Il tema è vasto – è la letteratura. Siti lo risolve
con una spiega delle proprie e altrui opere, d’esordio o cogenerazionali, a uso
degli aspiranti scrittori. Da ultimo. Dapprima con la semiologia. Poi con gli
“alto”: la Totalità, “impossibile”, l’Assoluto, “sepolto nel quotidiano”, il
Tutto, e il Mito, la Creazione, la Realtà – nonché Dio, naturalmente, che
sempre si nega, in forma di Sacro. Più che una dottrina, uno scritto sul come
fare, a funzione pedagogica – come fare a fare. Ma tutto il libriccino, goloso,
è barocco: si becchetta molto, varie briciole appetitose, che non si
digeriscono. Il realismo suo proprio di Siti è un “realismo gnostico”, ossia
“l’orma vuota di Dio”. Punto e accapo. La Stilmischung
è “la divisa di ogni realismo” – o non è il realismo una divisa?
Diverso è il realismo nella storia letteraria, quello
classico di Auerbach, quello di Lukács, e quello recente, il realismo in senso
proprio. Auerbach poneva il realismo nel 1946 - all’inizio di questa storia
letteraria, detta del secondo Novecento ma meglio sarebbe detta della
Repubblica, poiché molto legata alla politica - non come un fatto di poetica ma
della “realtà rappresentata”: Beatrice in strada come diversa da quella di luce
fra troni e dominazioni. Siti lo sa ma non è il suo tema. Anche Verga e Zola
entrano qui di striscio – mentre manca totalmente Pasolini, e tutto il neo
realismo. Quella di Siti è una licenza poetica, totale: un sogno di libertà,
anche gli scrittori ne hanno – si penserebbero sempre liberi, ma lo scrittore è
un cavallo domestico, l’editoria lo vuole col paraocchi.
Il
reale non è indifferente. E in questo senso è straordinario. Ma non nel senso
proprio della parola: la realtà è più spesso ordinaria, regolata, ripetitiva: le
stagioni, i cicli, i fenomeni naturali. La letteratura invece non lo è, anche
se è reale, e l’arte. Lo sono diventate nel secondo Novecento e in questo
inizio di millennio, in Europa, in Italia, in questa loro storia senza
precedenti di pace, di benessere anche, ma vissuta nella cattiva coscienza e i
sensi di colpa. Al punto da imporre ognuno il proprio minuscolo io, in una
prospettiva soggettivistica, anzi da pratica confessionale, che infetta anche
la letteratura.
L’autofiction allo Strega
Riprendiamo
lo Strega, il premio letterario. Con la sua società di editori, letterati,
amici, eccetera. Con Roma e Milano. Col destino della letteratura - o col suo
corpo, da prostituta obbligata, seppure attraente e talvolta godibile. Un romanzone.
Che tuttavia non si fa perché l’orizzonte è circoscritto e tutto è stato già
detto. Anche quello della letteratura, notoriamente senza confini. È per questo
che il realismo è, parafrasando Siti, impossibile - dov’è più il realismo
nell’orizzonte circoscritto? Nell’esibizione dell’autore. Col limite ulteriore
del politicamente corretto, che in questa Italia neo sovietica è costìtuzionale.
L’autofiction
può non essere ipocrita. Normalmente non lo è – perché dovrebbe esserlo? e anzi
solitamente piena di buone intenzioni, pedagogiche, ideologiche, salvifiche, e
di buone cause, contro le mafie, la pedofilia, i femminicidi, e per il partito.
Ma è noiosa: la scuola, il paese, il viaggio, l’infanzia abbandonata, il
Tiburtino III, Napoli, come Napoli, Tiburtino III, infanzia abbandonata, scuola,
etc., senza più nemmeno la vivacità (la sorpresa, lo sdegno, la curiosità) del
fatto di cronaca. Gli stereotipi non sono connaturati all’autofiction, ma tutto
è stereotipo che non è vero, nella pagina “vissuta”.
L’impossibile è reale? Il realismo in letteratura è
tipicamente verismo in Italia (Verga), naturalismo in Francia (Zola), da ultimo
l’inamovibile neorealismo, oggi non più delle borgate e i lumpen ma dei precari, gli immigrati (che però recalcitrano, questa
è gente viva), e degli alberi morti. O, andando per archetipi, realista è Dante
naturalmente, in tutte le opere, non lo è Petrarca, lo è Chaucer ma non
Shakespeare, Pasolini e non Calvino. Lo è la maniera di porsi davanti al reale
e non semplicemente di raccontarlo – di crearlo: la letteratura è invenzione.
Resta elegante l’esercizio. Anche qui Siti ha enunciati
attraenti: “Realismo è quella postura verbale o iconica.. che coglie
impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”, “È
l’impossibile”, “È un forma d’innamoramento”, “È l’anti-abitudine”, “È il leggero
strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra
stereotipia mentale”, “L’incomprensibile è una buona porta per entrare nella
realtà”.
Alla seconda pagina è già detto tanto. Anche il suo
contrario: “Certe volte, paradossalmente, è proprio l’abitudine (diventata
meccanica o inconscia) a cogliere il personaggio in contropiede”. Nonché,
indirettamente, una triste verità: la negazione nel canone letterario italiano
– nella melassa del canone della Repubblica - della letteratura realistica o
burlesca, dal Berni in qua (“realismo come trasgressione e rottura di codici”).
Manca l’essenziale, modesto: il realismo è tutto - tutto quello che ci tiene in
vita. Platone lamentava che il realismo è la copia della copia. Si lamentava di
Fidia? Di Prassitele? L’arte sfugge alla filosofia, sia essa semiologia o
scienza
Ma, poi, Siti si diverte. E diverte. Perché questo è:
la letteratura è più di una conferenza, di tre.
Walter Siti, Il
realismo è l’impossibile, nottetempo, pp. 81 € 6
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