La
sindrome di Reggio Calabria
C’è stata una “sindrome di Reggio Calabria”.
Preannunciata come prossimo neologismo dal dizionario inglese Harper Collins
per l’edizione 1996 ma poi omessa, dopo le proteste e le precisazioni.
I redattori del dizionario l’avevano
repertoriata da una trasmissione della rete tv Channel 4, “Europe Express”, che
citava uno studio del patologo Francesco Aragona, dell’università di Messina.
Il professor Aragona, dopo cinquemila autopsie, aveva ricondotto - in un saggio
apparso nel 1988 sulla “Rivista italiana di medicina legale” – una serie di
stress alle attività mafiose: all’ansia da killer e al timore costante di
uccisi. Il cuore aveva trovato in morti giovani nelle condizioni di
settantenni, con insufficienze renali e ulcere superiori alla media, e una
ridotta capacità procreativa.
Di fronte alle proteste, il professor Aragona
non ha insistito per repertoriare la sua conclusione. Una specializzazione in
mafioterapia sarebbe stata forse troppo.
Sicilia
Il 1848 a Palermo, il giovane repubblicano
Mameli, pupillo di Mazzini, celebra dopo un anno (“Fratelli d’Italia. Pagine politiche”,
con un apposito articolo), il 13 gennaio 1849 come “la vera rivoluzione”: “Il
primo grido per noi veramente italiano suonava il 12 gennaio a Palermo”.
Fu il primo inciampo di Leo Longanesi neofita
della virtù repubblicana. “Il Comico si è impadronito di noi”, chiosa subito
(un testo ora in “Fa lo stesso”, 115 segg.), col bandito Giuliano, che non si
sa se non è un eroe. Contro il quale si mobilita, dopo l’Armir, un Cfrb, Corpo
Forze Repressione Banditismo – a capo del quale lo scrittore mette un Upaac,
Uomo Più Adatto al Compito., che trova già così descritto nel milanese
“Corriere d’Informazione”: “È un uomo che dorme, tutto al più, tre ore al
giorno”. Non senza conseguenze: “Tutto si confonde, tutto si altera, tutto si mescola
in un variopinto carnevale; si perdono i rapporti, le misure, le proporzioni:
siamo in guerra? Siamo in pace?”
I terribili corleonesi, che disintegrano i
bambini nell’acido e mangiano il fegato ai nemici, sarebbero dunque lombardi?
Il paese fu ripopolato da Federico II con una colonia di lombardi.
Sciascia pensava che l’Italia fosse
sicilianizzata. Allora poteva essere vero, la Sicilia contava molto nella Dc,
eleggeva e revocava i segretari della Dc. Ma poi non più. Oppure sì, Leoluca
Orlando è pur sempre un Dc.
Oppure non è che, al contrario, la Sicilia è
stata italianizzata? Come poteva Sciascia credere che i siciliani contassero
più dei lombardi? O anche dei piemontesi, da Cavour a Dalla Chiesa e Caselli?
Dopo Palermo dove fu comandante delle truppe
inglesi, Lord Bentinck divenne governatore dell’India. A Palermo sosteneva che
la Sicilia andava meglio annessa all’Inghiltera, invece che tenuta in caldo per
i Borboni.
Il coraggio dei francesi è dovuto al fatto che
le donne lo tengono in considerazione, notava Michele Palmieri di Micciché nei
suoi “Pensieri e ricordi storici e contemporanei”, 1830. Segnalando il ruolo
della donne nella società, sia che apprezzino lo spirito oppure gli affari. Non
in Sicilia, concludeva.
Palmieri di Micciché fu sospettato a Parigi di
assassinio solo per essere italiano.
