C’è una tradizione spessa degli elogi, un piccolo genere: dai sofisti “maestri di virtù”, ossia della retorica, agli operosi elogi ottocenteschi dell’ozio, di Cesare Beccaria o Paul Lafargue, il marito di Laura Marx, alle collane di elogi che ancora usavano in Francia tra le due guerre, e ora si rifanno, della pigrizia, dell'ignoranza, della bruttezza, della curiosità, della frivolezza. Talvolta il genere è esortativo: vedi gli elogi, ricorrenti fra i padri e i predicatori, della modestia, delle temperanza, della continenza, della povertà. Oppure è semplicemente elogiativo: è il caso del testo di Leopardi sugli uccelli. Ma prevale il gioco delle inversioni, naturalmente ironico, caro alla poesia burlesca e affinato da Erasmo.
Jean Paul fa parlare la stupidità. E la fa parlare dei suoi rapporti con gli intellettuali, gli uomini,
le donne, capi e sudditi, governanti e scienziati. Questo “Elogio” è così uno specchio, svagato
ma fedele, e ancora vivo, del moderno modo d’essere di quelli che si
chiameranno gli intellettuali, anteriore ma anche successivo a quelli di
Baudelaire e di Flaubert, dei ticchi nei quali si risolve spesso il nostro
pensiero profondo. È un catalogo e non un libello, poiché i bersagli non sono
persone e situazioni del tempo. E non è una critica di costume: Jean Paul non è
Goldoni, né Baretti o Parini. La critica va all’ipocrisia, la superficialità,
lo snobismo, il carrierismo, l’arroganza, la sciatteria. L’opposto di chi cerca
saggezza e verità. E per questo non è datato: è una mappa di budella
intorcinate, quelle della stupidità, e non innocua, della cultura che si
sarebbe detta occidentale. In un senso, se l’ottimismo è stupido, Jean Paul è
il primo degli stupidi.
Jean Paul, Elogio
della stupidità. Shakespeare and Company, pp. 151 ril. pp.vv.,
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