lunedì 22 aprile 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (168)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud paga di più
Soffrono di più nella crisi i mezzi di trasporto, la petrolchimica, i minerali non metalliferi e la gomma. E quindi, nell’ordine, la Sardegna, la Sicilia e la Campania, con un calo medio nelle tre regioni del 20 per cento. La documentazione predisposta dalla Banca d’Italia per il convegno a Napoli l’11 aprile su
“L’industria italiana e meridionale negli anni della crisi” rileva che nei cinque anni 2007-2011 la produzione industriale al Sud si è contratta del 17 per cento, al Centro-Nord del 10.

Va male per tutti e quindi il Sud ne soffre. Ma di più che nel resto d’Europa. Confrontando il Mezzogiorno con le altre regioni europee classificate “in ritardo di sviluppo”, negli anni tra il 2001 e il 2007, la Banca d’Italia rileva che nelle sei analoghe regioni spagnole il pil era cresciuto di quasi il 24 per cento, e di quasi il 12 nelle cinque regioni tedesche. E ciò dice “pari rispettivamente a oltre il sestuplo e a oltre il triplo della crescita rilevata nel Mezzogiorno”.

I miliardi di Monti infine disposti a pagamento delle imprese sono in realtà per le banche. He sono di Milano, come Monti. Gli imprenditori del Sud non avranno un euro, scopre “il Sole 24 Ore”.

Al Sud infine un record, seppure negativo, quello del prelievo Irpef locale. Paga per la sanità. Che non ha. La Regione Calabria, quella che più manda i suoi assistiti altrove in Italia e anche all’estero, ha il record del prelievo fiscale locale.
Con un reddito annuo di 20 mila euro, il calabrese ne paga circa 1.400 di Irpef locale – la media nazionale delle addizionali Irpef locali assomma a 428. Con un reddito di 36 mila euro ne paga circa 1.200. In barba alla progressività, ma sempre in prima posizione – la media nazionale è di 820 euro.

Le gabbie salariali esistono. Secondo i Conti territoriali dell’Istat nel 2010 il costo del lavoro unitario medio nell’industria era di 33.800 euro al Sud e di 42.000 al Centro-Nord. Una differenza di quasi un quinto, il 17,7 per cento.

La taranta del Cortegiano
L’ultima antropologia del Sud è quella di Ernesto De Martino, centrata sulla “taranta”, il fenomeno di possessione del Salento. Approfondita, mai discriminatoria, suggestiva, è anche l’ultima indagine onesta del Sud, utile cioè e intelligente. Ma la materia dell’antropologo era già nota nel Cinquecento, e oggetto di una lettura che trova più rispondenza nel modo d’essere, di porsi, del Sud, seppure maliziosa: dell’eccesso, dell’incontrollato. Carlo Ossola ne ha scritto sul “Sole 24 Ore” il 19 agosto 2012, a commento delle note di Leopardi, nello “Zibaldone”, sulla parola “tarantella”.
Delle “pazzie da spiritati” che “chiamansi in vulgar tarantolati” aveva scritto il Berni, nel rifacimento dell’“Orlando innamorato” (libro II, XVII, 5-6). E dei veleni che “in Puglia si fa contra” chi è stato morso dalla tarantola. Sul lasciarsi andare, cioè, a una gesticolazione furiosa in funzione calmante.
Nel “Libro del Cortegiano” di Baldassar Castiglione, prima del capitolo famoso sulla «sprezzatura» - l’etichetta interiore dell’uomo di corte – si parla delle “materie eleggibili”. E tra esse una s’impone, quella di agitarsi: «Che, come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s’adoprano molti instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienza ch’egli ha con alcuno di que’ suoni, sentendolo, subito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità, cosi noi, quando abbiamo sentito qualche naseosa virtù di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l’abbiamo stimulata e con si’ diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosi ben l’abbiam agitato, che sempre s’è ridutto a perfezion di publica pazzia; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infinito» (“Il Libro del Cortegiano”, I, VIII).
È un «gioco», benché rischioso («impazzirei nel pensare»): «Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per le scintille di pazzia che ogni di si veggono di me uscire;» (ib.). Se ne parlerà ancora al capitolo successivo, dove si vagheggia il «far anatomia de’ cori». La follia (il suono, la sensazione) viene poi molcita dalla pratica della conversazione – “star nelle parole” – e ricondotta anch’essa alle buone maniere. Ma si può, si deve, esprimersi esageratamente.

L’onesto giudice suicidato
Si suicida (“buona morte” assistita in Svizzera) il giudice Pietro D’Amico, accusato da De Magistris a Catanzaro di avere divulgato segreti d’ufficio e assolto due anni fa - insieme con gli altri giudici di Catanzaro e un carabiniere accusati dal giudice napoletano “con prove evidenti”. D’Amico aveva lasciato la magistratura dopo l’assoluzione. Ma non era sfuggito alla depressione – i suoi “amici” svizzeri dicono che ha voluto morire per questo.
Le cronache nazionali riportano il fatto, per molti aspetti “sensazionale”, due giorni dopo che la “Gazzetta del Sud” ne ha dato notizia. E si limitano a sintetizzare la “Gazzetta del Sud”. Niente inviati speciali per l’occasione, malgrado la straordinarietà del caso.
Le cronache di “Repubblica” e del “Corriere della sera”, seppure ricalcante sulla notizia della “Gazzetta del Sud”, omettono il nome di De Magistris: l’associazione mafiosa è con De Magistris o con la “giustizia”?
Il “caso” del giudice era romanzesco anche per il modo della morte. L’iscrizione a un’associazione svizzera di eutanasia. Il viaggio in automobile da solo da Vibo Valentia a San Gallo. Dove ha affrontato gli “esami” che la buona morte svizzera impone, per qualche giorno. Senza un cenno ai fratelli, a un amico. In altre circostanze avremmo avuto stuoli di inviati e torme di esperti, comparsate tv, numeri speciali di Vespa, di Santoro, per il giudice D’Amico niente. Non bisogna disturbare i giudici.