Autobio
Una vita passata a schermirsi, a Londra, a
Parigi, negli Usa, dai tanti “lei non sembra italiano”, e a Milano “lei non
sembra meridionale”. O a essere scambiato per francese, e perfino, a Milano,
per tedesco. Per poi vedersi rigettare a
Milano, quando tutto fu chiaro negli anni 1990, inservibile perché meridionale
- “ha una punta d’accento”. Ma è sempre la stessa patologia, nella
nobilitazione e nel degrado: la differenza tra Nord e Sud come squalifica del
Sud.
Si è rigettati non solo da Milano, noi che di
Milano conoscevano pure il cinema Psquirolo. Si è insopportati a Napoli, e
perfino a Bari. Perfino a Potenza, anzi a Metaponto, che è di là dalla
divisione amministrativa. Si è meridionali anche al Sud, a Napoli per essere
pugliesi, o lucani o calabresi, in Puglia per essere lucani o calabresi, in
Lucania per essere calabresi.
Il salone da pranzo giallo, il salotto fucsia:
le stanze da soggiorno lungo, alte, ampie, sono idrovore di luce, di sera e
anche di giorno, è inutile aumentare il voltaggio, vi si vede sempre poco -
oltre che care in bolletta. Vi si finisce inevitabilmente cupi, abituati come
siamo alla vita in appartamento, in spazi più vicini, pratici. Ma una certa
forza pian piano s’impone. Le case, a differenza degli appartamenti, è
difficile adattarle – non in altezza, e nemmeno in ampiezza, nella costruzioni
tradizionali non si spostano le pareti. Hanno una loro personalità, che
s’impone più che adattarsi, ma finiscono per essere un rifugio gradito. Danno
sicurezza, seppure senza ragione.
Si chiamano oggi palazzi, le case unifamiliari,
anche se non grandi . Ma non senza ragione. Gli spazi sono fuori misura,
programmaticamente esagerati. Con una punta di euforia e anzi di entusiasmo,
senza più calcolo economico: un gesto di libertà, moralisticamente si direbbe
un capriccio, potendoselo permettere. A volte iperdecorati, anche i muri
esterni, a Palmi per esempio, a Scilla, a Reggio p0rima del terremoto. Più
spesso nudi, con pochi arredi, oggi si direbbero minimal, su pareti bianche. E
un dentro che è fuori, nelle volumetrie esagerate, in altezza, in ampiezza.
Poiché la casa, che è per vocazione chiusa, familiare, quasi una segregazione,
fanno invece aperta, un luogo sociale – di rispetto o invidia, se non di grata
frequentazione.
Philippe Daverio dice il palazzo “per
definizione irrazionale, perché lega l’architettura all’individualismo genetico
dell’italiano”. In realtà non solo, e non precipuamente, italiano. Più vero è il secondo elemento, di stabilità
nella continuità, che Daverio vi ravvisa: “Un intreccio fisco di reumatismi e
di memorie”, che si sovrappone alla vita individuale: “In ogni momento fa
sentire che lui, il palazzo, esiste da tanto tempo prima dell’individuo che lo
abita e forse ci sarà dopo di lui”. Prima anche, si direbbe, dello stesso
individuo che lo fabbrica: è un’idea. Con benefici “inattesi ed esoterici” per
chi ne “celebra il culto”, Daverio ha ragione: questi “diventa egli stesso un
elemento del’infinito correre della storia – e questo anche se il palazzo è
recente”.
È difficile dirne la ragione, ma è così.
Sono questa case come un monumento a se stessi,
di chi li ha fabbricati. Una celebrazione e anzi un’esaltazione, come avveniva
nella vecchi economia, primordiale, della dépense, della spesa non calcolata, non
economicistica. E anche, in un certo senso, come una liturgia, come venivano chiamate a Roma le opere pubbliche offerta
alla comunità da privati. L’ultimo “palazzo” in paese Nino S. costruisce a 71 o
72 anni non come investimento, ma come un “riconoscimento”. Del paese alla sua
arte di pasticciere, e di sé al paese, che possa accedere ogni giorno a un
posto bello.
leuzzi@antiit.eu
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