Copyright - Il diritto d’autore, appena nato e
codificato (garantito), viene vanificato dalla rete, la liberissima
circolazione di idee e testi – nonché da google books e altre iniziative bemerite
di biblioteconomia pubblica. È una danno? C’è chi dice di no (Tim Parks sul
“Sole” domenica): ci libererà da molto rigaggio che circola, e anzi viene
promosso e propagandato, perché paga ottimi diritti – a quelli dell’autore si legano
quelli dell’editore. Di autori che sempre più sono prestanome (prodotti) editoriali.
Ma inn termini di qualità della lettura si può dire pure il contrario: l’autoedizione
e i blog liberi, forme autoriali in assenza di copyright, di diritti
d’esclusiva, non migliorano l’offerta di lettura e anzi la peggiorano. Anche se
senza lucro. Mentre l’organizzazione del copyright, con i diritti difesi coi
denti da ogni avente diritto, compreso l’editore in esclusiva, costringe a un
minimo di selezione. E anche, per tenere viva la memoria nei settanta anni
dalla morte del’autore, a promuovere letture critiche. Non è il diritto che
protegge (sceglie, difende) la letteratura.
D’Annunzio – Lucy Hughes-Hallett apre “The Pike”,
la biografia inglese del centocinquantenario, con D’Annunzio a Roma nel 1881,
ragazzo prodigio, con due apprezzate raccolte di poesia a 17 anni, riccioluto,
e quindi, nella complessione minuta, faunesco. Quello che D’Annunzio fu, prima
che politicante, e superomista di se stesso – benché a spese di Nietzsche. Un poeta
le cui parole e la cui voce a lungo incanteranno l’Europa di Fine Secolo. Le
donne – la biografa ne ricorda alcune: Ida Rubinstein, Isadora Duncan, le
aristocratiche di Roma e Parigi. E gli uomini, di qualità: Harold Nicholson,
James (“Temi e finezza straordinari”), Joyce (uno dei “tre più talentuosi
scrittori” del tardo Ottocento, con Kipling e Tolstòj, e il solo scrittore
europeo ad avere aperto spazi nuovi alla narrativa dopo Flaubert).
Dante – La “Commedia” Walter Siti dice “un instant book”. Questa
mancava.
Pasolini non ne sarebbe
stato contento, ma l’editoria lo classificherebbe oggi così – con l’eternità in
un istante e analoghe infiorettature.
Gelosia - “Bach,
nato in Germania, fu educato a Napoli”, è l’esordio di Stendhal musicologo: “Lo
si ama per la dolcezza delle sue composizioni. La musica del duetto «Se mai più
sarò geloso» figurerebbe con vantaggio fra quelle dei migliori maestri….”. Bach
è Johann Christian, “Giovannino”.
Machiavelli – Fu pluralista – non nel senso
corrente, politico, del termine, ma dell’etica, dei fini ultimi.
Per il cinquantenario della
nascita della rivista, la “New York Review of books” riedita alcuni dei suoi migliori
articoli. Quello del 7 marzo è un estratto di un saggio che Isaiah Berlin
pubblicò nel numero del 4 novembre 1971, come ”supplemento speciale”, un testo
di una cinquantina di cartelle, “The question of Machiavelli” – pubblicato in
una prima redazione, “The Originality of Machiavelli” due anni prima, e poi
ripreso nella raccolta “Controcorrente”. Il titolo Berlin deriva da Croce, che aveva
concluso il suo lungo saggio dicendo che la questione di Machiavelli è una che
resterà sempre aperta. Berlin fa sua la questione sin dalle prime righe: il “Principe”
e i “Discorsi” sono”singolarmente lucidi, succinti, e pungenti”, singolarmente
per dei trattati politici, “di non eccessiva lunghezza ma ugualmente chiari e
definiti”. Qual è allora la difficoltà in cui tutti i commentatori si trovano di definire Machiavelli? Nel suo
pluralismo (una conclusione analizzata in dettaglio da Giuliano Manselli,
“Isaiah Berlin e lo scioccante pluralismo di Machiavelli”, in A.Arienzo-G.Borrelli,
a cura di, “Anglo-American faces of Machiavelli”, 2009, pp. 457-485): “L’esito
cardinale di Machiavelli è la sua esposizione in un dilemma insolubile, la
semina di un punto interrogativo permanente nel sentiero della posterità. Il
riconoscimento de facto che dei fini
ugualmente ultimi, ugualmente sacri, possono contraddirsi l’uno con l’altro,
che interi sistemi di valori possono entrare in collisione senza possibilità di
arbitraggio razionale, e questo non soltanto in circostanze eccezionali – lo scontro
di Antigone e Cleone o nella storia di Tristano – ma (questo era sicuramente
una novità) come parte della normale situazione umana”..
