martedì 15 gennaio 2013

La banalità del male è l’amore della Germania, totale

Oggi sembra perfino ovvio, rispetto a cinquant’anni fa, quando suscitò scandalo. Nella circostanza, e nel senso generale che proiettava all’indietro, sullo stesso Olocausto. La circostanza era il falso processo a Eichmann, la piccola Norimberga a carico di un impiegato del catasto. Che Eichmann, ipocritamente sciocco, duplicava. La filosofa disse banalità per non dire stupidità. Non fosse che il libro è più di quello che dice.
La crudeltà è l’assenza di passioni. Vuol’essere fredda, e non per proposito ma per indifferenza. È l’abulia di Eichmann, più che l’isteria che si accredita a Hitler.  La volontà costante, premeditata, irriducibile in ogni situazione, di fare il male non può essere alimentata da un fuoco, si distruggerebbe. Eraclito per questo può dire: “È nella natura delle cose nascondersi”, e non per un complotto. O: “La struttura latente è padrona di quella palese”. E la stessa teologia, a partire da san Paolo ai Corinzi: “Vediamo come per mezzo di uno specchio, in immagine”, e intende “vagamente”. Spesso siamo ciò che non sappiamo. 
Ma c’è di più, che non si dice, molto di più. Per l’autrice, e per le questioni ancora irrisolte che la Colpa pone. Noto è che la banalità di Eichmann offese gli ebrei - la “banalità del male” è concetto che la filosofa mediava dal cattolico Bernanos - ma non è questo il punto. La nazione ebraica fece di Hannah Arendt un’apostata, traditrice nella disgrazia. O, in Israele, il piffero degli ebrei d’America, potente nazione da cui prendere le distanze. La quale potente nazione ebraica americana la bollava “la Rosa Luxemburg del nulla”. Per essere incappata nello stile “New Yorker”, il brillante sbrigativo. Una polemica come un’altra. Hannah Arendt era colpevole, forse, per la bontà.
È per bontà che i tedeschi che bruciavano gli ebrei Hannah Arendt rappresenta senza passione. Facendo loro torto. È vero che il male è banale, alla portata degli scemi. Anche il filosofo e scrittore nazista Hielscher, animatore dell’Ahnenerbe, la ricostituzione della purezza razziale, caduto in disgrazia per aver promosso un sistema “tribale frazionato” medievale contro la modernizzazione di Hitler, rilasciato dopo la tortura, trovò i suoi aguzzini seduti alla scrivania dietro le scartoffie. Ma i tedeschi non sono scemi.
Hannah fa sua la banalità del male di Bernanos in uno strano modo, anche di essere ebrea. In Bernanos angoscia: che il male sia comune fa paura. In lei è quasi una difesa, tra la chiamata di correo che allevia la colpa e la banalizzazione del reato. Ciò nasce dal fatto che Eichmann è niente, un contabile – e che molti capi delle Comunità ebraiche, che la Arendt chiama in causa, lo erano (Eugenio Zolli, per dire, il rabbino di Roma che si battezzò, ne dà attestato straziante, di vanità e superficialità). Per il fascino del numero, che anch’esso fa tedeschi gli ebrei. Mentre l’Olocausto è storia di mille storie, di milioni di storie, di bambini strappati alla famiglia, di uomini e donne strappati alle case, uno per volta, con schieramento di carri, moto, mitra, cani, con frastuono di urla, latrati, invocazioni, lacrime, mancamenti, alle luci dell’alba o nelle tenebre della notte, assalti ripetuti migliaia, milioni di volte, per settimane, mesi, anni, rinnovati a ogni campo di smistamento, a ogni stazione ferroviaria, a ogni campo di sterminio, a ogni appello nel campo, la mattina, la sera, la notte. È questo l’orrore, che tutta questa sofferenza si lascia cancellare da numeri, regolamenti, organizzazioni, percentuali.
