ma la contesa era politica. Né i bavaresi o gli svevi disprezzano il Nord: da cinque ani una polemica anche aspra oppone la Baviera e il Baden, le regioni chiamate a pagare i disastri delle banche (in realtà finanziarie) politiche del Nord, la WestLB  e la Ikb del Nordreno-Vestfalia (Düssedorf), ma senza disprezzo.
Il disprezzo del Sud Italia è l’esito dell’unione, mal concepita e mal realizzata, con tutta la simpatia di Garibaldi. Ma è di più, dopo centocinquant’anni, il segno maggiore di una debolezza che bisognerebbe pensare intrinseca al Sud. È inevitabile che la “questione meridionale” si gonfi, ora di mafia e di antimafia, invece di riassorbirsi.

Napoli
Muore Achille Serrao, il poeta campano del tardo Novecento, sconosciuto. Le sue poesie, raccolte nel volume “Cantalèsia”, sono pubblicate a New York

Trattandosi di bambini, sono naturalmente commoventi. “Desidero che polizia e carabinieri arrestino tutti gli spacciatori e non li facciano uscire più”. “Vorrei essere ricco per dare io i soldi agli africani per fare la spesa”. Ma quello che scrivono nel libro di Paolo Chiariello, “I sogni dei bambini di Scampia sono desideri” è solo naturale: c’è innocenza a Napoli. Anche a Scampia, che la malavita vorrebbe sua fortezza.

Salvatore “Sal” Strazzullo è nato a Napoli ma a sette anni è partito coi genitori per New York, ed è ora, a 40 anni, una celebrità di Manhattan come avvocato delle celebrità nottambule. È in tutto americano, ma mette Napoli sopra a tutto, il posto, il clima, i dintorni, le camicie, le cravatte,  i vestiti di Isaia, la cucina. Da quando la riscoprì adulto: “Nel 2000 arrivai a Napoli”, racconta a “Panorama”, “prenotai una suite all’hotel Vesuvio. Rimasi affascinato da come gli avvocati vengono trattati in Italia. Sono cosa seria, non come qui in America”. Non tutto il male viene per nuocere?

È scenario scelto per il noir italiano, il genere giallo violento. Nei romanzi e al cinema. Ma senza il fascino che il noir di origine, americano, assegna ai suoi settings, Los Angeles, San Francisco, Chicago, perfino la grigia Philadelphia di Goodis, per un’ovvia compensazione-attrazione rispetto alle storie trucide che vi si ambientano. Napoli è scenario scelto in quanto rifiutato, senza sole.

Napoli questo fascino ce l’aveva, l’ha mantenuto e anzi rafforzato anche nella storia negativa che l’unità le impose. Ma l’ha perduto da qualche decennio, da quando è diventata scenario vero, non fittizio,  di storie violente.

Pentiti
Si può dire Tommaso Campanella una delle prime vittime dei pentiti. Trattando del suo ruolo nella presunta congiura antispagnola per la quale si fece 27 anni di carcere, Rosario Villari a un certo punto dell’opus magnum “Un sogno di libertà”, sulla Napoli del primo Seicento, si sorprende: “Appare sorprendente l'attribuzione a Campanella del disegno di convogliare in un movimento antispagnolo di indipendenza le esasperazioni ed i fermenti della crisi sociale, spirituale e politica  di fine secolo. La sua cosiddetta congiura (1599) oscillò, secondo le dichiarazioni e le denunce dei suoi accusatori, fra tre soluzioni non solo inverosimili in se stesse, ma anche tra loro contrastanti. Il trasferimento del Regno al Papa, la sua annessione all’impero turco, e la creazione d’una repubblica, di “una città del sole”, tra i boschi, le città e le valli, belle e spesso devastate da alluvioni e frane, dell’Aspromonte”.
Lo storico attribuisce sì un ruolo, come già Luigi Firpo 65 anni fa, a Campanella nella domanda di libertà che poi sfociò in un progetto di Repubblica indipendente dalla Spagna. Ma non ne fa uno scemo, come Campanella stesso ribadì più volte ai suoi giudici torturatori: “Ch’un solo fraticello volesse ribellare un regno dal più possente monarca del mondo”.
Campanella era già stato arrestato cinque volte, benché non ancora trentenne, in varie città per i suoi scritti filosofici – era, come poi Tortora, “preda nota”. A denunciarlo per primo a Napoli fu un calabrese, suo concittadino di Stilo, Scipione Prestinace: condannato a morte per reati comuni, prima dell’esecuzione della sentenza nel 1597 tentò di ritardarla denunciando diversi suoi conterranei. Prestinace denunciava però Campanella come eretico e non come rivoluzionario, e il viceré di Napoli non se ne preoccupò.

“Il dolore più acuto è evidentemente il pentimento”, dice Kierkegaard, “Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno”. Basta un pentito di mafia a smentire un filosofo?

New York Times vs. Calabria
Una pagina del “New York Times” il 7 ottobre, di Rachel Donadio e Gaia Pianigiani, dice l’A 3, la Salerno-Reggio Calabria, “iniziata negli anni 1960 e ancora non finita, piena di “cantieri che si sono trascinati per decadi”.  Un caso esemplare, dice, del fallimento dello Stato. E “un simbolo di quanto alcuni paesi del Nord Europa dicono di temere di più dalla zona euro”: che diventi “un sistema assistenziale nel quale tocchi a loro sostenere un incapace Sud Europa”. Dove i soldi si perdono nella corruzione: “Dal 200 al 2011 l’Italia ha ricevuto dall’Unione Europea oltre 60 miliardi”, in gran parte indirizzati al Sud, con poco più di un’autostrada mezza completata da esibire”. Eccetera  eccetera, con una serie infinita di ruberie e delitti.
Non  molto concludente, altri paesi europei “ricevono” di più per esempio, ma cattivo. Abbastanza da far annullare la promozione della Regione Calabria presso la Niaaf, l’organizzazione degli emigrati italiani negli Usa. Con un danno di qualche milione, oltre che del progetto, non insensato. Non c’è partita. Il titolo, “Corruption is seen as a drain on Italy’s South”, diventa sul sito e sulla rete, imperituro, “In Italy, Calabria is drained by corruption”.

leuzzi@antiit.eu