Pinocchio – Ma non è il racconto della paternità senza
madre, un secolo e mezzo prima? Si risolverebbe così il quesito che a lungo ha
angustiato gli amanti di “Pinocchio”, Calvino per esempio. Che Paolo Fabbri, il
semiologo più acuto che il burattino ha avuto, evidenzia in “un certo «mitismo», cioè la capacità di essere
tradotto sostenendo tutte le trasformazioni e mantenendo comunque la propria
identità”. Una dote unica, sostiene Fabbri, ma senza saperla spiegare: “Ci sono
opere in cui la variazione di parti provoca un'alterazione irreversibile. «Pinocchio» invece resiste alla traduzione
linguistica e semiotica, alla trasformazione semantica e al tradimento”. Ma
perché resiste, qual è il segreto?
Vari “segreti”
sono stati individuati. Pinocchio è metamorfico – anche incoerente: ora obbediente
ora disobbediente, ora generoso ora di legno, ora animale ora umano. E sempre
incompleto, la “cosa” vegetale che sempre ributta. Questo è l’aspetto che ha
incuriosito Manganelli, “Pinocchio, un libro parallelo” (Manganelli fu padre ma
si rifiutò in quanto tale, volendo essere lui il bambino): i carabinieri
vogliono prendere Pinocchio per le orecchie ma Geppetto s’è dimenticato di
fargliele, Pinocchio si vuole mettere le mani nei capelli, ma non sono stati
finiti, si brucia i piedi e Geppetto glieli rifà, si riveste in mare con
un sacco dei lupini….
Morfologicamente,
e quindi narrativamente, Pinocchio è variabile. Sembrerebbe ovvio, essendo il lungo
racconto scritto a puntate sul giornale. Ma cambia (sorprende) ogni paio di pagine. Dunque beneficia
dell’incoerenza. E in questa incoerenza si possono classificare tutte le variabili.
L’ambivalenza è soprattutto variata per la figura femminile, la Fata Turchina, che
è anzi polivalente: ora fidanzata, ora
madre, ora taumaturga – trasformerà il burattino in bambino.
La paternità senza madre potrebbe essere la chiave della resilience di Pinocchio, della sua irriducibilità (“alla traduzione linguistica e semiotica” di Fabbri, “alla trasformazione semantica e al tradimento”). È la versione, non detta ma percepibile, e più dai bambini, dell’ultimo “Pinocchio” al cinema, il cartone animato di D’Alò e Marino, e la chiave del successo di pubblico, pur in assenza di effetti speciali e grandiloquenze. Gli autori del soggetto e della sceneggiatura, D’Alò e Umberto Marino, hanno puntato sul solo rapporto tra Pinocchio e il padre, il resto è tutto umori passeggeri, i cattivi compagni, i carabinieri e il giudice, il gatto e la volpe, Mangiafuoco, Lucignolo, la stessa balena-pescecane, e la Fata Turchina.
La paternità senza madre potrebbe essere la chiave della resilience di Pinocchio, della sua irriducibilità (“alla traduzione linguistica e semiotica” di Fabbri, “alla trasformazione semantica e al tradimento”). È la versione, non detta ma percepibile, e più dai bambini, dell’ultimo “Pinocchio” al cinema, il cartone animato di D’Alò e Marino, e la chiave del successo di pubblico, pur in assenza di effetti speciali e grandiloquenze. Gli autori del soggetto e della sceneggiatura, D’Alò e Umberto Marino, hanno puntato sul solo rapporto tra Pinocchio e il padre, il resto è tutto umori passeggeri, i cattivi compagni, i carabinieri e il giudice, il gatto e la volpe, Mangiafuoco, Lucignolo, la stessa balena-pescecane, e la Fata Turchina.
Siciliano - Andrea Camilleri lo ripropone come lingua
nell’ultimo romanzo storico, “La rivoluzione della luna”. Come lingua viva cioè,
non più come sottolineatura provinciale, locale, di racconti italiani –
Montalbano è quello della televisione, di Degli Esposti e Alberto Sironi, dove
il dialetto è caratterizzazione, quella
in uso tra i comici. In mistilinguisimo peraltro con lo spagnolo, quasi mai con
l’italiano. Con citazioni di Antonio Veneziano non più come poeta vernacolare ma come poeta in lingua.
Considerato che ”La
rivoluzione della luna” in tre giorni ha scalato la classifica dei libri più
venduti, il siciliano come lingua può dirsi anche una pretesa fondata. I
siculofoni sono cinque milioni – sette
con i calabrofoni, parlanti affini – e quindi una platea più vasta che per il sardo
(le varie lingue sarde), l’olandese, il fiammingo, gli ugrofinnici o i parlanti
scandinavi. In poesia la tradizione è peraltro sempre stata sostanziosa, e non riguardata come vernacolo.
In rapporto alle altre
lingue minori il siciliano non si fonderebbe su radicali differenziazioni: linguistiche, oppure religiose e dinastiche
come per le lingue germaniche. Il siciliano è un dialetto latino, e quindi poco
discosto dall’italiano. Ma come tradizione e mercato potrebbe configurarsi in
Italia come il catalano in Spagna, in rapporto al castigliano.
letterautore@antiit.eu
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