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Amore – Non è per tutti, secondo La
Rochefoucauld: “Ci sono persone che non sarebbero mai stati innamorati se non
avessero mai sentito parlare dell’amore”. Sarebbero stati la stessa cosa con un
altro nome?
Oggi comunque non sembra possibile:
l’amore è dappertutto, nei giornali femminili, alla tv e perfino nella
filosofia. È legato però alla coppia, che per molti suoi limiti (pretese,
illusioni) è la negazione dell’amore. E alla coppia nella sua connotazione
cinematografica, di due che “fanno l’amore”, di due a letto. Che non sempre è
possibile. La vita di coppia è inoltre vita di appartamento, al chiuso. E difficilmente
ci si può permettere una camera da letto comoda – dipende dalla rendita urbana.
Per
Kierkegaard l’amore è comico. Per la nota regola dialettica per cui la contraddizione
è comica, e l’amore è contraddittorio. Per il Kierkegaard notturno – ebbro? il
filosofo scriveva a ore fisse, ma cose diverse, il giorno e la notte, la notte
fino alle due, e allora era su di giri, la mattina, fino al tocco, era invece
amaro: l’amore è il tema del banchetto notturno di “In vino veritas”.
L’amore
a tavola di notte è dunque indigesto.
Complotto - Secondo il
giovane Engels “i complotti sono non solo inutili ma dannosi”. Ma l’idea del
complotto non è senza dignità. Richiama l’“argomento del progetto” di William
Paley e della sua “Teologia naturale”, che influenzò la formazione di Darwin e
lo indirizzò all’“Origine della specie”. Se c’è un orologio, argomentava il
teologo Paley, ci dev’essere un orologiaio. È l’argomento della creazione
individuale, per cui c’è un progetto di Dio dietro ogni singola specie. Era
argomento a favore dell’esistenza di Dio. Anche nella forma rovesciata.
Ci
sono specie e eventi senza progetto, non immediato, non specifico. Geometrie
complesse che anch’esse giustificano un complotto, proprio per essere inspiegate,
inspiegabili. Il primo è forse quello della democrazia.
Con la storia dei Quattrocento, tra essi Tucidide, che Antifonte mise insieme
nella primavera del 411 contro la democrazia a Atene: “C’erano persone che mai
si sarebbero credute”, rivela lo storico, e stabilisce un legame tra la
congiura e una serie di delitti misteriosi. Ora che i delitti misteriosi
ritornano non ci sarà anche la congiura, magari a opera di un antichista?
Oppure si può pensare che la storia vada per congiure. I Quattrocento di
Antifonte, sostituendosi ai Cinquecento del consiglio eletto, calcolarono al
millesimo le indennità loro dovute fino alla fine del mandato, e “le pagarono
via via che quelli uscivano dalla sala”.
La pratica dunque è perfezionata, se c’è
da tempo anche un galateo del golpe. E si può pensarla fine a se stessa, come
la argomenta Josef K., personaggio eponimo dei complotti, che Kafka nel “Processo”
fa accusare di un delitto ignoto: “E ora il senso, signori, di questa grande
organizzazione? È di far intentare dei processi senza ragione, e in gran parte
pure, è il mio caso, senza risultato”. È che così c’è più suspense: la democrazia è come i “Promessi sposi”, non vi succede
mai nulla.
È
più spesso una “provocazione”, anche se non voluta, un artificio per seminare
il caso e provocare una crisi, culturale (religiosa, filosofica) come politica
ed economica. Gli ateniesi dormirono “fuori la notte in armi”, narra Tucidide,
quando uno spione s’inventò il golpe di Alcibiade. Liquidato il quale fallirono
la conquista della Sicilia, che li avrebbe resi padroni del Mediterraneo, e
duemila anni di storia, e persero la stessa Atene. E sempre c’è il sospetto
dell’ignoranza consapevole, il metodo socratico della verità simulata, far
credere che si sa pure ciò che s’ignora. È il vizio della politica totalitaria
(in Italia da ultimo la sinistra), che sapendo tutto quello che non sa pensa di
doverlo denunciare come complotto. Per questo Bacone spregia la Fama,
l’opinione pubblica: la natura del popolo essendo “malvagia e triste, e
propensa alle novità”, i turbolenti se ne approfittano con “pettegolezzi, malignità,
denigrazioni, ricatti”, per muovere alla “femminea invidia verso coloro che governano”
– il complotto è femmina per il barone di Verulamio, la ribellione maschio. Il
popolo sospetta di tutto, la democrazia ateniese è una serie di complotti,
democratica solo perché spesso sovvertita. Ma sempre ci vuole un giudice per un
complotto.
