Il rito è il nucleo della religione, su cui il culto si sviluppa,
con l’epos, il mito, la teologia – tutto così impoverito? La religione
s’insinua nei poveri di spirito per una serie di errori, cinque: superficialità
(faciloneria, credulità), il post hoc
ergo propter hoc, cioè la causalità degli sciocchi, l’impressionabilità
(memoria selettiva), l’analogia volgare, l’oziosità. Che concludono a una
facile “trasfigurazione della natura” in incantesimi e magie - l’animismo. La
cui formazione Nietzsche individua e segue passo passo: la tomba (il culto dei
morti), il pegno (la materia dell’altro), la purificazione (il rito originario),
l’imitazione. Ma non è tutto qui, e non è senza interesse.
C’è molto anche di solido in questo scritto, seppure compilativo,
per l’insegnamento. Nietzsche è abbastanza positivista da vedere che non c’è
Grecia senza culti: il genio greco si manifesta nella religione, attraverso l’epos
esorcizzando la magia e la superstizione. E il carattere tribale – contadino e
urbano - della religione dei greci. Che si perpetua per conquista, emigrazione,
convenienza politica. Di una religione che oggi diremmo di Stato: “Non v’era
alcun obbligo di fede, nessun obbligo di frequentazione dei templi, nessuna
ortodossia, si tollerava ogni sorta di opinione sugli dei; solo al culto non bisognava mettere
mano”. Non solo: “Lo Stato aveva nelle mani la riserva di diritto sacro”,
delle consacrazioni, di templi e sacerdoti, delle dismissioni, delle
delocalizzazioni. Con “diversi gradi di
santità” a seconda dei luoghi: templi, santuari, tombe.
Nietzsche conclude dunque l’insegnamento di filologia classica a
Basilea (oggi diremmo di latino e greco), all’università e al ginnasio, dieci
anni, da ultimo con pochi allievi, con una pausa positivista. Da filologo
tramutandosi in etnologo e antropologo. Non senza residue civetterie
filologiche: qui il non trascurabile annus <> annulus, il tempo circolare. Ma con una scrittura già perfetta:
sobria, netta, marciante. Forse più seducente dell’aforistica per cui sarà
famoso, che è apodittica quanto imprecisa, implica più che dire, e può
suscitare riserve come adesioni.
O questo positivismo non è il suo vero inizio? Si trascura la lettura
di Comte nel secondo Ottocento, che Nietzsche mostra di aver “conosciuto”
meglio di Kant. In Burckhardt l’ascendenza è manifesta e Nietzsche faceva a
Basilea tutto quello che faceva Burckhardt, anche se lo storico non lo volle
tra i suoi uditori (Manfred Posani Löwenstein lega infine correttamente nella postfazione
il Nietzsche di Basilea a Burckhardt).
Nietzsche positivista è contemporaneo del primo Nietzsche aforista,
“Umano, tropo umano”. Non molto dopo la dionisiaco-wagneriana “Nascita della
tragedia”. Comune ai due inizi - e sempre al fondo - è l’invidia germanica per la
Grecia (e ancora per la latinità: senza l’astio, che poi sarà della Germania novecentesca).
Qui per gli “Elleni celebratori di feste”, con tutti i loro “errori”. Con un notevole
esito, per un lavoro di repertorio e “giovanile” (e anch’esso di natura
positivista): l’anticipazione della “crisi della storia greca” (Momigliano)
autoctona. Le tracce sono “evidenti” al giovane professore delle radici
semitiche trace e frigie della cultura greca – forse vissuto ancora qualche
decennio, avrebbe Nietzsche scoperto anche l’Africa?
Friedrich Nietzsche, Il
servizio divino dei greci, Adelphi, pp. 287 € 18
Nessun commento:
Posta un commento