Gli editori italiani di Bolaño insistono sul fatto
che è morto presto e che è un autore cult.
Senza più. Lo stesso che si dice, in Italia e anche fuori, di Foster Wallace.
Meglio si direbbero apatridi. Anche Murakami. Scrivono di eventi e ambienti che
non si sa dove situare poiché si situano dappertutto. Come in Italia fanno Marani
e Baricco. E da qualche tempo Umberto Eco, con le innumerevoli pagine vuote, dall’“Isola”
a “Baudolino” e “La regina Loana” – ora col “Cimitero di Praga”. Anche quando li
localizzano in luoghi precisi, come fa Bolaño.
Si potrebbero dire autori globali, se non fosse
derisorio – la globalizzazione non piace. Ma più che altro li caratterizza l’impersonalità:
di personaggi anche a lungo e minuziosamente trattati – Bolaño, Foster Wallace,
Murakami – e tuttavia freddi. A volte maniaci ma sempre impassibili. Monomaniaci,
il loro soggetto-oggetto è la letteratura, ma non si può dire nemmeno un
feticcio, è cosa inerte.
Si potrebbero dire autori metafisici, anche se in
senso improprio: di passioni e azioni intemporali e illocali, più spesso
irrelazionali. O scrittori dei non-luoghi, di città inesistenti come un
aeroporto, o l’autostrada, o il centro commerciale. Non alla Ballard, che vi si
esercita con rabbia, sempre dal suo buco di Shepperton, censore, crociato, ma
da spaesato. Mentre è forse solo una scrittura da scuola di scrittura, brava
per essere asettica.
Roberto Bolaño, 2666, Adelphi, pp. 963 € 24.
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