Il Sud
di Grass, strano
Nel pacchettino per il viaggio di ritorno che
la sua fiamma di Palermo, Aurora Varvaro, gli ha preparato – era il 1947, o 1948,
tempo non di scialo – Günter Grass è sorpreso di trovare, “accanto a biscotti e
fichi secchi”, anche “una mezza dozzina di uova sode”. Il solido tedesco è sorpreso
dal realismo dell’innamorata giovanissima – 17 anni contro i venti-ventuno del
futuro scrittore. Il ricordo è ripescato in “Sbucciando la cipolla”, il libro
di memorie di Grass.
Ad Aurora lo scrittore premio Nobel si dirà
legato ancora per cinquant’anni (ora sono sessanta), “il mio amore non vissuto
ma sopravvissuto”. Senza più – senza rimpianto né emozioni. Aurora non è
neanche scomparsa nel nulla. È pittrice e ceramista, vive alle Eolie e ha fatto
molte mostre.
A Palermo, dove è arrivato con mezzi di fortuna
in un lungo viaggio per l’Italia dopo una delusione amorosa, Grass è ammesso
alla scuola di scultura dell’Accademia di Belle Arti. Senza le fisime
burocratiche che avevano reso difficile la sua accettazione all’Accademia di
Düsseldorf - Grass all’epoca si voleva pittore e scultore. Ma Grass non ha un
apprezzamento per questo.
Aurora
Varvaro, seppure di padre palermitano, è nata a Udine, da madre friulana. Sarà
stata dunque la madre friulana a preparare le uova.
L’uomo d’onore
si vuole violento
In “La donna della ‘ndrangheta”, giallo di
vendette calabresi ambientato a New York (tradotto in americano “Death in
Calabria”), Michele Giuttari dà le etimolgie di ‘ndrina e ‘ndrangheta. Entrambe
di derivazione greca, legate a “andreios”, virile, maschio. Ne rintraccia anche
una connotazione positiva in san Tommaso d’Aquino, “Summa Theologica”: “L’andragathia è la virtù dell’uomo che sa
sperimentare gli espedienti che occorrono nelle opere vantaggiose”. E insiste, facendola
spiegare dal suo alter ego Ferrara all’Fbi e alla polizia di New York come “la
virtù di chi sa trarre vantaggio dagli eventi”, e “un raggruppamento di uomini
valorosi”. Senonché, se la ‘ndrangheta è questo, Giuttari, che è anche un
poliziotto, dovrebbe sapere perché: è una società, o famiglia, che ha saputo
trarre vantaggio soprattutto dalla polizia, dalla sua incapacità o
trascuratezza.
Ma tutto ciò non è niente di quello che i
mafiosi calabresi pensano di se stessi. Essi – tutti e ognuno di essi, visti
uno per uno nel loro ambiente, nella Locride o nella Piana - pensano di essere
non più abili ma sufficientemente violenti da essere temuti. La virilità, nei paesi
di ‘ndrangheta (e anche di mafia – forse
non di camorra, a occhio e croce, guardando la tv), non è legata alla violenza,
che sempre è foriera di disgrazia, ma all’endurance,
alla costanza (la vecchia testardaggine dei calabresi). Di cui lo ‘ndranghetista è sicuramente privo. La recente
campagna dei parroci, da una decina d’anni, sulle donne di mafia le ha trovate per
questo subito consenzienti, sulla dissociazione e il perdono reciproco, se non
sulla denuncia (pentitismo).
L’etichetta “uomo d’onore” che i mafiosi si
danno non implica le connotazioni del concetto di onore, ma la reciproca
lealtà. Finché dura, e a danno anche degli altri uomini d’onore. La morfologia
invadente delle cosche come di partiti in Parlamento, sotto coalizioni di
governo chiamate cupole, è più sbagliata che utile – e quindi è dannosa: ogni
capocosca ha una veduta corta, cortissima, degli scopi della consorteria: il
suo piccolo potere dev’essere incondizionato, feroce.
