Giuseppe Leuzzi
“Dentro di me io porto
un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si sforza, si
sforza, ma non riesce a maturare”. Lo scriveva Heinrich von Kleist a un’amica, Adolphine von Werreck, da Parigi, il 28 luglio 1801.
Mediterraneo, il suo
primo nemico fu Roma. Lo sostiene Simone Weil, in un passaggio della raccolta
di testi vari “Sulla Germania”, p. 263. Se
si confronta il Mediterraneo nei cinque secoli di Roma con quello che era prima
e quello che sarà dopo, si vede che Roma “ha reso spiritualmente debole il
bacino mediterraneo”.
Per Ezra Pound, invece,
le letterature meridionali si fermano al Quattrocento. Lo preannuncia nel
programma di lezioni che voleva tenere al Politecnico di Londra.
Il generale Siro
Rossati, del Sios Esercito, citava nel 1974 un organismo antieversione
sconosciuto in grado di mobilitare (“avere capacità operativa”) la politica, le
forze armate, la finanza, l’“alta delinquenza organizzata” (l’organizzazione “Gladio”?).
Dunque, c’è una delinquenza organizzata che è “alta”.
Marina Terragni va e
viene dal Sud, racconta nella sua rubrica su “Io Donna”, perché ci si ritrova.
Poi torna nel suo “Belgio”, a Milano o dintorni – e intende il Belgio di Jacques
Brel, le plat pays, il paese bigio.
Anche il calcio, è del Nord
Prima della
fascistizzazione del calcio (via gli stranieri, sì al professionismo, e egli
“oriundi”,, grande potere agli arbitri, sì al girone unico) nel 1926, “il
campionato era ancora diviso in grandi zone geografiche”, spiega Mario
Sconcerti nella “Storia delle idee del calcio”: “Al Nord c’erano sei gironi di
sei squadre l’uno, trentasei squadre in tutto. Al Sud un girone con due sole
squadre di Napoli”.
Nell’agosto di
quell’anno, ai bagni a Viareggio, le autorità calcistiche organizzarono su
impulso di Mussolini, conscio dell’influenza popolare dello sport, il campionato. Stilando una serie di norme
che saranno chiamate la Carta di Viareggio. La Carta creò una serie A di venti
squadre. Sedici del Nord. Più la vincitrice di un playoff tra le migliori di
serie B del Nord. Più le prime due del girone laziale. Più la prima di quello
campano.
Il carattere
“Artistico, impulsivo, appassionato”, il
trittico nel quale si racchiudeva trent’anni fa la personalità italica secondo
gli studenti di psicologia sociale di Princeton fu posto da Giulio Bollati in
apertura al suo prezioso “L’Italiano”. “Manca il carattere”, osservava Bollati.
Il cui saggio è nato come parte de “I caratteri originali”, il primo volume
della Storia d’Italia Einaudi.
Purtroppo l’identità c’è ed è negativa. E
lo è non perché è salita la “linea della palma” che angustiava Sciascia, della
delinquenza e della connivenza. Come potrebbe, la Sicilia non conta, né la
‘ndrangheta o altri assassini ignoranti - i Siciliani, contrariamente a quello
che credeva Sciascia, come tutti i Siciliani, non contano nulla, se non nelle
barzellette. È negativa perché lo è nell’Italia che conta, a Milano, nel
Veneto, a Torino e Genova, a Roma anche.
Sud vince, Sud perde – o la Sicilia non è la Baviera
Ci fu una lunga battaglia, di quasi
vent’anni, in questo dopoguerra, tra Amburgo e Monaco di Baviera. Lo “Spiegel”,
il settimanale di Amburgo elevato a coscienza della nazione, incolpava ogni settimana
delle peggiori infamie Franz Josef Strauss, il leader politico bavarese.
