Amore-morte 2 – In Germania, dunque, è di rigore. La “notte germanica” di Furio Jesi è lunga e plurale: quella di Tristano, quella di Novalis, con Hölderlin e Kafka, e quella della Regina di Mozart. L’innamorato di Karoline von Günderode danza sulla tomba dell’amata: così lo immagina la bella inattingibile della poesia tedesca, per avvenenza, grazia, sapienza, giovanissima. Subito dopo la danza, i “Legami dell’amore” saranno per lui sempre quelli con l’amata morta, al solo pensiero di lei nella bara un tripudio di orgasmi lo invade.
O la
fonte della poesia sarà in Germania il terrore. Non al modo di Shakespeare, che
gioca con folletti e magie: è il terrore del terrore. L’opera meno violenta,
quasi delicata, di Wagner, che culmina quarant’anni di lavoro, concepita per
prima nel 1845, completata nel 1882, il Parsifal,
la ricerca congiunta di molti cicli epici del sacro Graal, richiede notevoli
quantità di sangue – il Met di New York calcola, con la solita acribia yankee per i numeri, sessanta ettolitri,
un bell’ingombro, anche se di acqua colorata. A lungo i giovani amanti tedeschi, invece di
fuggire insieme, si avvelenavano. L’essere è del resto per il tedesco divenire,
il verbo e il sostantivo.
Questa necrofilia è maschile, le poetesse
l’amante lo vogliono in carne pure in Germania – con eccezioni: la Lenora di
Bürger il fidanzato morto torna a prendersela su invito della donna, che
infoiata vuole morire: “Il fuoco che mi arde, non c’è sacramento che lo
plachi”. È allora da pensare che i maschi tedeschi temano le donne, benché
buone mogli? Novalis amava di più Sofia se la pensava morta. Perfino il limpido
Heine paga tributo alla morte erotica, belles
dames sans merci sono le sue donne dall’inizio alla fine, dai Traumbilder alla Mouche, nel loro vampiristico Kosen,
il pettegolìo.
Ma piacciono morti pure i bambini. Non soltanto
al Rückert dei Kindertotenlieder di
Mahler, che ne scrisse 428, anche Goethe ha un padre che parla al figlio morto.
Necrofilia e spregio della libertà, “croce e sacrificio, sangue e morte” il
Mann impolitico dice “il segno più certo della germanicità”.
Anticlimax – È la cifra del neo realismo,
oggi repulsiva. Rilke l’ha scoperta un
secolo fa, chiamandola la “curva discendente” dello stile, e associandola
alla narrazione a al teatro naturalistici (in Italia veristi), come criterio
corroborativo della veridicità. Un anticlimax: l’opera tende a un finale non
risolutivo, e quasi senza possibilità di novità o mutamento.
Rilke ne parla come del procedimento che al
cinema sarà chiamato della dissolvenza, quando gli autori vogliono lasciare ambiguo
il finale e il senso della storia. Ma con più determinazione, e anzi volontà di
dissoluzione, più che ambiguità. Una chiamata di correo e un’infezione depressiva,
si può aggiungere, che priva lettori e spettatori della forza catartica dell’arte,
la liberazione. Immedesimandoli e in certo senso corresponsabilizzandoli degli
eventi di solito non gradevoli appena narrati o rappresentati.
Rilke ne parla in una lettera sul romanzo “La
signora Marie Grubbe” di Jens Peter Jacobsen, lo scrittore-scienziato danese
del secondo Ottocento che molto peso ebbe nella sua formazione (a lui deve
molto il Malte Laurids Brigge dei “Quaderni”, l’apologo parigino di Rilke sull’amore
casto). La “curva discendente” rileva nelle opere di Zola e di Flaubert, “Nanà”,
“Bovary”. Quella sulla “Marie Grubbe” è una delle tante lettere in cui Rilke
parla di Jacobsen e riconosce i suoi debiti. I due romanzi allora famosi dello
scrittore danese, il primo darwinista convinto del suo paese, sono storie di
declino, “Fru Marie Grubbe” e “Niels Lyhne”, sono storie di fallimenti a
catena, una disgrazia tira l’altra, che aggrediscono e spogliano le idealità dei personaggi. Non da questo, però, Rilke era attratto dagli
esercizi costanti, nell’opera di Jacobsen, sull’erotismo in tutte le sue forme:
innamoramenti infelici, talvolta incestuosi, o iniziatici, all’altro come alla
natura, possessivi oppure spirituali, compresa la gelosia e non esclusa la
sensualità.
Confessione – Barthes lega il diario etimologicamente a
diarrea e catarro.
Gelosia – È il tema di tutto Strindberg. Anche di
Ibsen. E poi di Proust, le migliaia di pagine delle storie di Swann e Albertine.
In forma alla fine di invidia, anche della
felicità degli altri, o di quello che si presume tale.
Sherlock Holmes – “Partendo da
tre nozioni date, calcolare l’incognita è facile”, è anche di Strindberg, 1888,
“Creditori”. Sherlock Holmes fa la parodia, lieve, indiretta, dello scientismo
del secondo Ottocento.
Traduzione – “Agosto”,
spiega un poeta russo émigré a Derek
Walcott, “in russo è un uomo”. E l’universo del poeta caraibico si rivolta,
ripensando al suo emistichio celebre “la domestica, Agosto…”. Sarà agosto “un
lavoratore su un manifesto rivoluzionario, con i capelli color grano e un
forcone in mano?” O “uno di quegli intellettuali annoiati e indolenti che si
incontrano nel teatro di Čechov, con una voce cullante e soporifera”? O non
“anche Nina nel «Gabbiano», una ragazza che si appiglia come una cavolaia…?”.
Lui aveva visto “Agosto come una domestica, la testa color ebano avvolta in un
fazzoletto bianco mentre, in una casa in riva al mare, sbatteva le lenzuola
stese ad asciugare…” – bisogna amare i poeti.
Walcott si appoggia allora (“La voce del crepuscolo”) a Brodskij,
che avendo acquisito come seconda lingua l’inglese, provvide di molte sue
poesie alla “traduzione” dal russo all’inglese. Ma i dubbi, invece di
dissolversi, si accumulano: sarà stato il distico delle “Elegia Romane, II”,
sulla mosca in agosto, così pieno in russo di sibilanti come lo è in inglese?
Il poeta Nobel caraibico vuole dire la traduzione impossibile. Ma
allora tanto vale dire la poesia impossibile, la creazione poetica: quel è il
suono giusto, la scansione, la cadenza?
“La maggior parte dei traduttori rovina i propri originali a causa
di una falsa ambizione di volerli superare, che li rende infedeli, o a causa di
una banale precisione, che li rende più infedeli ancora”. Oppure: “Quando si
vuole tradurre, bisogna scegliersi il proprio autore, come si sceglie un amico,
di un gusto conforme al nostro”. Entrambi i consigli sono di Voltaire, “De la
poésie et de l’éloquence dans la langue française” e “Sottisier”. Pound, nota
Riccardo Campi a conclusione del libro “Le conchiglie di Voltaire”, lo prende
sul serio, in “Impressions of François-Marie Arouet (de Voltaire)”, rifacendone
tre epistole in versi che alla fine non hanno nulla dell’originale, al suo
orecchio prolisso e anche vuoto, ma sono nella sostanza (“nell’immagine”, in
maschera) ben di Voltaire.
letterautore@antiit.eu
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