Alla fine, Milano, “la grande città”, è “industriale e
medievale insieme, affarista ed ascetica, spregiudicata e prudentissima, che
dovunque sospetta un’infrazione alla regola, all’ordine stabilito”. Da parte
degli altri, Ortese non lo dice ma lo sottintende – non lo dice perché fa suo l’abito
milanese della dissimulazione (“Milano “consiglia continuamente il silenzio,
predica incessantemente il silenzio”). Chi non fugge, pensa di farlo. “Il
professore privato, il pazzo”, alter ego anche fisico della scrittrice, vuole
andare a Parigi: “Mi assicurano che lassù l’uomo viene rispettato, la giustizia
viene distribuita con la bottiglia del latte, ogni mattina. Il sole, la sera, è
rosso per la grande stanchezza di aver illuminato tutti. I fiumi servono a
lavare indistintamente tutti gli uomini. V’è acqua, libertà, gioia”. Tutto ciò
che non v’è a Milano. Ma già presto “la capitale del lavoro italiano” è “quella
foresta di pietra vivente”.
Non è un rifiuto isolato. La scrittrice, nata a Roma,
ha vissuto a Napoli e in Liguria. A Milano c’è stata però per un lungo periodo,
quando pensava di farsi una professione nel giornalismo e come scrittrice. Il
suo è il rifiuto di tutti, compresi eminenti lombardi come Gadda e Arbasino, e
eccettuati alcuni napoletani – o forse il solo Marotta. Ma molto insidioso.
Anna Maria Ortese, Silenzio a Milano
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