La storia è ambientata sotto la necropoli di
Pantálica, sul Cava Grande, l’affluente dell’Anapo. Un sito dal fascino
impossibile, fra i tanti “impossibili” della Sicilia. E dentro la necropoli
stessa. Una storia di amori nella morte, rivissuti, ritrovati, di un fascino
anch’esso impossibile. Anche plurimi, incostanti, bisessuali, malati, di aborti
imposti, violenze, adulteri, tradimenti, e sempre onesti. Perfino la
mostruosità mafiosa lo è a suo modo. Di scrittura rapida, trascinante (con
minime smagliature: un maliano che canta in inglese, la flagellazione inglese
sui monti Iblei - tra il Racinaro, dove
Atene perse la Sicilia, Alcibiade, e il Cassibile dell’armistizio, non
c’era di meglio?).
Il tema è semplice e non è nuovo, della famiglia
disfatta che si ritrova ai lutti – di Joyce ma anche, ultimamente, di Banville,
“Teoria degli infiniti”: attorno alla morte la vita si ricostituisce, e il
senso-nonsenso della vita di ognuno. Col punto di vista rovesciato, la memoria
è dei morti, e anche il senso della vita, propria e degli altri. Un racconto
privo dell’attesa sicilitudine, alla scrittrice cara, ognuno vi ha un suo
destino, anche mignon e micro, anche grigio, quale è nella realtà, dettata dai
mezzi di sostentamento, che sempre sono scarsi. Ma molto siciliana in questo: di
esistenze magari tristi, ma prive di sensi di colpa.
L’oleandro del titolo, di cui la valle è fiorita,
l’oleandro ama le forre pietrose dei fiumi, può far morire, se i rami tagliati
infettano una ferita. Ma è profumato, alcune specie lo sono, e ha colori
inimitabili.
Simonetta Agnello Hornby, Il veleno dell’oleandro,
Feltrinelli, pp. 219 € 17
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