Invidia - Si può dire l’unica passione (vizio
capitale) residua. Variamente denominata ma alla base dell’età della
competizione, sotto forma di ambizione, zelo, strategie e tattiche, pugnacità.
È
il metro del mercato. Specie dai consumi. C’è un 1 per cento di gusto, o
piacere, nello shopping, e un 99 per
cento di imitazione. Indotta dalla pubblicità, cioè indotta.
È
il motore della pubblicità. Si può dire che la pubblicità si fonda
sull’invidia: nasce per stimolare l’invidia, la modula e se ne modula.
Ironia - Sottintende
un bisogno di autenticità. Dice Mario Soldati del bisogno di viaggiare: “Chi ha
provato la lontananza, difficilmente ne perde il gusto”. Accade da fermi con
l’ironia, la lontananza di chi è dannato a straniarsi.
Thomas
Mann lo dice nell’ “Impolitico”: “L’ironia come modestia, come scetticismo
volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica
interna»”.
Non
è innocua, anche se, insegna Kant, noioso è solo lo stupido. Montesquieu,
condannando la tratta degli schiavi con l’ironia, al libro XV, capitolo 5,
dello “Spirito delle leggi”, la prolungò di un secolo. Verso il 1770 i bianchi
discussero in Giamaica di lasciare liberi i mulatti, se di padre inglese. Uno
che era contrario lesse Montesquieu e gli altri si convinsero: si convinsero
che la schiavitù era necessaria.
“Il fenomeno, come sempre foeminini
generis, deve cedere al più forte, al cavaliere filosofo”: è l’esordio
del “Concetto d’ironia”, libro di esordio di Kierkegaard, senza ironia.
Libertà – È mentale più
che fisica. La libertà è felice solo nel bisogno, o in “Živago: il romanzo è
libero entro un mondo chiuso, in guerra, opprimente. Nella libertà si fanno i
conti con se stessi, la fatica, le debolezze, i trucchi.
Organico - A che cosa –
l’aggettivo è ancillare? “Organico” è il concime, diceva Sciascia. O piuttosto
sa di rifiuto. Carl Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia
che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale -
esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere
semmai contro il Partito.
Riso - Hobbes mette il riso tra le quaranta
passioni derivate o secondarie, legandolo al piacere maligno, per la deformità
o disgrazia di una persona – si presume che Hobbes non ridesse, come tutti i
filosofi. Per Spinoza è invece “pura gioia”. E dunque Spinoza non è un
filosofo?
Ora l’epoca di
nuovo lo esclude, dovendo andare di fretta. Ma già Platone lo proibiva ai
“guardiani”, i politici. A Dio manca. La battuta celebre, mentre condanna Adamo
alla presenza femminile e alla fatica, “ecco, l’uomo è divenuto uno di noi”, un
dio, la disse in un impeto d’ira. Dopodiché non ha più parlato. Né ha mai riso Gesù. L’uomo invece vi ambisce, il riso libera
dalla necessità dell’identità. Persino Leopardi, nel progetto editoriale per un
settimanale, “Lo Spettatore Fiorentino”, lui che non leggeva i giornali, si
propose di assecondare “la naturale inclinazione al riso”, assumendo che “il
dilettevole sia più utile dell’utile”.
Si ride per niente: Crasso al vedere un asino coglionastro brucare
cardi, Filemone un altro asino mangiarsi i fichi pronti per la tavola – rise
tanto, è vero, da morirne. Mentre Crasso, attesta Erasmo, rise una volta sola
nella sua vita. Anche perché, afferma Jünger in contrasto con Hegel, “il riso
tradisce il rango inferiore, ne è involontaria espressione”, si vedano i
cinesi, che ridono alle esecuzioni capitali. E c’è il riso spartano: i lacedemoni
ridevano nelle pause delle reciproche improsature, si suppone, se hanno eretto
al riso una statua, ma non si sa perché.
L’argomento è insomma impervio: Aristotele, non sapendo chiarirlo,
finse di essersi perduto il relativo trattato – l’uomo non sa trattare le cose
che non può legare al divino, la violenza, il dolore. “Il riso libera dal
dolore”, assicura Usener, quello dei Nomi di Dio, giovane filologo che a
Basilea volle in cattedra lo studente Nietzsche. E Fehrle: “Le persone capaci
di affrontare la vita ridendo sono in genere più sane e vitali di quelle
depresse”. Hermann Usener ha stabilito che i nomi degli dei sono la loro
“essenza divina”, e l’essenza degli uomini che li creano col nome, i loro vizi
e le paure.
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