La crudeltà è l’assenza di passioni. Vuol’essere
fredda, e non per proposito ma per indifferenza. È l’abulia di Eichmann, più
che l’isteria che si accredita a Hitler. La volontà costante, premeditata, irriducibile
in ogni situazione, di fare il male non può essere alimentata da un fuoco, si
distruggerebbe. Eraclito per questo può dire: “È nella natura delle cose nascondersi”,
e non per un complotto. O: “La struttura latente è padrona di quella palese”. E
la stessa teologia, a partire da san Paolo ai Corinzi: “Vediamo come per mezzo
di uno specchio, in immagine”, e intende “vagamente”. Spesso siamo ciò che non
sappiamo.
Ma c’è di più, che non si dice, molto
di più. Per l’autrice, e per le questioni ancora irrisolte che la Colpa pone. Noto
è che la banalità di Eichmann offese gli ebrei - la “banalità del male” è
concetto che la filosofa mediava dal cattolico Bernanos - ma non è questo il
punto. La nazione ebraica fece di Hannah Arendt un’apostata, traditrice nella
disgrazia. O, in Israele, il piffero degli ebrei d’America, potente nazione da
cui prendere le distanze. La quale potente nazione ebraica americana la bollava
“la Rosa Luxemburg del nulla”. Per essere incappata nello stile “New Yorker”,
il brillante sbrigativo. Una polemica come un’altra. Hannah Arendt era
colpevole, forse, per la bontà.
È
per bontà che i tedeschi che bruciavano
gli ebrei Hannah Arendt rappresenta senza passione. Facendo loro torto. È vero
che il male è banale, alla portata degli scemi. Anche il filosofo e scrittore nazista
Hielscher, animatore dell’Ahnenerbe, la ricostituzione della purezza razziale, caduto
in disgrazia per aver promosso un sistema “tribale frazionato” medievale contro
la modernizzazione di Hitler, rilasciato dopo la tortura, trovò i suoi aguzzini
seduti alla scrivania dietro le scartoffie. Ma i tedeschi non sono scemi.
Hannah fa sua la banalità del male di
Bernanos in uno strano modo, anche di essere ebrea. In Bernanos angoscia: che
il male sia comune fa paura. In lei è quasi una difesa, tra la chiamata di
correo che allevia la colpa e la banalizzazione del reato. Ciò nasce dal fatto
che Eichmann è niente, un contabile – e che molti capi delle Comunità ebraiche,
che la Arendt chiama in causa, lo erano (Eugenio Zolli, per dire, il rabbino di
Roma che si battezzò, ne dà attestato straziante, di vanità e superficialità).
Per il fascino del numero, che anch’esso fa tedeschi gli ebrei. Mentre l’Olocausto
è storia di mille storie, di milioni di storie, di bambini strappati alla
famiglia, di uomini e donne strappati alle case, uno per volta, con
schieramento di carri, moto, mitra, cani, con frastuono di urla, latrati,
invocazioni, lacrime, mancamenti, alle luci dell’alba o nelle tenebre della
notte, assalti ripetuti migliaia, milioni di volte, per settimane, mesi, anni,
rinnovati a ogni campo di smistamento, a ogni stazione ferroviaria, a ogni
campo di sterminio, a ogni appello nel campo, la mattina, la sera, la notte. È
questo l’orrore, che tutta questa sofferenza si lascia cancellare da numeri,
regolamenti, organizzazioni, percentuali.
Non è però
possibile che la scienziata politica Arendt non vedesse la differenza tra le
due diverse banalità. E dunque che ha voluto dire? La compassione, se non
l’amore, per la Germania. O il disprezzo. O tutt’e due, un atto d’amore
disperato, con rabbia. Hannah visse gli ultimi giorni della
guerra, e la verità dei campi, sgomenta per la distruzione della patria
tedesca, contro l’esaltazione dei vincitori e il morgenthavismo, la riduzione
della Germania a campo sterile. È su questo sentimento che codificò il
totalitarismo, la nuova categoria politica dopo la classificazione di Platone.
Che è anzitutto un atto di fede. Il nazismo è antieuropeo: “L’umanesimo, la cultura
europea, lungi dall’essere alle origini del nazismo, vi era così poco
preparata, così come a ogni altra forma di totalitarismo, che per capirlo e tentare
di venirne a capo, né il suo vocabolario concettuale né le sue metafore
tradizionali possono servire”. È voglia di credere: il male radicale può non essere
banale. Ma è vero che l’ideologia conta poco nel totalitarismo. Conta in
democrazia, dove provoca danni. Nei regimi distruttivi la distruzione conta più
delle idee: avesse Hitler eliminato tutti gli ebrei, non per questo la sua
politica di annientamento si sarebbe fermata.
È dunque, questa corrispondenza
giornalistica della filosofa, in certo modo un tradimento. Una fessura
nell’ebraicità unica. Non isolata, faceva anzi la grandezza della diaspora vigile,
socialista. Per essere la condanna d’ogni nazionalismo esclusivo, o primato –
per ultimo d’Israele, anch’essa a suo modo antisemita: il popolo paria che si teneva
saldo nella diversità e l’intima intesa, ora che ha un Parlamento e l’esercito
se ne serve per imporre lo Stato confessionale e lo sviluppo separato, altrove
detto apartheid.
È anche, in particolare, la ribadita
difficoltà a riconoscere nell’amato Heidegger il nazista. Non quello del
cinema, sbraitante, ma il tipo del renitente sottile, testardo, al giudizio
comune. Analizzando l’assolutizzazione della tecnica, e il rifiuto dell’azione,
collocata nel “si”, fra l’impersonale e il mediocre, Hannah aveva dichiarato
nei Sechs Essays, con l’accordo
quindi del curatore Jaspers, Heidegger “non politico”. Collocandolo così un
gradino sotto Aristotele e Kant, ma mettendolo al riparo dal nazismo. È
possibile che i filosofi non sappiano pensare la politica, come Hannah Arendt sostenne
pretendendosene scienziata, da Platone a
Heidegger. Compreso, chi l’avrebbe detto, Aristotele, per via di Alessandro
Magno, il miglior allievo. Dunque la filosofia politica non esiste. Da Cicerone
e sant’Agostino a san Tommaso, Hobbes, Kant, gli illuministi e Hegel, e nelle
questioni di antichi e moderni, sembra che essa sia possibile, ma è politica,
non filosofia. La filosofia c’è tutta, in questo ragionamento, ma soprattutto è
vero che non si comanda all’amore.
Ben prima di Eichmann Hannah era stata colpita dall’ordinarietà
delle passioni. Già di Rahel Varnhagen, il soggetto della sua ricerca di
dottorato, diceva: “Lei è un esempio dell’amore nella sua forma più banale”. Ma
lei stessa più di Rahel aveva sormontato appassionata tutti i fossi e le
miserabili barriere, degli appuntamenti disattesi, della viltà del suo uomo e
maestro Heidegger, della sua propria riduzione inequivoca a oggetto – o sarà
stata la sola walchiria di tutta la storia del nazismo, il Leandro della trama
d’amore della nuova umanità, di uomini deboli. Infelice incolpevole.
L’impossibilità di essere
tedesca e illuminista, qual era nell’intimo, ha impedito a Hannah Arendt di
essere quello che Rahel ha potuto, benché ebrea. Avendo tradito per onestà intellettuale, ma più con l’amore infelice - grottesco:
una ragazza può andare a diciott’anni con uno di trentasei, ma non a sessanta
con uno d’ottanta, e in presenza della moglie.
Hannah Arendt, La banalità del
male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, pp. 320 € 9
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