Lo Stato
mafioso
I giudici sono Stato, certo.
Il fatto più emozionante della giornata in cui
un giudice ha detto che la trattativa Stato-mafia c’è stata, e che i
carabinieri e il senatore Mancino vanno processati in combutta con Riina, è
costituito per il “Corriere della sera” dai complimenti di Massimo Ciancimino
al Procuratore Di Matteo. “Sono
sinceri”, insiste l’emozionato Giovanni Bianconi. Poi dice che la mafia vince –
il Sud è rassegnato.
Ma, in tema di complotti, chi ci manda questi
Bianconi? E perché?
Il giudice Di Matteo ha accettato i complimenti
di Ciancimino, criminale acclarato e presunto mafioso, figlio e erede di un
capo mafiosissimo. Gli ha stretto vigorosamente la mano, assicura l’emozionato
Bianconi. Quando si faranno i processi per la Procura-mafia, per la mafia non
perseguita in tutti questi anni, bisognerà ricordarsene.
Dunque i carabinieri in combutta con Riina e
Ciancimino ci sono, la trattativa tra Stato e mafia (e Berlusconi) c’è stata.
Lo dice un giudice di Palermo, Piergiorgio Morosini. Anche se senza motivo,
dice lui stesso, l’accusa non avendo “neppure affrontato il tema delle fonti di
prova, limitandosi a generiche affermazioni su finalità e approdi
dell’inchiesta”.
Che dirne? Sembra inventato. Ma il “Corriere della sera” dice che Piergiorgio
Morosini esiste, anzi che è “un giudice particolarmente preparato e rigoroso”.
Però, con tutti i Bianconi, è vero che sono i
giudici di Palermo a proteggere la mafia. Da una quindicina d’anni ormai:
niente condanne, niente processi, niente indagini. La mafia è come se non ci
fosse a Palermo.
In un senso la mafia è politica, nel senso più
ampio, migliore anche, della parola. Non di partito, o di corrente, o di questo
o quel procacciatore di voti corrotto, ma del sentimento politico del tempo.
C’è un sentimento della politica diverso nelle
varie epoche storiche. La mafia vi si adegua, o ne è espressione – sempre al
suo modo, certo: violento. Un tempo vicina alla proprietà, quando la proprietà
era da proteggere, con guardianie e comparaggi, contro furti, abigeati,
grassazioni. Poi, quando il sentimento si è fatto popolare e antipadronale, da
parte dei vescovi, dei grandi partiti e anche dei carabinieri, contro la proprietà
– la mafia dei terreni e degli appalti. Quindi, quando si privilegiò, nelle
leggi e nella pratica, negli anni 1980 l’arricchimento facile con la finanza, con
le reti bancario-finanziarie (le anonime del diritto svizzero). Sembra faticare
a entrare nel sentimento politico dell’antimafia, quarta esperienza di questo
lungo dopoguerra, ma ci ha provato e ci
prova, coi pentiti e con sue proprie onlus.
Mai arcaica, come vorrebbe la vulgata (Sciascia)
della mafia vecchia o mafia buona.
La
Brigata Catanzaro
Della Brigata Catanzaro, che nel 1915-18
sostenne molte sanguinose battaglie, per due anni senza un turno di riposo, e
la notte del 15 luglio 1917 si ribellò, finendo decimata, Mario Saccà completa
la storia, su “Calabria Sconosciuta” n. 136, ricordando che dopo la guerra si
distinse apponendo il 16 novembre 1919 una grande targa in bassorilievo alla
memoria di Guglielmo Oberdan. Nella Caserma Grande di Trieste, o Caserma Oberdan,
nella quale era alloggiata. Pagata col soldo dei soldati della Brigata, è da
supporre. Su un’iniziativa che si fa risalire a uno dei fanti, Baldassarre
Monteleone. Un’opera, dice Saccà, “che finalizza il sacrificio della Catanzaro
e quello di Oberdan all’ideale compimento del disegno risorgimentale”.
Ma Oberdan fu giustiziato, dopo un vero
procedimento, seguito da tentennamenti, dagli austriaci per diserzione e
cospirazione, avendo confessato il disegno di attentare alla vita dell’imperatore.
La brigata Catanzaro fu invece decimata all’ingrosso dai carabinieri la mattina
del 16 luglio, prendendo a caso 28 fanti, e fucilandoli – altri 123 furono
mandati al Tribunale di guerra. Senza nemmeno un vero plotone d’esecuzione,
tipo mattanza nella tonnara. Malgrado le tante onorificenze, di reparto e
singole, che la Brigata aveva accumulato nella guerra. E senza mai un giudizio
successivo di riabilitazione. Malgrado l’ottimo comportamento della Brigata
dopo Caporetto e fino alla vittoria.