Strauss non si diede per vinto e trasformò la sonnolenta, contadina, montanara,
cattolica Baviera nello Stato più ricco della Federazione tedesca. Il più
industrializzato, il più avanzato tecnologicamente, con l’ambiente meglio
protetto al mondo (le acque, i boschi, le città), un’ottima sanità, ottime
comunicazioni. Insieme con la finitima Svevia, anch’essa terra di contadini e
montanari, e molto cattolica, anche se non tutta.
Se la Sicilia, che ha più risorse della
Baviera, avesse uno Strauss, sarebbe l’isola la nuova Lombardia d’Italia? Non
si può dire. La condizione preliminare c’è: il milanese “Corriere della sera”
attacca ogni giorno la Sicilia (e la Calabria, chissà perché - non la Puglia e
Napoli, che pure non brillano).
Sicilia
È teoria di Jünger
(“Diari”, p. 120) che gli inglesi, fondamentalmente anarchici, sanno mantenere
un grado più elevato di controllo per essere abituati al rollìo, in quanto marinai.
E perché è forte in essi l’elemento
normanno, “più favorevole, rispetto agli altri popoli germanici, alla formazione
di una classe dirigente”.
Perché, allora, i
siciliani non sono diventati inglesi? L’isola si sommerge senza fine di masse
informi, come i materiali inerti e ingombranti che un vulcano sputasse in
quantità in continuazione.
Racconta Dollmann,
l’interprete tedesco a Roma durante l’occupazione nazista, in “Roma nazista”,
che Himmler tentò un giorno di annettersi la Sicilia, dopo i Sudeti. In albergo
a Taormina individuò un’origine wotanica dei locali flauti e zufoli di canna.
Presto confortato da germanici istituti di ricerca foklorica e delle tradizioni
popolari, nonché da schiere di gentiluomini locali tournés antiquari.
Federico II, invece,
era considerato dagli hitleriani un dirazzato, un quasi semita: i nazisti erano
indefettibili repubblicani, portatori essi stessi di una nuova aristocrazia.
Per fortuna dei siciliani, che i tedeschi altrimenti avrebbero messo al trotto,
alla stanga.
“Siciliano, di quella
razza capace di spaccare il capello in otto”, da ultimo in Camilleri, “Racconti
quotidiani”, p. 45, era già in Cicerone, “Contro Verre”.
Un altro torinese che,
come De Amicis, non ebbe pregiudizi contro la Sicilia, era Salgari – seppure
veneto di origine. Non c’è molta Sicilia nei suoi romanzi, ma in tre di essi,
segnala la rivistina palermitana “Il Bandolo”, nobilita i personaggi in qualche
modo legati all’isola, in “I naufragatori dell’Oregon” (1896), “La Costa d’Avorio”
(1898), “Le pantere di Algeri” (1903).
Successivamente lo scrittore collaborò con l’editore palermitano Biondo,
pubblicando con lui, tra il 1901 e il 1920, ben 67 titoli dei 450 totali della
collana di racconti “Bibliotechina aurea illustrata”.
Ma c’erano allora a
Palermo editori nazionali.
L’astensione massiccia
alle elezioni regionali inficia tutti i pregiudizi. Sul voto familiare,
mafioso, pagato, a favore di parenti, compari, amici degli amici, soprattutto
nel voto locale. Almeno un quarto degli elettori ha deciso di non votare, per
protesta. Mai avvenuto in Italia. Che aggiunto al 15 per cento dei “grillini”
sul voto espresso fa quasi la metà dell’elettorato siciliano in radicale
protesta. Non è la prima volta, e anzi si potrebbe fare una storia d’Italia in
cui la protesta democratica è partita dalla Sicilia.
Una teoria diffusa
vuole invece l’astensione imposta dalla mafia. Una mafia che vive una sua
proficua bonaccia, non perseguita, senza bisogno di assassini, attentati,
avvertimenti e altre violenze, e quindi non si schiera. Aspettando offerte
politiche migliori – la mafia naturalmente gioca al rialzo.
Una teoria diffusa a
Palermo. Forse non la massa informe ma la sua società “civile” è il cancro
dell’isola: tropo servile.
leuzzi@antiit.eu