Mafia
S’incendia il Petruzzelli a Bari, s’incendia La Fenice a Venezia, s’incendiano il Duomo e il Palazzo Reala a Torino, ma siccome non c’è mafia non se ne trovano le cause o gli autori. Per Calvi invece la mafia è stata trovata, per il banchiere impiccato a Londra. In combutta con Gelli.

Va molto il “controllo del territorio”. Che c’è, la mafia “controlla il territorio”, ma non è politico, o sociale. Non è nemmeno economico. È solo criminale. Con pistolettate, incendi, bombe..

La parola Sciascia rintraccia la prima volta nel 1658, usata come aggettivo per una “magàra”, maga-megera: “Catarina la Licatica, nomata ancora maffia”.
Licata. Dunque è già quasi Camilleri. Che invece dalla mafia non è ossessionato, vivendo a Roma. Ma dello Stato-mafia sì, in obbedienza alla “linea”, oggi politicamente corretto.

Lo Stato-mafia è di Sciascia. Michele Pantaleone ne aveva scritto negli anni 1950, ma in termini di rapporto con la politica, con personaggi o attività (appalti, contributi, privilegi fiscali) della politica. Sciascia è invece apodittico, nella sua “Storia della mafia”, scritta per “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972, e ripresa ultimamente dalle edizioni Barion, pp.27-28: “Una storia della mafia altro non sarebbe… che una storia della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia e alla Repubblica, nella formazione a affermazione di una classe di potere improduttiva, parassitaria”.
Lo Stato è anche parte della sua definizione di mafia, apprezzata da molti come la più corrispondente: “La mafia è una’associazione per delinquere”, etc. etc., di “intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”.
Con incredibili forzature della storia. I “picciotti” affluiscono a Garibaldi obbedendo “alla volontà dei capi” – p. 29. I quali avevano un solo disegno: “Che la Sicilia diventasse una colonia agricola del Nord commerciale e industriale”. Proprio così, p.30. Con la connivenza, ancora un volta dello Stato: “Il che, ovviamente”, continua Sciascia, “non dispiaceva alla classe commerciale e industriale del Nord: e da ciò una più accentuata complicità dello Stato italiano nel’affermazione e nel consolidamento della classe borghese-mafiosa siciliana”..

Sciascia è “il primo scrittore che della mafia fece materia narrativa” (Salvatore Ferlita). E ci teneva. Lo scrive più volte a Calvino e Giulio Einaudi all’uscita del “Giorno della civetta” – che dice “titolo shakespeariano”: A Einaudi il 12 settembre 1960: “È la sola - come dire? – esemplificazione narrativa che sia stata data finora della mafia”.

L’uomo di mafia si manifesta solo per virtù della legge. Solo la legge (autorità giudiziaria, carabinieri) può identificarlo e emarginarlo. Altrimenti è uno come gli altri – il mafioso, non il killer: può essere vendicativo o minaccioso, ma normalmente è affabile, e sempre molto politico, dissimulatore cioè.
Questo Sciascia lo sapeva, che volle farsi presentare per curiosità al capo della mafia del suo tempo, Giuseppe Genco russo, e nel 1965 ne pubblicò un ritratto simpatetico su “Mondo nuovo”.

Il padrino era di Sciascia
Il Padrino di Mario Puzo è del 1969, lo “Zio di Sicilia” di Sciascia del 1965. Non il racconto dal titolo similare ma un ritratto-intervista con Giuseppe Genco Russo, il capo della mafia siciliana, che Sciascia aveva voluto conoscere, e finalmente c’era riuscito, grazie ai buoni uffici di un amico avvocato, e dopo vari rinvii. L’aveva pubblicato sulla rivista “Mondo nuovo” nel mese di giugno. Genco Russo era già una celebrità internazionale, Sciascia lo trova “splendidamente fotografato da un giornalista cileno” nello studio dell’avvocato intermediario, “tra vasi sicilioti e greci, con un bel ritratto di dama settecentesca sullo sfondo”. Ma il padrino di Puzo, e più ancora quello cinematografico, di Coppola, ha tutto del Genco Russo di Sciascia. La figura fisica, corpulenta, espressiva con la inespressività. L’eloquio lento: riflessivo, definitivo (sintetico, mai spavaldo). Il non negare, ma riaffermare sempre, modestamente, la propria autorità. L’opinione sui politici precisa, amici e nemici. La saggezza molto personale - “L’umanità è quella che è: ci sono i forti e i deboli, i furbi e gli allocchi. Sotto una pergola alta, solo la statura alta o l’ingegno consentono di arrivare ai grappoli”. Ha in più l’esperienza - che Puzo omette, avendo deciso di relegare la Sicilia a sfondo - di “quando vennero gli americani”.

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