Avanguardie – Sono desuete – usano ancora nelle arti perché fanno mercato. Come fatto letterario, critico E anche come fatto proprio: lo erano già al tempo dell’ultima avanguardia italiana, il Gruppo ’63. Di cui non si fa un bilancio nel cinquantennale, benché sia l’ultima avanguardia storica - contrariamente alle altre che l’hanno preceduta, fino alla guerra, materie di ampie esercitazioni. Marco Filoni evoca il Gruppo brillante sul “Venerdì” ma come fenomeno giornalistico. Né gli stessi protagonisti superstiti, Balestrini, Arbasino, Eco, se ne fanno vanto: non ci sono reduci, non ci fu eroismo?
L’argomento è sempre
lo stesso, anche se non si applica alle altre avanguardie: c’è ottima
letteratura, forse migliore, fuori. È così, se si guarda al prodotto, il secondo
Novecento italiano è migliore tra chi restò fuori del gruppo o ne fu deriso,
Pasolini, Bassani, Calvino, perfino Cassola, e i tanti altri che non entrarono
con esso in competizione e nemmeno in contatto (i poeti laureati e Sciascia, Soldati),
o allora per farsene scudo e beffa insieme (Berto, Parise, i veneti in genere).
Del Gruppo ’63 “rimangono” Eco e Arbasino, che però già c’erano per i fatti
loro e ne hanno solo spartito il lato conviviale.
Una funzione tuttavia
il Gruppo l’ha sicuramente avuta. Anzi due: una fu d’imporre la letteratura, la
ricerca della letteratura, nella Nuova Italia del boom - prima che venisse
addomesticata: di forme lessicali, sintattiche, espressive. L’altra è come dice
Arbasino scanzonato: “Nessuno badò a quel tempo a sfruttare commercialmente le
strutture librarie con rievocazioni consumistiche di eccidi e stragi, malattie
e agonie di congiunti, corpi di intellettuali in crisi, antiche ricette
casarecce…”. Ogni tanto si vuole poter essere liberi e scanzonati, cioè seri..
Don Giovanni –
Il “Don Giovanni di Mozart-Da Ponte è in tutto uguale al “Don Giovanni di
Gazzaniga-Bertati. Rappresentato a Venezia alcuni mesi prima, nello stesso anno
1787. Eccetto che per la musica naturalmente, e qualche verso – la drammaturgia
è identica.
Non c’è plagio in
musica.
Italiano – Saba, “Scorciatoie”, p. 62 : “Italo Svevo
poteva scrivere bene in tedesco, preferì scrivere male in italiano. Fu l’ultimo omaggio al fascino
assimilatore della “vecchia” cultura italiana”.
“Di
veramente originale e italiano v’è ben poco in Italia”, terra di passaggio e di
conquista. Era l’avviso di Corrado Alvaro nel 1923, “Dello
spirito nazionale” (ora in “Scritti dispersi”, 53-54). , E “quel poco che resta a noi di veramente italiano è destinato a essere valutato solo
dagli stranieri”.
Troppo complicato (ricco?)
voleva dire lo scrittore calabrese, che aveva molto uso di mondo, di viaggi. Due
anni dopo, “Caratteri”, spiegherà (in “Scritti dispersi”, 124-15): “V’è chi fa dell’italiano l’uso più svagato del mondo,
cieco e sordo”. E invece è pieno di cose, sia la lingua che l’uomo: “Straordinarie sono le
sue capacità di mimetismo”. Per quanto povero, “la sua
mente è piena di cose spettacolari intraviste nell’infanzia, sapute nei racconti,
guardate nell’aspetto delle vecchia strade e delle vecchie piazze”.
Ancora quattro anni e
si preciserà, “L’Italia e l’inquietudine del
mondo moderno” (“Scritti dispersi”,
210-224): “Quando si parla di prepotenza italiana, leggete
individualismo italiano”
“In nessun paese come in Italia esiste
una turba così innumerevole di dilettanti letterati, e in genere di artisti, accanto a quelli
autentici”.
Anche l’operaio sognerà sempre la
bottega “«dove sarà apdrone lui»”.
“Le
origini dell’individualismo italiano sono nella provincia”.
“Il
problema della vita italiana è nella insofferenza italiana a sentirsi numero”.
Joyce – È il poeta di Dublino, la città nella
quale non volle mai tornare, pur vagando per mezza Europa. Nell’“Ulisse”, nei
racconti, nelle poesiole, in tanti articoli.
Prefazione – Anche Borges
come Kierkegaard, ne è specialista, solo che le chiama prologhi. Ne scrisse per
ogni suo libro. E ne compilato un libro, “Prologhi”, con un prologo. Si direbbe
una diminuzione, spiegare (narrare) il già più ampiamente spiegato (narrato).
Ma è utile per attualizzare il già detto.
A corto
di idee, Nietzsche copiò da Kierkegaard quella delle prefazioni. Entrambi poi
copierà Carlo Dossi, ma il genere è parigino: per scongiurare il silenzio,
l’autore intona l’opera all’attualità. Se il libro è su Romeo e Giulietta e
quando esce c’è la guerra, la prefazione dirà che l’amore vince la guerra. Se
invece il libro cade in un’epoca di lussuria le possibilità sono infinite, sia
per Giulietta che per Romeo. “Gli scrittori fanno la loro
comparsa in letteratura in modo vario; con prefazione o senza”, osserva
Sklovskij, “Il punteggio di Amburgo”: “Gli scrittori con prefazione, di regola,
non hanno vita lunga”. Muoiono cioè giovani, poveretti - e gli scrittori senza
prefazione?
Ma non cambia tutto se le circostanze fanno l’opera?
Nei testi del Bellori, quindi nel Seicento,
l’avvertenza dell’autore è detta protesta.
Rasta – Prima che
derivato da Ras Tafari, per la capigliatura arricciolata, è stato in uso in
francese , in Colette per esempio e in Queneau, per rastacouère: uno che si veste vistosamente, un arricchito.
In origine forse sudamericano: rastracuero,
uno che si riempie di cuoi.
Specchio – Si è moltiplicato ultimamente in una con
la cecità crescente, simbolica, o dell’indifferenza al mondo. Borges, che ne è
il maggiore specialista, lo lega alla cecità: per chi diventa cieco dopo aver
visto, lo specchio è obbligato. Anche lo specchio doppio, che introduce nel gioco il labirinto, la moltiplicazione
dell’immagine all’infinito.
Vino – Nei quadri
fiamminghi c’è sempre il vino i tavola o nelle coppe in segno di reale accordo.
Per un matrimonio concordato, una vendita, un acquisto, una promessa. Perché è
scuro e fa contrasto, ma c’è anche il vino bianco, spumeggiante – come nella
pittura francese dei luoghi di piacere naturalmente, specie dopo
l’impressionismo.
letterautore@antiit.eu
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