L’argomentazione è specialistica.
Gli autori mettono in
dubbio la teoria prevalente – ovvia – della “mobilitazione delle capacità
cognitive” come ottimizzazione delle risorse umane, proponendo
quella che appunto definiscono “stupidità funzionale”.
La mobilitazione, in sostanza, di quella parte della “vita organizzativa” che
viene esclusa o sottovalutata: l’irruenza (l’assenza di riflessività), la tigna
(“il rifiuto di usare le capacità intellettuali in modi diversi che non quelli
miopici”), l’assertività (il non giustificarsi). Che è prevalente nei contesti
dominati dall’“economia della persuasione che si basa sul’immagine e la
manipolazione simbolica”. La pubblicità evidentemente, ma anche il marketing, e
le stesse scelte produttive indirizzate al consumo.
Ma qui viene il
bello. La mobilitazione a senso unico delle capacità cognitive “porta a forme di
management stupido, che reprime o marginalizza il dubbio e blocca la
comunicazione”. Attraverso un processo di raffinazione, si può dire, per cui ognuno
poi finisce per dire quello che si deve dire. Un circolo vizioso della
stupidità, innescato dalla gestione troppo virtuosa della stupidità stessa, la Tutti
si sentiranno a quel punto molto sicuri, ma al costo di dispersioni, di complessi,
di perdita del senso di gruppo. È quello che Mats e Spicer chiamano la “self-reinforcing
stupidity”, invece della “functional stupidity”.
Non è così straordinario come sembra. Henry
Ford, si ricorderà, fece l’automobile di massa dando lavoro anche agli scemi:
perché, giustamente, faceva l’utilitaria per venderla, e poteva venderla se c’era
un numero consistente di redditi in grado di comprarsela, magari con le sue
retribuzioni. Una concezione dell’economia di cui i professori inorridiscono,
anche quelli al governo: troppo stupido?
Mats Alvesson, André Spicer, A Stupidity-Based Theory of
Organizations, in “Journal of Management Studies”, novembre 2012, pp
1195-1220, free onlinejoms
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