sabato 2 febbraio 2013

Letture - 126

letterautore

Avanguardie – Sono desuete – usano ancora nelle arti perché fanno mercato. Come fatto letterario, critico E anche come fatto proprio: lo erano già al tempo dell’ultima avanguardia italiana, il Gruppo ’63. Di cui non si fa un bilancio nel cinquantennale, benché sia l’ultima avanguardia storica -  contrariamente alle altre che l’hanno preceduta, fino alla guerra, materie di ampie esercitazioni. Marco Filoni evoca il Gruppo brillante sul “Venerdì” ma come fenomeno giornalistico. Né gli stessi protagonisti superstiti, Balestrini, Arbasino, Eco, se ne fanno vanto: non ci sono reduci, non ci fu eroismo?
L’argomento è sempre lo stesso, anche se non si applica alle altre avanguardie: c’è ottima letteratura, forse migliore, fuori. È così, se si guarda al prodotto, il secondo Novecento italiano è migliore tra chi restò fuori del gruppo o ne fu deriso, Pasolini, Bassani, Calvino, perfino Cassola, e i tanti altri che non entrarono con esso in competizione e nemmeno in contatto (i poeti laureati e Sciascia, Soldati), o allora per farsene scudo e beffa insieme (Berto, Parise, i veneti in genere). Del Gruppo ’63 “rimangono” Eco e Arbasino, che però già c’erano per i fatti loro e ne hanno solo spartito il lato conviviale.
Una funzione tuttavia il Gruppo l’ha sicuramente avuta. Anzi due: una fu d’imporre la letteratura, la ricerca della letteratura, nella Nuova Italia del boom - prima che venisse addomesticata: di forme lessicali, sintattiche, espressive. L’altra è come dice Arbasino scanzonato: “Nessuno badò a quel tempo a sfruttare commercialmente le strutture librarie con rievocazioni consumistiche di eccidi e stragi, malattie e agonie di congiunti, corpi di intellettuali in crisi, antiche ricette casarecce…”. Ogni tanto si vuole poter essere liberi e scanzonati, cioè seri..

Don Giovanni – Il “Don Giovanni di Mozart-Da Ponte è in tutto uguale al “Don Giovanni di Gazzaniga-Bertati. Rappresentato a Venezia alcuni mesi prima, nello stesso anno 1787. Eccetto che per la musica naturalmente, e qualche verso – la drammaturgia è identica.
Non c’è plagio in musica.

Italiano – Saba, “Scorciatoie”, p. 62 : “Italo Svevo poteva scrivere bene in tedesco, preferì scrivere male in italiano. Fu l’ultimo omaggio al fascino assimilatore della “vecchia” cultura italiana”.

“Di veramente originale e italiano v’è ben poco in Italia”, terra di passaggio e di conquista. Era l’avviso di Corrado Alvaro nel 1923, “Dello spirito nazionale” (ora in “Scritti dispersi”, 53-54). ,  E “quel poco che resta a noi di veramente italiano è destinato a essere valutato solo dagli stranieri”.
Troppo complicato (ricco?) voleva dire lo scrittore calabrese, che aveva molto uso di mondo, di viaggi. Due anni dopo, “Caratteri”, spiegherà (in “Scritti dispersi”, 124-15): “V’è chi fa dell’italiano l’uso più svagato del mondo, cieco e sordo”. E invece è pieno di cose, sia la lingua che l’uomo: “Straordinarie sono le sue capacità di mimetismo”. Per quanto povero, “la sua mente è piena di cose spettacolari intraviste nell’infanzia, sapute nei racconti, guardate nell’aspetto delle vecchia strade e delle vecchie piazze”.
Ancora quattro anni e si preciserà, “L’Italia e l’inquietudine del mondo moderno” (“Scritti dispersi”, 210-224): “Quando si parla di prepotenza italiana, leggete individualismo italiano
“In nessun paese come in Italia esiste una turba così innumerevole di dilettanti letterati, e in genere di artisti, accanto a quelli autentici”.
Anche l’operaio sognerà sempre la bottega “«dove sarà apdrone lui»”.
“Le origini dell’individualismo italiano sono nella provincia”.
“Il problema della vita italiana è nella insofferenza italiana a sentirsi numero”.

Joyce È il poeta di Dublino, la città nella quale non volle mai tornare, pur vagando per mezza Europa. Nell’“Ulisse”, nei racconti, nelle poesiole, in tanti articoli.

Prefazione – Anche Borges come Kierkegaard, ne è specialista, solo che le chiama prologhi. Ne scrisse per ogni suo libro. E ne compilato un libro, “Prologhi”, con un prologo. Si direbbe una diminuzione, spiegare (narrare) il già più ampiamente spiegato (narrato). Ma è utile per attualizzare il già detto.

A corto di idee, Nietzsche copiò da Kierkegaard quella delle prefazioni. Entrambi poi copierà Carlo Dossi, ma il genere è parigino: per scongiurare il silenzio, l’autore intona l’opera all’attualità. Se il libro è su Romeo e Giulietta e quando esce c’è la guerra, la prefazione dirà che l’amore vince la guerra. Se invece il libro cade in un’epoca di lussuria le possibilità sono infinite, sia per Giulietta che per Romeo. “Gli scrittori fanno la loro comparsa in letteratura in modo vario; con prefazione o senza”, osserva Sklovskij, “Il punteggio di Amburgo”: “Gli scrittori con prefazione, di regola, non hanno vita lunga”. Muoiono cioè giovani, poveretti - e gli scrittori senza prefazione?
Ma non cambia tutto se le circostanze fanno l’opera?

Nei testi del Bellori, quindi nel Seicento, l’avvertenza dell’autore è detta protesta.

Rasta – Prima che derivato da Ras Tafari, per la capigliatura arricciolata, è stato in uso in francese , in Colette per esempio e in Queneau, per rastacouère: uno che si veste vistosamente, un arricchito.
In origine forse sudamericano: rastracuero, uno che si riempie di cuoi.

Specchio – Si è moltiplicato ultimamente in una con la cecità crescente, simbolica, o dell’indifferenza al mondo. Borges, che ne è il maggiore specialista, lo lega alla cecità: per chi diventa cieco dopo aver visto, lo specchio è obbligato. Anche lo specchio doppio, che introduce nel  gioco il labirinto, la moltiplicazione dell’immagine all’infinito.

Vino – Nei quadri fiamminghi c’è sempre il vino i tavola o nelle coppe in segno di reale accordo. Per un matrimonio concordato, una vendita, un acquisto, una promessa. Perché è scuro e fa contrasto, ma c’è anche il vino bianco, spumeggiante – come nella pittura francese dei luoghi di piacere naturalmente, specie dopo l’impressionismo.

letterautore@antiit.eu 

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