lunedì 21 gennaio 2013

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (159)

Giuseppe Leuzzi

Siamo il Sud di un “Nord che non c’è”, del titolo che si danno gli scrittori del Nord? Sarebbe una spiegazione.

Il regno meridionale è Misspellheim nella mitologia nordica, il luogo del mispelling, la cattiva compitazione. Un refuso.

Monti si pente dell’Imu, delle tasse, della sudditanza alla Merkel, e all’Epifania del redditometro decretato a Natale: di che mafia è il pentito il professore?

Nel racconto “Singolare avventura di Francesco Maria” Vitaliano Brancati ha “il cielo azzurro dell’estremo Sud nel quale le rondini scorrono come una veloce scrittura”.

È “calabrese” a un certo punto il sig.Trupìa, l’affarista (ladro, corruttore, violento) di “Benessere Borghesia”, il “Sillabario” di Parise che fu poi scartato dalla raccolta. Sembra il personaggio di Albanese, “Cetto La Qualunque”, anche se il comico non sembra saperlo. Si vede che lo stereotipo ha qualche fondamento..
Ma è una connotazione, tutta negativa, con un curioso effetto di sollevo: un truffatore non è un trucido killer.

L’odio-di-sé
Camilla Cederna, “Il lato debole”, p. 63, ha il canone della gita a Napoli: “Una settimana a Napoli e dintorni in questo principio d’inverno che pare primavera è ancora una meraviglia”. E giù cinquanta righe di eventi e fatti assurdi. Il cliché  è: Napoli è bellissima ma corrotta. Dai Borboni, dai lazzaroni, dai casertani. Da chi e da che in centocinquant’anni altrove si sarebbe rimediato, ma a Napoli non  perché Napoli è anche fatalista.
Nulla di eccezionale, non fosse che il canone e Cederna piacciono alla napoletanità.
Notare i “dintorni”. A Capri o Positano è infatti un altro mondo, non fatalista e, forse, non corrotto. Non è più Napoli? No, è sfuggito alla napoletanità. Anche Ischia ci aveva tentato. Ma Napoli è più vicina.

Autobio
Uno dei due paesi è di zangrei – ha questa cattiva fama. Che abitavano in effetti, e abitano tuttora, uno dei suoi quartieri. Pastori con le cioce, così si raffiguravano nelle foto e in qualche quadro. Venuti dalla parte più interna della Montagna, nel largo displuvio dell’Aspromonte verso lo Ionio, da Natile, Careri, San Luca - sui luoghi d’origine, benché presunti, riverberando immagini di primitività. Zangreo era uno dei nomi di Dioniso, dio dell’ebbrezza, del canto, della danza, non antipatico.

Eravamo greci senza saperlo. Finché un ventina d’anni fa il maestro Costantino Scutellà non diede il compito ai bambini di ascoltare dalle nonne e le zie parole di uso comune non italianizzanti e di trascriverle – le parole cioè non di un italiano quale è in uso ora nelle famiglie, dopo la televisione. Ne venne fuori un dialetto non italiano di oltre duemila parole, una seconda lingua non fosse per gli ausiliari. Il maestro Scutellà lo fece repertoriare ai bambini in ordine alfabetico, con accanto l’equivalente italiano. In forma di piccolo dizionario, che batté a macchina, ciclostilò e rilegò, corredando ogni termine della probabile derivazione linguistica. La maggior parte delle parole in suo un paio di generazione fa erano greche. Anche i nomi di famiglia più ricorrenti, Romeo, Foti, Papalia, Macrì, Tripodi, Laganà, Marino, Surace, Calabrò, eccetera.
Non che abbia cambiato molto, il senso della storia è lento a penetrare, i suoi spiriti vitali..

Mario ci vuole zingari, gli zingari dei greci, dei saraceni della costa, inguattati nei monti, per qualche motivo latitanti, in una vita più faticosa e difficile.