Si fa strada anche in Calabria la sindrome sciasciana
del mafioso giusto. Perché amico d’infanzia, o perché “vecchio mafioso” come
distinto dal - e avverso al – nuovo. Quello buono-e-bravo, questo violento. Ma
non c’è mafioso-‘ndranghetista che non si reputi, e non sia reputato, violento.
Soprattutto, se non esclusivamente – all’inizio fanno sempre una proposta, cioè un
invito, ma perentorio.
Il debito
è di Auctoritas
Palmi in Calabria era celebrata per le
bellezze. Dai viaggiatori del Sette-Ottocento. Dai suoi scrittori, Répaci,
Zappone. Dalle memorie anche personali. Suffragate dalle cartoline illustrate -
non tanto remote, ancora degli anni 1970. Con la montagna a picco sul mare, il
colle Sant’Elia. E una spiaggia omerica, di alti costoni boscosi e spiagge
amplissime. Su cui i pescatori del borgo marino della Tonnara tiravano le barche
in secco e mettevano le rati ad asciugare e rammendare. Anzi, due spiagge, una,
la Marinella, cara a Répaci, tutta di scoglio. Con un porticciolo poco profondo
ma bastante per i pescatori contro le mareggiate e le poche barche da turismo.
Ora ha un porto da turismo profondo e con alti
moli, senza barche. La spiaggia ha coperto di cemento, in forma di parcheggi e
lungomari per il mese di agosto. Senza nessun’altra attrattiva di turismo
stanziale, che prolunghi la stagione per tre-quattro mesi (qui ne sarebbero possibili
cinque: i bagni di mare sono possibili per tutto ottobre, l’acqua non è
fredda), come si fa nelle spiagge anche meno dotate. La Marinella è da decenni
impraticabile, dal mare e da terra. Il San’Elia pure, è una discarica – non propriamente,
ma effettualmente.
Cos’è accaduto? C’è stata la Repubblica. Ex
sottoprefettura, sede di Tribunale e di diocesi, la cittadina è passata in amministrazione
dai burocrati ai ceti produttivi. Ma se ha perduto in Auctoritas non ha guadagnato in iniziativa, giacché questi ceti
produttivi non sanno evidentemente andare più in là del (piccolo) guadagno immediato.
L’Auctoritas aveva delle virtù che la
democrazia di necesstà tarscura, ma senza la quale essa stessa non può darsi un
futuro – il concetto di Auctoritas,
perduto nella contemporaneità italiana, è centrale nella sua tradizione di pensiero
politico, da Machiavelli a Gaetano Mosca e Alessandro Passerin d’Entrèves – da cui
Hannah Arendt l’ha mutuato, introducendolo nella filosofia politica anglosassone.
È il problema che Mosca direbbe – e Veblen e Max Weber dopo di lui – della classe
dirigente.
Se l’identità
è l’insicurezza
A Villa San Giovanni, all’imbarco per la
Sicilia, s’incontra sempre una famiglia siciliana in ansia. Di cui un componente,
solitamente la moglie o una figlia, corre a presidiare la biglietteria, mentre
il guidatore va a posizionare la macchina ai primi posti in coda per la prima
traghetto in partenza. Da cui poi corre alla biglietteria per pagare, ritirare
il biglietto e presidiare sulla propria macchina il posto conquistato.
Come se la donna non potesse pagare e ritirare
il biglietto lei.
Come se ci fosse una coda, e una qualche
attesa, oltre i tempi tecnici per svuotare e riempire il roll on-roll off – i piazzali d’imbarco sono semideserti undici
mesi e mezzo l’anno.
È gente che viene dal Nord – il trasbordo
locale è minimo. Da soggiorni anche lunghi al Nord, o in Germania, Svizzera,
chissà dove. Dove in qualche modo si sarà integrata, ma senza perdere la
sfiducia.
Parlano tra di loro in dialetto stretto, di
paese e forse di quartiere. È il baluardo della loro identità, ma come
diversità. Che evidentemente li condanna all’insicurezza.
leuzzi@antiit.com
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