Non è però possibile che la scienziata politica Arendt non vedesse la differenza tra le due diverse banalità. E dunque che ha voluto dire? La compassione, se non l’amore, per la Germania. O il disprezzo. O tutt’e due, un atto d’amore disperato, con rabbia. Hannah visse gli ultimi giorni della guerra, e la verità dei campi, sgomenta per la distruzione della patria tedesca, contro l’esaltazione dei vincitori e il morgenthavismo, la riduzione della Germania a campo sterile. È su questo sentimento che codificò il totalitarismo, la nuova categoria politica dopo la classificazione di Platone. Che è anzitutto un atto di fede. Il nazismo è antieuropeo: “L’umanesimo, la cultura europea, lungi dall’essere alle origini del nazismo, vi era così poco preparata, così come a ogni altra forma di totalitarismo, che per capirlo e tentare di venirne a capo, né il suo vocabolario concettuale né le sue metafore tradizionali possono servire”. È voglia di credere: il male radicale può non essere banale. Ma è vero che l’ideologia conta poco nel totalitarismo. Conta in democrazia, dove provoca danni. Nei regimi distruttivi la distruzione conta più delle idee: avesse Hitler eliminato tutti gli ebrei, non per questo la sua politica di annientamento si sarebbe fermata.
È dunque, questa corrispondenza giornalistica della filosofa, in certo modo un tradimento. Una fessura nell’ebraicità unica. Non isolata, faceva anzi la grandezza della diaspora vigile, socialista. Per essere la condanna d’ogni nazionalismo esclusivo, o primato – per ultimo d’Israele, anch’essa a suo modo antisemita: il popolo paria che si teneva saldo nella diversità e l’intima intesa, ora che ha un Parlamento e l’esercito se ne serve per imporre lo Stato confessionale e lo sviluppo separato, altrove detto apartheid.
È anche, in particolare, la ribadita difficoltà a riconoscere nell’amato Heidegger il nazista. Non quello del cinema, sbraitante, ma il tipo del renitente sottile, testardo, al giudizio comune. Analizzando l’assolutizzazione della tecnica, e il rifiuto dell’azione, collocata nel “si”, fra l’impersonale e il mediocre, Hannah aveva dichiarato nei Sechs Essays, con l’accordo quindi del curatore Jaspers, Heidegger “non politico”. Collocandolo così un gradino sotto Aristotele e Kant, ma mettendolo al riparo dal nazismo. È possibile che i filosofi non sappiano pensare la politica, come Hannah Arendt sostenne pretendendosene scienziata, da Platone a Heidegger. Compreso, chi l’avrebbe detto, Aristotele, per via di Alessandro Magno, il miglior allievo. Dunque la filosofia politica non esiste. Da Cicerone e sant’Agostino a san Tommaso, Hobbes, Kant, gli illuministi e Hegel, e nelle questioni di antichi e moderni, sembra che essa sia possibile, ma è politica, non filosofia. La filosofia c’è tutta, in questo ragionamento, ma soprattutto è vero che non si comanda all’amore.
Ben prima di Eichmann Hannah era stata colpita dall’ordinarietà delle passioni. Già di Rahel Varnhagen, il soggetto della sua ricerca di dottorato, diceva: “Lei è un esempio dell’amore nella sua forma più banale”. Ma lei stessa più di Rahel aveva sormontato appassionata tutti i fossi e le miserabili barriere, degli appuntamenti disattesi, della viltà del suo uomo e maestro Heidegger, della sua propria riduzione inequivoca a oggetto – o sarà stata la sola walchiria di tutta la storia del nazismo, il Leandro della trama d’amore della nuova umanità, di uomini deboli. Infelice incolpevole.
L’impossibilità di essere tedesca e illuminista, qual era nell’intimo, ha impedito a Hannah Arendt di essere quello che Rahel ha potuto, benché ebrea. Avendo tradito per onestà intellettuale, ma più con l’amore infelice - grottesco: una ragazza può andare a diciott’anni con uno di trentasei, ma non a sessanta con uno d’ottanta, e in presenza della moglie.
Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, pp. 320 € 9

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