Dunque, Susanna
è cresciuta in paese sull’altopiano, tra il Carso e il mare. In una casa con un
ampio giardino. Un giardino con un noce, un cedro del Libano, almeno un melo,
almeno un pruno. Più un prato verde. Con un’altalena. Un tavolo. E una gloriette
– il tavolo sotto la gloriette. E il suo dolore più acuto e duraturo di bambina
è stato il taglio del noce. Può essere. La fine del noce le significa che non
edificherà “palazzi né fortune”, e non formerà una famiglia. Questo è già più
difficile, povero noce. Ma Susanna ha avuto così un’infanzia e un’adolescenza
tristi, tristissime a sentire lei. Non menziona amici né amiche. Né conoscenti,
che nei paesi solitamente sono intromettenti. Lei e la nonna. Vent’anni –
venticinque? – a non sopportarsi.
Il secondo
ricordo è infatti la cattiveria. Contro una nonna buona. Che aveva solo il
vizio di leggere alla bambina, fiabe, poesie, e storie straordinarie – “la
borghesia ebraica che aveva lascato lo studio della Torah per la lettura dei
romanzi” (Susanna racconta e insieme situa il racconto, ne fa l’esegesi). Non
giocava al pallone con lei e non faceva le capriole. Succede. Ma succede a
tutti, l’anagrafe vuole le nonne invecchiate, anche senza la Torah e la
borghesia.
Poi succedono
molte cose. Subentra l’alzheimer. Che è una sorta di condizione felice. Ma un
inferno per chi ci deve convivere. La nonna muore. La ragazza cerca la madre,
morta già di quindici anni – o di venti. Le inventa un tardo Sessantotto,
quello dei collettivi femministi, e un aborto, e la liquida con una fine
miseranda, da drogata in una comune – Susanna, che si suppone yogin, non
dovrebbe odiare, ma è del partito anti-68. Cerca allora e trova il padre che l’ha
rifiutata. Un egoista nevrotico – “anaffettivo”. E qui fa un torto a Grado,
situando il padre filosofo, sporchiccio, in un condominio sporco di un quartiere
sporco, mentre Grado è un posto pulito, gradevole, e anche ecologico, tratta
bene le piante e i fiori. L’ultima parte è un trionfo di radici e di pace in
Israele. Leggendo la Bibbia, nella parte Nuovo Testamento.
Titolo sempre
canzonettistico, tono svagato, Susanna è abile fabulatrice. Anche se non ci
considera, noi lettori:è il terzo o quarto libro sulla nonna, dopo “Per voce
sola” e “Va’ dove ti porta il cuore”. Uno storione familiare ristretto e
interminabile. Tanto più impositivo alla rilettura in riedizione, a sei anni
dalla prima uscita, nei “Libri di Susanna Tamaro”. La vita non è mai personale
e laterale, non ci sono ganci, né affettivi né di semplice curiosità, ma ascese
e discese lungo una sola pertica, nonni, prozii, zii, cugini, e figliolanze -
ma non le proprie, che necessiterebbero un contatto. Filosofando molto – i geni
del padre? Soprattutto in Israele, ma anche altrove, sulla vita, la morte, l’amore,
e Dio. Senza costrutto. I sentimenti mantenendo scarni, semplificati – niente
famiglia, niente palazzi né fortune? I vecchi sono stanchi, la famiglia è
violenta, Dio è una bestia. E tuttavia i lettori la amano. Quindi, o sono i
tempi in sintonia con Susanna, o Susanna è tutta nel tempo.
A p. 172 Susanna
sente a Cafarnao una guida turistica dire, nello stesso inglese tedesco, le stesse
cose, con parole quasi identiche, che la guida diceva nello stesso luogo nel 1969,
nel 19721 o ’72, e nel 1974. Sul Cristo che vi s’era stabilito perché era il
mercato delle carovane da e per l’Oriente, dove poteva sia imparare molto sia farsi
pubblicità. Ma con l’onesta premessa: “Sono ateo”, “sono agnostico”: decristianizzare
il Cristo è impresa dubbia.
Susanna Tamaro, Ascolta la mia voce, Bompiani, pp. 209
€ 9.
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