La storia della rivolta è stata ricostruita per
la prima volta da Irene Guerrini e Marco Pluviano, due giovani storici
friulani, nel 2007. Corrado Tumiati, il medico-scrittore che ha rievocato la
rivolta nel racconto “Errori” (ora in “Zaino di sanità”), un racconto
mozzafiato, dice che “la Brigata Catanzaro fu certamente una delle
più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il suo proverbiale
eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica. Stremata,
mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie nuove”. D’Annunzio
rievoca l’episodio nei “Taccuini”, anche lui commosso, benché i rivoltosi
avessero tentato di dirigersi proprio contro di lui, nel “campo di aviazione”
adiacente al loro acquartieramento.
Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio
storico della stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol.
6, p. 63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le
perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti
gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti.
Milano
I giudici Oscar Magi e Maria Teresa Guadagnino
condannano Berlusconi in una causa nella quale l’accusa aveva chiesto l’archiviazione.
Condannare Berlusconi pretestuosamente per fargli vincere le elezioni? I
giudici forse non lo sanno, ma questo è Milano.
Dove i giudici però questo lo sanno: che si
condanna veramente per un fatto vero – a Berlusconi non mancheranno.
La giudice Guadagnino, quella che condanna
Berlusconi ovunque a Milano (tre processi in contemporanea), deve condannare
l’arcipotente Rizzoli-Corriere della sera per le foto rubate nella casa dello
stesso Berlusconi e pubblicate nei suoi settimanali. La condanna a 10 mila
euro. Per foto pagate 300 mila euro. Senza nessuna eco a Milano, quando c’è in
ballo il “Corriere della sera” si tace. Non per omertà, naturalmente, quella
c’è solo al Sud.
In un altro sistema giuridico – qualsiasi altro
- si condannerebbe la giudice per complicità.
“Guai a deludere il milanese!”: non è lusinghiero
il ritratto che Longanesi fa(ceva) di Milano, città anche sua dopotutto, in un
articolo della raccolta “Fa lo stesso” (anni 1931-1953), spregiativamente
intitolato “Tarantella”. I milanesi non amano la loro città, ma prendono il
tram la mattina “come i pionieri dell’operosità, convinti di essere i soli, in
Italia, a recarsi al lavoro in quest’istante. La loro coscienza è limpida, il
loro alito è fresco…”.
Molto milanese, autocongratulatorio, è però
anche il piccolo napoletano che lo scrittore avrebbe incontrato in tram la
mattina a spulciare gli annunci sul giornale in cerca di lavoro. E che quattro
anni dopo fotografato sullo stesso giornale quale amministratore delegato.
A Milano, dice Longanesi in un altro articolo
della stessa raccolta, “non si pensa in grande”.
È questo che non la fa una grande città, “come a Londra, come a Parigi”, dove
ci si sente di casa anche se smarriti: “Qui tutto è casuale,
contraddittorio, slegato, abbandonato,
senza una guida, senza un criterio, senza un motore centrale… Milano è un
grosso corpo senza testa”
È una deriva, dice Longanesi: “Un tempo, molti
anni fa, prima del fascismo, Milano era una città europea; era una delle grandi
città europee”.
In grande no, Milano continua a pensare. Dopo
le dimissioni di papa Ratzinger, ha progettato di conquistarsi anche il papato.
Col suo cardinale, Scola, che nessuno candidava. E con altri due cardinali
lombardi, Nicora e Coccopalmerio. Il secondo, sconosciuto, presentando come “il
discepolo del cardinale Martini”. Il primo invece era noto per essere all’origine
dello scandalo Vatileaks. Insieme col fido, in Opus Dei, Gotti Tedeschi.
Milano pensava che col “rito ambrosiano” della
giustizia – pettegolezzi e indiscrezioni – si sarebbe messa nel sacco anche la
chiesa, dopo l’Italia.
E poi, Nicora e Coccopalmerio sicuramente
avrebbero impallinato Scola, che è di Comunione e Liberazione. Milano è anche
questo, luogo di (piccole) vendette.
La giustizia politica è facilmente identificabile
a Milano nelle sue componenti. È identificabile nei processi che non si fanno – magari processando invece
qualcuno che non c’entra, un punching ball
che si trovi lì appeso. Nell’affare Sme (punching
ball Berlusconi) Milano evitò di processare Prodi e De Benedetti, due
democristiani. Nel caso Fassino-Unipol (idem) evitò di processare due ex compagni,
Fassino e Consorte. Nel caso Rizzoli-Corriere della sera, quindici anni fa, non
si sa – massoneria? Voto di scambio?
leuzzi@antiit.eu
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