Lev, il personaggio principale di questa narrazione, ne ha scritto nel 2006. Figes lo ha successivamente intervistato per mettere a punto la lettura. Ha intervistato lui e Sveta, la sua compagna, e altri loro compagni di sventura, che sembrano così immortali. Col corredo delle migliaia di lettere che i due innamorati si sono scritti durante la prigionia.
Lev è stato prima prigioniero dei tedeschi. Poi, come “spia dei tedeschi”, di Stalin. Spie tutti i prigionieri che si erano battuti per rientrare in patria a guerra finita? Era un’accusa di comodo, fare dei prigionieri dei tedeschi delle spie, per avere un mercato di schiavi del lavoro, è risaputo. Lev fu applicato allo sviluppo di Vorkuta, il bacino carbonifero prospiciente il mare di Kara, nel circolo polare artico, molto più a Nord di Arcangelo. Per dieci anni. Come 150 mila altri lavoratori forzati - una massa da ricostituire ogni anno poiché la maggior parte morivano. Ma Lev è sopravvissuto, a Hitler e a Stalin.
Una storia rinfrescante. Ha la densità delle lettere
dei condannati a morte della Resistenza. Ma una diversa vivacità e, si direbbe,
quasi una felicità. In quanto storia di un amore nel dolore. Del dolore fisico,
materiale. Imposto. Non quello che ognuno coltiva nella depressione o nel
lutto. Accontendandosi del niente - con la poetessa Vera Inber: “Perché tutto, quando uno soltanto è necessario?” Una lettura corroborante specie in questi giorni grigi di depressione da ingordigia, in questa Europa che è la più prosperosa al mondo, e quella parte di esso che ha più goduto di una lunga pace. Sullo sfondo però di un’ombra grave.
Questa storia d’amore, di due individui, rischia di
sostanziare la tesi di Nolte, che Hitler copiò da Stalin. Senza le asprezze polemiche
di Soljenitsin, lo storico Figes fa un quadro che non lascia dubbi. Dal “trasporto”
alle tecniche e organizzazioni carcerarie, Stalin è il maestro. In particolare
per la creazione di prigionieri “politici” da utilizzare quali schiavi. Le “spie” dei tedeschi come i “nazionalisti” polacchi, per portare un nome di origine polacca, i “trockisti”e ogni altro confinabile ad arbitrio, tutti in età lavorativa, fra i venti e i trenta anni. I campi
di lavoro sono gli stessi: filo spinato, torri di guardia con riflettori
notturni, libertà di arbitrio per i sorveglianti (percosse, furti, assassinii), le “colonne”, le stesse teorie
di baracche Bauhaus. Cambiano solo i nomi, “Shangai” per “Kanada”, il posto del
mercato nero, e via dei Soviet, o via 8 marzo “(in onore della giornata
internazionale delle donne)”.
Orlando Figes, Qualcosa
di più dell’amore, Neri Pozza, pp. 381 € 17
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