Si parla molto – si parlava molto, quando si parlava – col silenzio. In famiglia e fuori. Anche tra amici nelle interminabili passeggiate, in paese e per i campi. In casa con le madri, pazienti, senza musonerie. In casa e fuori con i padri, distanti. Silenzi pieni di significato.
Il silenzio, nella conversazione muta, può essere la parola più pregnante – la forma più complessa e articolata di comunicazione. Barthes, in “Dove lei non è”, il lungo lutto in morte della madre, ricorda un haikù di Bashô, “Restammo seduti per un lungo momento nel più estremo silenzio”, e si consola: “Trovo d’un tratto una specie di pace, dolce, felice, come se il mio lutto si calmasse, si sublimasse, si riconciliasse, si approfondisse senza annullarsi – come se «io mi ritrovassi»”. Subito prima ha detto, della madre morta: “Poche parole tra di noi, io restavo silenzioso (frase di La Bruyère citata da Proust) ma mi ricordo del più minuto suo gusto, dei suoi giudizi”. È una maniera muta, identificativa, di significare (estrinsecare) gli affetti, duratura.
E poi, ancora Barthes della madre: “Condividere i valori del quotidiano silenzioso (gestire la cucina, la pulizia, gli abiti, l’estetica e come il passato degli oggetti), era la mia maniera (silenziosa) di conversare con lei”. Si può comunicare meglio (di più, più intensamente) non “dicendo” le cose, tesoro, ti amo, etc., magari per abitudine, ma identificandosi. Trasponendosi nell’altro, per un riconoscimento spontaneo, immediato, nelle cose, nei gesti, nei gesti rattenuti. Questa comunicazione “naturale”, non ostensiva, non posata, senza preoccuparsi di sembrare, buoni, pii, santi, bravi, Barthes chiama “Santità” – il modo d’essere naturale, non inarticolato, vissuto.
I parsi, adoratori di Zoroastro (lo Zarathustra di Nietzsche), hanno la loro comunità più numerosa, duecentomila fedeli, compresa la famiglia Tata, a Mumbay. Morti, si fanno consumare nelle “torri del silenzio”, allineate in fila dentro un parco cinto da mura.

È difficile spiegare, a chi non l’ha subita, la violenza. È tema vile, che la prolissa sociologia della mafia forse per questo ignora. Violenza è, per i felici più, un corpo che salta sotto i colpi di un cannoncino a ripetizione, o a pompa, o una Magnum da tre chili azionata a due mani, o un loffio figuro che azionando nell’ombra un telecomando provoca un’esplosione fantasmagorica – un telefilm.
L’assassinio è una soluzione: una fine. La violenza invece è umiliazione: un processo. Tutto il suo rituale vi è convogliato, a fomentare: l’incertezza che segue alla minaccia, la misura delle proprie deboli forze, la solidarietà inevitabilmente inutile e anche falsa, obbligata, quella imbelle degli amici, quella dubitosa dei Carabinieri, quella ostile dei giudici, fino alla prudente mediazione (resa) finale.
Si spiega il successo popolare dei politicanti antimafia, gli unici di successo da un paio di generazioni – un tempo il rappresentante del popolo era uno che ci sapeva fare con le leggi e lo Stato (in Calabria Antoniozzi, Vincelli, Mancini, Misasi), ora basta dichiararsi antimafia. Per una speranza dura a morire. E si capisce che occasione sarebbe, sarebbe stata, una vera politica antimafia, su che potenziale di mobilitazione potrebbe, avrebbe potuto, contare. Tanto più è grave l’appropriazione faziosa (cioè: mafiosa) dell’antimafia a fini personali e di gruppo, e perfino per vendetta. È l’ultima umiliazione, cioè la più profonda, venendo dall’unica possibilità di riscatto: significa l’isolamento. E non si può essere eroi per se stessi. 

leuzzi@antiit.eu

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