La storia finisce in tragedia solo retroattivamente,
essendo lo stesso Berto morto di cancro come il protagonista del racconto, dieci
anni dopo la sua ideazione. Ma questo non incide sulla forza del racconto, che
altrimenti si leggerebbe in chiave iettatoria, non solo a Napoli. Così come la
declinazione dei temi ora attuali della polemica bioetica, contro l’accanimento
terapeutico, per il suicidio, la buona morte, la morte misericordiosa. Che
lascerebbero il racconto freddo, del tipo “che fare?”, tanto più sulla rete psicoanalitica
di fondo che Berto, forte della sua analisi, continuamente ritesse. Se non ci intrattenessero
due personaggi non luttuosi ma vaporosi, vitali.
Le insidie Berto stesso scopre, anni dopo la prima
redazione, dotando di ben due prefazioni il breve racconto, che era nato come
un testo d’occasione, un dialogo per il cinema - per immagini cioè, di Venezia
e di attori belli, con sottofondo musicale avvenente. Una di esse redatta in
punto di morte. Ma, malgrado tutto, misogino – misantropo – fino all’ultimo. La
traduttrice inglese cui deve l’idea del racconto invece della sceneggiatura liquida
così: “Manovrando ingegnosamente con le didascalie, costei aveva trasformato il
dramma in un racconto, ottenendo un risultato illuminante”. Costei? “Certa
Valerie Southorn”.
Giuseppe Berto, Anonimo Veneziano
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