lunedì 21 gennaio 2013

L’infanzia cubista di Marina

Un racconto “cubista”: nel “Racconto di mia madre” Cvetaeva sposta in continuazione il punto di osservazione, dall’uno all’altro dei tre personaggi, l’autrice e la sorella Anastasija bambine, la madre. Nel genere memoria familiare, o interno fiammingo delle piccole cose, e insieme gotico, di orchi e miracoli. Pasticciando Puškin, la Tatjana dell’“Oneghin”.
Segue un’altra memoria familiare, delle due sorelline col fidanzatino, lo stesso per tutt’e due. Un personaggio preciso ma indistinto, che si suppone inventato, un “fidanzato d’acqua”, e alla fine invece c’è, c’era. Una metafora quasi filosofica, dell’essere-non essere.
Su Cvetaeva si riverbera la fine drammatica, il suicidio nell’infamia politica e l’inedia. Mentre fu  persona e scrittrice di umori, vivacemente gai. Antonio Castronovo, che cura la mini-edizione, la fa bastian contrario – toscanismo in disuso, uno dei tanti insensati, ma significante: “Il suo principio di vita poetico diventa la negazione”. Si direbbe anticonformista ma non lo era: Marina è scrittrice solidamente borghese. Ma fu zarista a Mosca, tra i rivoluzionari, e rivoluzionaria a Parigi tra gli emigrati. Senza metafore.
Marina Cvetaeva, Il racconto di mia madre, Via del Vento, pp. 33 € 4

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